Non s’impiegasser quì le nostre spade,
Ben tua speme fondar potresti in esse,
540 E soccorso trovar, non che pietade:
Ma se queste sue gregge, e queste oppresse
Mura non torniam prima in libertade,
Giusto non è, con iscemar le genti,
544 Che di nostra vittoria il corso allenti.
LXIX.
Ben ti prometto, e tu per nobil pegno
Mia fe ne prendi, e vivi in lei sicura;
Che se mai sottrarremo al giogo indegno
548 Queste sacre, e dal Ciel dilette mura;
Di ritornarti al tuo perduto regno,
Come pietà n’esorta, avrem poi cura.
Or mi farebbe la pietà men pio,
552 S’anzi il suo dritto io non rendessi a Dio.
LXX.
A quel parlar chinò la donna, e fisse
Le luci a terra, e stette immota alquanto:
Poi sollevolle rugiadose, e disse,
556 Accompagnando i flebil’atti al pianto:
Misera! ed a qual’altra il Ciel prescrisse
Vita mai grave, ed immutabil tanto?
Chè si cangia in altrui mente e natura,
560 Pria che si cangi in me sorte sì dura.
LXXI.
Nulla speme più resta: invan mi doglio:
Non han più forza in uman petto i preghi.
Forse lece sperar che ‘l mio cordoglio,
564 Che te non mosse, il reo Tiranno pieghi?
Nè già te d’inclemenza accusar voglio,
Perchè ‘l picciol soccorso a me si neghi;
Ma il Cielo accuso, onde il mio mal discende,
568 Che ‘n te pietade innesorabil rende.
LXXII.
Non tu, Signor, nè tua bontade è tale;
Ma ‘l mio destino è che mi nega aita:
Crudo destino, empio destin fatale,
572 Uccidi omai questa odiosa vita.
L’avermi priva, oimè, fu picciol male
De’ dolci padri in loro età fiorita;
Se non mi vedi ancor, del regno priva,
576 Qual vittima al coltello andar cattiva.
LXXIII.
Chè poichè legge d’onestate, e zelo
Non vuol che quì sì lungamente indugi,
A cui ricorro intanto? ove mi celo?
580 O quai contra il Tiranno avrò rifugj?
Nessun loco sì chiuso è sotto il Cielo,
Ch’a lor non s’apra: or perchè tanti indugj?
Veggio la morte, e se ‘l fuggirla è vano,
584 Incontro a lei n’andrò con questa mano.
LXXIV.
Quì tacque; e parve ch’un regale sdegno
E generoso l’accendesse in vista:
E ‘l piè volgendo, di partir fea segno,
588 Tutta negli atti dispettosa e trista.
Il pianto si spargea senza ritegno,
Com’ira suol produrlo a dolor mista:
E le nascenti lagrime, a vederle,
592 Erano a’ rai del Sol cristalli e perle.
LXXV.
Le guance asperse di que’ vivi umori,
Che giù cadean sin della veste al lembo,
Parean vermiglj insieme, e bianchi fiori;
596 Se pur gl’irriga un rugiadoso nembo,
Quando su l’apparir de’ primi albóri
Spiegano all’aure liete il chiuso grembo:
E l’alba che gli mira, e se n’appaga,
600 D’adornarsene il crin diventa vaga.
LXXVI.
Ma il chiaro umor, che di sì spesse stille
Le belle gote e ‘l seno adorno rende,
Opra effetto di foco, il qual in mille
604 Petti serpe celato, e vi s’apprende.
O miracol d’Amor, che le faville
Tragge del pianto, e i cor nell’acqua accende!
Sempre sovra natura egli ha possanza;
608 Ma in virtù di costei se stesso avanza.
LXXVII.
Questo finto dolor da molti elíce
Lagrime vere, e i cor più duri spetra.
Ciascun con lei s’affligge, e fra se dice:
612 Se mercè da Goffredo or non impetra,
Ben fu rabbiosa tigre a lui nutrice,
E ‘l produsse in aspr’alpe orrida pietra,
O l’onda che nel mar si frange e spuma:
616 Crudel, che tal beltà turba e consuma.
LXXVIII.
Ma il giovinetto Eustazio, in cui la face
Di pietade e d’amore è più fervente,
Mentre bisbiglia ciascun altro, e tace,
620 Si tragge avanti, e parla audacemente:
O germano e Signor, troppo tenace
Del suo primo proposto è la tua mente;
Se al consenso comun che brama e prega,
624 Arrendevole alquanto or non si piega.
LXXIX.
Non dico io già, che i Principi, che a cura
Si stanno quì de’ popoli soggetti,
Torcano il piè dalle oppugnate mura,
628 E sian gli uficj lor da lor negletti:
Ma fra noi che guerrier siam di ventura,
Senza alcun proprio peso, e meno astretti
Alle leggi degli altri, elegger diece
632 Difensori del giusto a te ben lece.
LXXX.
Ch’al servigio di Dio già non si toglie
L’uom ch’innocente vergine difende;
Ed assai care al Ciel son quelle spoglie,
636 Che d’ucciso tiranno altri gli appende.
Quando dunque all’impresa or non m’invoglie
Quell’util certo che da lei s’attende,
Mi ci move il dover, ch’a dar tenuto
640 È l’ordin nostro alle donzelle ajuto.
LXXXI.
Ah non sia ver, per Dio, che si ridica
In Francia, o dove in pregio è cortesia,
Che si fugga da noi rischio o fatica
644 Per cagion così giusta, e così pia.
Io per me quì depongo elmo e lorica:
Quì mi scingo la spada, e più non fia
Ch’adopri indegnamente arme o destriero,
648 O ‘l nome usurpi mai di cavaliero.
LXXXII.
Così favella, e seco in chiaro suono
Tutto l’ordine suo concorde freme;
E chiamando il consiglio utile e buono,
652 Co’ preghi il Capitan circonda e preme.
Cedo, egli disse allora, e vinto sono
Al concorso di tanti uniti insieme.
Abbia, se parvi, il chiesto don costei,
656 Dai vostri si, non dai consiglj miei.
LXXXIII.
Ma se Goffredo di credenza alquanto
Pur trova in voi, temprate i vostri affetti.
Tanto sol disse; e basta lor ben tanto,
660 Perchè ciascun quel ch’ei concede, accetti.
Or chè non può di bella donna il pianto,
Ed in lingua amorosa i dolci detti?
Esce da vaghe labbra aurea catena,
664 Che l’alme a suo voler prende ed affrena.
LXXXIV.
Eustazio lei richiama, e dice: omai
Cessi, vaga donzella, il tuo dolore:
Chè tal da noi soccorso in breve avrai,
668 Qual par che più richiegga il tuo timore.
Serenò allora i nubilosi rai
Armida, e sì ridente apparve fuore,
Ch’innamorò di sue bellezze il Cielo,
672 Asciugandosi gli occhj col bel velo.
LXXXV.
Rendè lor poscia in dolci e care note
Grazie per l’alte grazie a lei concesse,
Mostrando che sariano al mondo note
676 Mai sempre, e sempre nel suo core impresse:
E ciò che lingua esprimer ben non puote,
Muta eloquenza ne’ suoi gesti espresse:
E celò sì sotto mentito aspetto
680 Il suo pensier
, ch’altrui non diè sospetto.
LXXXVI.
Quinci vedendo che furtuna arriso
Al gran principio di sue frodi avea,
Prima che ‘l suo pensier le sia preciso,
684 Dispon di trarre al fine opra sì rea;
E far con gli atti dolci, e col bel viso,
Più che con l’arti lor Circe o Medea;
E in voce di Sirena, ai suoi concenti
688 Addormentar le più svegliate menti.
LXXXVII.
Usa ogni arte la donna, onde sia colto
Nella sua rete alcun novello amante:
Nè con tutti, nè sempre un stesso volto
692 Serba; ma cangia a tempo atti e sembiante.
Or tien pudíca il guardo in se raccolto;
Or lo rivolge cupido e vagante.
La sferza in quegli, il freno adopra in questi,
696 Come lor vede in amar lenti o presti.
LXXXVIII.
Se scorge alcun che dal suo amor ritiri
L’alma, e i pensier per diffidenza affrene;
Gli apre un benigno riso, e in dolci giri
700 Volge le luci in lui liete e serene:
E così i pigri e timidi desiri
Sprona, ed affida la dubbiosa spene:
Ed infiammando le amorose voglie,
704 Sgombra quel gel che la paura accoglie.
LXXXIX.
Ad altri poi, ch’audace il segno varca,
Scorto da cieco e temerario duce,
De’ cari detti, e de’ begli occhj è parca,
708 E in lui timore e riverenza induce:
Ma fra lo sdegno, onde la fronte è carca,
Pur anco un raggio di pietà riluce;
Sicch’altri teme ben, ma non dispera:
712 E più s’invoglia, quanto appar più altera.
XC.
Stassi talvolta ella in disparte alquanto,
E ‘l volto e gli atti suoi compone e finge
Quasi dogliosa; e infin su gli occhj il pianto
716 Tragge sovente, e poi dentro il respinge.
E con quest’arti a lagrimar intanto
Seco mill’alme semplicette astringe;
E in fuoco di pietà strali d’amore
720 Tempra, onde pera a sì fort’arme il core.
XCI.
Poi, siccome ella a quei pensier s’invole,
E novella speranza in lei si deste,
Ver gli amanti il piè drizza, e le parole,
724 E di gioja la fronte adorna e veste:
E lampeggiar fa quasi un doppio Sole,
Il chiaro sguardo, e ‘l bel riso celeste
Su le nebbie del duolo oscure e folte,
728 Ch’avea lor prima intorno al petto accolte.
XCII.
Ma mentre dolce parla, e dolce ride,
E di doppia dolcezza inebria i sensi;
Quasi dal petto lor l’alma divide,
732 Non prima usata a quei diletti immensi.
Ahi crudo Amor, ch’egualmente n’ancide
L’assenzio e ‘l mel, che tu fra noi dispensi:
E d’ogni tempo egualmente mortali
736 Vengon da te le medicine e i mali.
XCIII.
Fra sì contrarie tempre, in ghiaccio e in foco,
In riso e in pianto, e fra paura e spene,
Inforsa ognun suo stato; e di lor gioco,
740 L’ingannatrice donna, a prender viene.
E s’alcun mai con suon tremante e fioco
Osa, parlando, d’accennar sue pene;
Finge, quasi in amor rozza e inesperta,
744 Non veder l’alma ne’ suoi detti aperta.
XCIV.
O pur le luci vergognose e chine
Tenendo, d’onestà s’orna e colora;
Sicchè viene a celar le fresche brine
748 Sotto le rose, onde il bel viso infiora.
Qual nell’ore più fresche e mattutine
Del primo nascer suo veggiam l’aurora;
E ‘l rossor dello sdegno insieme n’esce
752 Con la vergogna, e si confonde e mesce.
XCV.
Ma se prima negli atti ella s’accorge
D’uom che tenti scoprir le accese voglie,
Or gli s’invola e fugge, ed or gli porge
756 Modo onde parli, e in un tempo il ritoglie.
Così il dì tutto in vano error lo scorge,
Stanco e deluso poi di speme il toglie.
Ei si riman, qual cacciator, ch’a sera
760 Perda alfin l’orma di seguita fera.
XCVI.
Queste fur l’arti, onde mill’alme e mille
Prender furtivamente ella poteo;
Anzi pur furon l’arme, onde rapille
764 Ed, a forza, d’Amor serve le feo.
Qual maraviglia or fia, se’l fero Achille
D’Amor fu preda, ed Ercole, e Teseo;
S’ancor chi per Gesù la spada cinge,
768 L’empio, ne’ laccj suoi talora stringe?
Canto quinto
ARGOMENTO.
Sdegna Gernando che Rinaldo aspire
Al grado ov’egli esser assunto agogna:
Perciò, ministro a se del suo morire,
Lui, che l’uccide poi, forte rampogna.
Va l’uccisor in bando: nè patire
Vuol che catena, o ceppi altri gli pogna.
Parte Armida contenta; ma dal mare
Vengono al gran Buglion novelle amare.
CANTO QUINTO.
Mentre in tal guisa i cavalieri alletta
Nell’amor suo l’insidiosa Armida,
Nè solo i dieci a lei promessi aspetta,
4 Ma di furto menarne altri confida;
Volge tra se Goffredo a cui commetta
La dubbia impresa, ov’ella esser dee guida;
Chè degli avventurier la copia e ‘l merto,
8 E ‘l desir di ciascuno il fanno incerto.
II.
Ma con provido avviso alfin dispone,
Ch’essi un di loro scelgano a sua voglia,
Che succeda al magnanimo Dudone,
12 E quella elezion sovra se toglia.
Così non avverrà ch’ei dia cagione
Ad alcun d’essi che di lui si doglia:
E insieme mostrerà d’aver nel pregio,
16 In cui debbe a ragion, lo stuolo egregio.
III.
A se dunque li chiama, e lor favella:
Stata è da voi la mia sentenza udita,
Ch’era, non di negare alla Donzella,
20 Ma di darle, in stagion matura, aita:
Di novo or la propongo, e ben puote ella
Esser dal parer vostro anco seguita;
Chè nel mondo mutabile e leggiero,
24 Costanza è spesso il variar pensiero.
IV.
Ma se stimate ancor, che mal convegna
Al vostro grado il rifiutar periglio:
E se pur generoso ardire sdegna
28 Quel che troppo gli par cauto consiglio;
Non sia ch’involontarj io vi ritegna,
Nè quel, che già vi diedi, or mi ripiglio;
Ma sia con esso voi, com’esser deve,
32 Il fren del nostro imperio lento e leve.
V.
Dunque lo starne o ‘l girne i’ son contento
Che dal vostro piacer libero penda.
Ben vuò che pria facciate al Duce spento
36 Successor nuovo, e di voi cura ei prenda:
E tra voi scelga i dieci a suo talento;
Non già di dieci il numero trascenda,
Ch’in questo il sommo imperio a me riservo:
40 Non fia l’arbitrio suo per altro servo.
VI.
Così disse Goffredo; e ‘l suo germano,
Consentendo ciascun, risposta diede:
Siccome a te conviensi, o Capitano,
44 Questa lenta virtù che lunge vede;
Così il vigor del core e della mano,
Quasi debi
to a noi, da noi si chiede:
E saria la matura tarditate,
48 Ch’in altri è provvidenza, in noi viltate.
VII.
E poichè ‘l rischio è di sì leve danno
Posto in lance col pro, che ‘l contrappesa;
Te permettente, i dieci eletti andranno
52 Con la Donzella all’onorata impresa.
Così conclude; e con sì adorno inganno
Cerca di ricoprir la mente accesa
Sotto altro zelo: e gli altri anco d’onore
56 Fingon desio, quel ch’è desio d’amore.
VIII.
Ma il più giovin Buglione, il qual rimira
Con geloso occhio il figlio di Sofia,
La cui virtute invidiando ammira,
60 Che in sì bel corpo più cara venia;
Nol vorrebbe compagno, e al cor gli inspira
Cauti pensier l’astuta gelosia;
Onde, tratto il rivale a se, in disparte
64 Ragiona a lui con lusinghevol’arte.
IX.
O di gran genitor maggior figliuolo,
Che ‘l sommo pregio in arme hai giovinetto:
Or chi sarà del valoroso stuolo,
68 Di cui parte noi siamo, in Duce eletto?
Io, ch’a Dudon famoso appena, e solo
Per l’onor dell’età, vivea soggetto:
Io, fratel di Goffredo, a chi più deggio
72 Cedere omai? Se tu non sei, nol veggio.
X.
Te, la cui nobiltà tutt’altre agguaglia,
Gloria e merito d’opre a me prepone:
Nè sdegnerebbe, in pregio di battaglia,
76 Minor chiamarsi anco il maggior Buglione;
Te dunque in Duce bramo, ove non caglia
A te di questa Sira esser campione:
Nè già cred’io che quell’onor tu curi,
80 Che da’ fatti verrà notturni e scuri.
XI.
Nè mancherà quì loco, ove s’impieghi
Con più lucida fama il tuo valore.
Or io procurerò, se tu nol nieghi,
84 Ch’a te concedan gli altri il sommo onore.
Ma perchè non so ben dove si pieghi
L’irresoluto mio dubbioso core,
Impetro or io da te, ch’a voglia mia
88 O segua poscia Armida, o teco stia.
XII.
Qui tacque Eustazio, e questi estremi accenti
Non proferì senza arrossirsi in viso:
E i mal celati suoi pensieri ardenti
92 L’altro ben vide, e mosse ad un sorriso.
Ma perch’a lui colpi d’amor più lenti
Non hanno il petto oltre la scorza inciso;
Nè molto impaziente è di rivale,
96 Nè la Donzella di seguir gli cale.
XIII.
Ben altamente ha nel pensier tenace
L’acerba morte di Dudon scolpita:
E si reca a disnor, ch’Argante audace
100 Gli soprastía lunga stagion in vita:
E parte di sentire anco gli piace
Quel parlar, ch’al dovuto onor l’invita:
Jerusalem Delivered Page 117