Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 123

by Torquato Tasso


  144 E in giro accolto poi lo stringe insieme.

  XIX.

  Sovente, allor che su gli estivi ardori

  Giacean le pecorelle all’ombra assise,

  Nella scorza de’ faggj e degli allori

  148 Segnò l’amato nome in mille guise:

  E de’ suoi strani ed infelici amori

  Gli aspri successi in mille piante incise:

  E in rileggendo poi le proprie note

  152 Rigò di belle lagrime le gote.

  XX.

  Indi dicea piangendo: in voi serbate

  Questa dolente istoria, amiche piante:

  Perchè se fia ch’alle vostr’ombre grate

  156 Giammai soggiorni alcun fedele amante,

  Senta svegliarsi al cor dolce pietate

  Delle sventure mie sì varie e tante:

  E dica: ah troppo ingiusta empia mercede

  160 Diè Fortuna ed Amore a sì gran fede!

  XXI.

  Forse avverrà, se ‘l Ciel benigno ascolta

  Affettuoso alcun prego mortale,

  Che venga in queste selve anco tal volta

  164 Quegli, a cui di me forse or nulla cale:

  E rivolgendo gli occhj ove sepolta

  Giacerà questa spoglia inferma e frale,

  Tardo premio conceda a’ miei martiri

  168 Di poche lagrimette, e di sospiri.

  XXII.

  Onde, se in vita il cor misero fue,

  Sia lo spirito in morte almen felice:

  E ‘l cener freddo delle fiamme sue

  172 Goda quel ch’or godere a me non lice.

  Così ragiona ai sordi tronchi, e due

  Fonti di pianto da’ begli occhj elíce.

  Tancredi intanto, ove fortuna il tira

  176 Lunge da lei, per lei seguir, s’aggira.

  XXIII.

  Egli, seguendo le vestigia impresse,

  Rivolse il corso alla selva vicina.

  Ma quivi dalle piante orride e spesse

  180 Nera e folta così l’ombra dechina;

  Che più non può raffigurar tra esse

  L’orme novelle, e ‘n dubbio oltre cammina,

  Porgendo intorno pur l’orecchie intente,

  184 Se calpestío, se romor d’armi sente.

  XXIV.

  E se pur la notturna aura percuote

  Tenera fronde mai d’olmo o di faggio:

  O se fera od augello un ramo scuote;

  188 Tosto a quel picciol suon drizza il viaggio.

  Esce alfin della selva, e per ignote

  Strade il conduce dela Luna il raggio

  Verso un romor che di lontano udiva,

  192 Insin che giunse al loco ond’egli usciva.

  XXV.

  Giunse dove sorgean da vivo sasso

  In molta copia chiare e lucide onde:

  E fattosene un rio volgeva abbasso

  196 Lo strepitoso piè tra verdi sponde.

  Quivi egli ferma addolorato il passo,

  E chiama, e solo ai gridi Eco risponde:

  E vede intanto con serene ciglia

  200 Sorger l’aurora candida e vermiglia.

  XXVI.

  Geme cruccioso, e incontra il Ciel si sdegna

  Che sperata gli neghi alta ventura:

  Ma della donna sua, quand’ella vegna

  204 Offesa pur, far la vendetta giura.

  Di rivolgersi al campo alfin disegna,

  Benchè la via trovar non s’assicura;

  Chè gli sovvien che presso è il dì prescritto

  208 Che pugnar dee col cavalier d’Egitto.

  XXVII.

  Partesi, e mentre va per dubbio calle,

  Ode un corso appressar ch’ognor s’avvanza:

  Ed alfine spuntar d’angusta valle

  212 Vede uom che di corriero avea sembianza.

  Scotea mobile sferza, e dalle spalle

  Pendea il corno sul fianco a nostra usanza.

  Chiede Tancredi a lui, per quale strada

  216 Al campo de’ Cristiani indi si vada.

  XXVIII.

  Quegli Italico parla: Or là m’invio,

  Dove m’ha Boemondo in fretta spinto.

  Segue Tancredi lui che del gran zio

  220 Messaggio stima, e crede al parlar finto.

  Giungono al fin là dove un sozzo e rio

  Lago impaluda, ed un castel n’è cinto,

  Nella stagion che ‘l Sol par che s’immerga

  224 Nell’ampio nido ove la notte alberga.

  XXIX.

  Suona il corriero in arrivando il corno,

  E tosto giù calar si vede un ponte.

  Quando Latin sia tu, quì far soggiorno

  228 Potrai, gli dice, infin che ‘l Sol rimonte;

  Chè questo loco, e non è il terzo giorno,

  Tolse ai Pagani di Cosenza il Conte.

  Mira il loco il Guerrier, che d’ogni parte

  232 Inespugnabil fanno il sito e l’arte.

  XXX.

  Dubita alquanto poi ch’entro sì forte

  Magione alcuno inganno occulto giaccia.

  Ma come avvezzo ai rischj della morte,

  236 Motto non fanne, e nol dimostra in faccia;

  Ch’ovunque il guidi elezione o sorte,

  Vuol che sicuro la sua destra il faccia.

  Pur l’obligo ch’egli ha d’altra battaglia,

  240 Fa che di nova impresa or non gli caglia.

  XXXI.

  Sicchè incontra al castello, ove in un prato

  Il curvo ponte si distende e posa,

  Ritiene alquanto il passo, ed invitato

  244 Non segue la sua scorta insidiosa.

  Sul ponte intanto un cavaliero armato

  Con sembianza apparia fera e sdegnosa;

  Ch’avendo nella destra il ferro ignudo,

  248 In suon parlava minaccioso e crudo.

  XXXII.

  O tu, che (siasi tua fortuna, o voglia)

  Al paese fatal d’Armida arrive,

  Pensi indarno al fuggire: or l’arme spoglia,

  252 E porgi ai laccj suoi le man cattive.

  Entra pur dentro alla guardata soglia

  Con queste leggi ch’ella altrui prescrive:

  Nè più sperar di riveder il cielo

  256 Per volger d’anni, o per cangiar di pelo,

  XXXIII.

  Se non giuri d’andar con gli altri sui

  Contra ciascun che da Gesù s’appella.

  S’affisa a quel parlar Tancredi in lui,

  260 E riconosce l’arme, e la favella.

  Rambaldo di Guascogna era costui,

  Che partì con Armida, e sol per ella

  Pagan si fece, e difensor divenne

  264 Di quell’usanza rea ch’ivi si tenne.

  XXXIV.

  Di santo sdegno il pio guerrier si tinse

  Nel volto, e gli rispose: empio fellone,

  Quel Tancredi son io che ‘l ferro cinse

  268 Per Cristo sempre, e fui di lui campione:

  E in sua virtute i suoi rubelli vinse,

  Come vuò che tu veggia al paragone;

  Chè dall’ira del Ciel ministra eletta

  272 È questa destra a far di te vendetta.

  XXXV.

  Turbossi, udendo il glorioso nome,

  L’empio guerriero, e scolorissi in viso.

  Pur celando il timor, gli disse: or come,

  276 Misero, vieni ove rimanga ucciso?

  Quì saran le tue forze oppresse e dome,

  E questo altero tuo capo reciso:

  E manderollo ai Duci Franchi in dono,

  280 S’altro da quel che soglio oggi non sono.

  XXXVI.

  Così dice il Pagano; e perchè il giorno

  Spento era omai, sì che vedeasi appena;

  Apparir tante lampade d’intorno,

  284 Che ne fu l’aria lucida e serena.

  Splende il castel, come in teatro adorno

  Suol fra notturne pompe altera scena:

  Ed in eccelsa part
e Armida siede,

  288 Onde, senz’esser vista, ed ode e vede.

  XXXVII.

  Il magnanimo eroe frattanto appresta

  Alla fera tenzon l’arme e l’ardire:

  Nè sul debil cavallo assiso resta,

  292 Già veggendo il nemico a piè venire.

  Vien chiuso nello scudo, e l’elmo ha in testa,

  La spada nuda, e in atto è di ferire.

  Gli move incontra il Principe feroce

  296 Con occhi torvi, e con terribil voce.

  XXXVIII.

  Quegli con larghe rote aggira i passi

  Stretto nell’armi, e colpi accenna e finge.

  Questi, sebben ha i membri infermi e lassi,

  300 Va risoluto, e gli s’appressa, e stringe:

  E là donde Rambaldo addietro fassi,

  Velocissimamente egli si spinge:

  E s’avanza, e l’incalza, e fulminando

  304 Spesso alla vista gli dirizza il brando.

  XXXIX.

  E più ch’altrove, impetuoso fere

  Ove più di vital formò natura,

  Alle percosse le minacce altere

  308 Accompagnando, e ‘l danno alla paura.

  Di qua, di là si volge, e sue leggiere

  Membra il presto Guascone ai colpi fura:

  E cerca or con lo scudo, or con la spada,

  312 Che ‘l nemico furore indarno cada.

  XL.

  Ma veloce allo schermo ei non è tanto,

  Che più l’altro non sia pronto alle offese.

  Già spezzato lo scudo, e l’elmo infranto,

  316 E forato e sanguigno avea l’arnese:

  E colpo alcun de’ suoi, che tanto o quanto

  Impiagasse il nemico, anco non scese:

  E teme, e gli rimorde insieme il core

  320 Sdegno, vergogna, conscienza, amore.

  XLI.

  Disponsi alfin con disperata guerra

  Far prova omai dell’ultima fortuna.

  Gitta lo scudo, ed a due mani afferra

  324 La spada ch’è di sangue ancor digiuna:

  E col nemico suo si stringe e serra,

  E cala un colpo, e non v’è piastra alcuna

  Che gli resista sì, che grave angoscia

  328 Non dia piagando alla sinistra coscia.

  XLII.

  E poi su l’ampia fronte il ripercuote,

  Sicchè ‘l picchio rimbomba in suon di squilla:

  L’elmo non fende già, ma lui ben scuote,

  332 Talch’egli si rannicchia, e ne vacilla.

  Infiamma d’ira il Principe le gote,

  E negli occhj di foco arde e sfavilla:

  E fuor della visiera escono ardenti

  336 Gli sguardi, e insieme lo stridor de’ denti.

  XLIII.

  Il perfido Pagan già non sostiene

  La vista pur di sì feroce aspetto.

  Sente fischiare il ferro, e tra le vene

  340 Già gli sembra d’averlo, e in mezzo al petto.

  Fugge dal colpo, e ‘l colpo a cader viene

  Dove un pilastro è contra il ponte eretto.

  Ne van le schegge e le scintille al cielo,

  344 E passa al cor del traditore un gelo.

  XLIV.

  Onde al ponte rifugge, e sol nel corso

  Della salute sua pone ogni speme.

  Ma il seguita Tancredi, e già sul dorso

  348 La man gli stende, e ‘l piè col piè gli preme;

  Quando ecco (al fuggitivo alto soccorso)

  Sparir le faci, ed ogni stella insieme:

  Nè rimaner all’orba notte alcuna,

  352 Sotto povero ciel, luce di Luna.

  XLV.

  Fra l’ombre della notte e degl’incanti

  Il vincitor nol segue più, nel vede:

  Nè può cosa vedersi a lato, o innanti,

  356 E muove dubbio e mal sicuro il piede.

  Sul limitar d’un uscio i passi erranti

  A caso mette, nè d’entrar s’avvede;

  Ma sente poi che suona a lui diretro

  360 La porta, e ‘n loco il serra oscuro e tetro.

  XLVI.

  Come il pesce colà dove impaluda

  Ne’ seni di Comacchio il nostro mare,

  Fugge dall’onda impetuosa e cruda,

  364 Cercando in placide acque ove ripare:

  E vien che da se stesso ei si rinchiuda

  In palustre prigion, nè può tornare;

  Chè quel serraglio è con mirabil uso

  368 Sempre all’entrar aperto, all’uscir chiuso.

  XLVII.

  Così Tancredi allor, qual che si fosse

  Dell’estrania prigion l’ordigno e l’arte,

  Entrò per se medesmo, e ritrovosse

  372 Poi là rinchiuso, ond’uom per se non parte.

  Ben con robusta man la porta scosse,

  Ma fur le sue fatiche indarno sparte;

  E voce intanto udì che, indarno, grida,

  376 Uscir procuri, o prigionier d’Armida.

  XLVIII.

  Quì menerai (non temer già di morte)

  Nel sepolcro de’ vivi i giorni, e gli anni.

  Non risponde, ma preme il Guerrier forte

  380 Nel cor profondo i gemiti e gli affanni:

  E fra se stesso accusa amor, la sorte,

  La sua schiocchezza e gli altrui feri inganni:

  E talor dice, in tacite parole,

  384 Leve perdita fia perdere il Sole.

  XLIX.

  Ma di più vago Sol più dolce vista

  Misero i’ perdo, e non so già se mai

  In loco tornerò che l’alma trista

  388 Si rassereni agli amorosi rai.

  Poi gli sovvien d’Argante, e più s’attrista:

  E troppo, dice, al mio dover mancai:

  Ed è ragion ch’ei mi disprezzi e scherna.

  392 O mia gran colpa, o mia vergogna eterna!

  L.

  Così d’amor, d’onor cura mordace

  Quinci e quindi al Guerrier l’animo rode.

  Or mentre egli s’affligge, Argante audace

  396 Le molli piume di calcar non gode;

  Tanto è nel crudo petto odio di pace,

  Cupidigia di sangue, amor di lode;

  Che delle piaghe sue non sano ancora

  400 Brama che ‘l sesto dì porti l’aurora.

  LI.

  La notte che precede, il Pagan fero

  Appena inchina per dormir la fronte:

  E sorge poi che ‘l cielo anco è sì nero,

  404 Che non dà luce in su la cima al monte.

  Recami l’arme, grida al suo scudiero,

  E quegli aveale apparecchiate e pronte:

  Non le solite sue; ma dal Re sono

  408 Dategli queste, e prezioso è il dono.

  LII.

  Senza molto mirarle egli le prende,

  Nè dal gran peso è la persona onusta;

  E la solita spada al fianco appende,

  412 Ch’è di tempra finissima e vetusta.

  Qual con le chiome sanguinose orrende

  Splender cometa suol per l’aria adusta,

  Che i regni muta, i feri morbi adduce,

  416 E ai purpurei Tiranni infausta luce;

  LIII.

  Tal nell’arme ei fiammeggia, e bieche e torte

  Volge le luci ebre di sangue e d’ira.

  Spirano gli atti feri orror di morte,

  420 E minacce di morte il volto spira.

  Alma non è così sicura e forte

  Che non paventi, ove un sol guardo gira.

  Nuda ha la spada, e la solleva, e scuote

  424 Gridando, e l’aria, e l’ombre invan percuote.

  LIV.

  Ben tosto, dice, il predator Cristiano,

  Ch’audace è sì ch’a me vuole agguagliarsi,

  Caderà vinto e sanguinoso al piano,

  428 Bruttando nella polve i crini sparsi;

  E vedrà vivo ancor da questa mano,

  A
d onta del suo Dio, l’arme spogliarsi:

  Nè, morendo, impetrar potrà co’ preghi

  432 Che in pasto a’ cani le sue membra i’ neghi.

  LV.

  Non altramente il tauro, ove l’irriti

  Geloso amor con stimoli pungenti,

  Orribilmente mugge, e co’ muggiti

  436 Gli spirti in se risveglia, e l’ire ardenti,

  E ‘l corno aguzza ai tronchi; e par ch’inviti

  Con vani colpi alla battaglia i venti:

  Sparge col piè l’arena, e ‘l suo rivale

  440 Da lunge sfida a guerra aspra e mortale.

  LVI.

  Da sì fatto furor commosso, appella

  L’araldo, e con parlar tronco gl’impone:

  Vattene al campo, e la battaglia fella

  444 Nunzia a colui ch’è di Gesù campione.

  Quinci alcun non aspetta, e monta in sella

  E fa condursi innanzi il suo prigione.

  Esce fuor della terra, e per lo colle

  448 In corso vien precipitoso e folle.

  LVII.

  Dà fiato intanto al corno, e n’esce un suono

  Che d’ogn’intorno orribile s’intende:

  E in guisa pur di strepitoso tuono

  452 Gli orecchj e ‘l cor degli ascoltanti offende.

  Già i Principi Cristiani accolti sono

  Nella tenda maggior dell’altre tende.

  Quì fè l’araldo sue disfide, e incluse

  456 Tancredi pria, nè però gli altri escluse.

  LVIII.

  Goffredo intorno gli occhj gravi e tardi

  Volge con mente allor dubbia e sospesa:

  Nè perchè molto pensi e molto guardi,

  460 Atto gli s’offre alcuno a tanta impresa.

  Vi manca il fior de’ suoi guerrier gagliardi:

  Di Tancredi non s’è novella intesa;

  E lunge è Boemondo, ed ito è in bando

  464 L’invitto Eroe ch’uccise il fier Gernando.

  LIX.

  Ed oltre i dieci che fur tratti a sorte,

  I migliori del campo e i più famosi

  Seguir d’Armida le fallaci scorte,

  468 Sotto il silenzio della notte ascosi.

  Gli altri, di mano e d’animo men forte,

  Taciti se ne stanno e vergognosi:

  Nè v’è chi cerchi in sì gran rischio onore;

  472 Chè vinta la vergogna è dal timore.

  LX.

  Al silenzio, all’aspetto, ad ogni segno,

  Di lor temenza il Capitan s’accorse;

  E tutto pien di generoso sdegno,

  476 Dal loco ove sedea repente sorse,

  E disse: ah ben sarei di vita indegno,

  Se la vita negassi or porre in forse,

  Lasciando ch’un Pagan, così vilmente

  480 Calpestasse l’onor di nostra gente.

  LXI.

  Sieda in pace il mio campo, e, da sicura

  Parte, miri ozioso il mio periglio.

  Su su datemi l’arme: e l’armatura

  484 Gli fu recata in un girar di ciglio.

  Ma il buon Raimondo, che in età matura

 

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