Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 147

by Torquato Tasso

Così parla Vafrino, e non trattiensi;

  Ma cangia in lungo manto il suo farsetto:

  E mostra fa del nudo collo: e prende

  472 D’intorno al capo attorcigliate bende.

  LX.

  La faretra s’adatta, e l’arco Siro:

  E barbarico sembra ogni suo gesto.

  Stupiron quei che favellar l’udiro,

  476 Ed in diverse lingue esser sì presto,

  Ch’Egizio in Menfi, o pur Fenice in Tiro

  L’avria creduto e quel popolo e questo.

  Egli sen va sovra un destrier ch’appena

  480 Segna nel corso la più molle arena.

  LXI.

  Ma i Franchi, pria che ‘l terzo dì sia giunto,

  Appianaron le vie scoscese e rotte:

  E finir gl’instromenti anco in quel punto,

  484 Chè non fur le fatiche unqua interrotte;

  Anzi all’opre de’ giorni avean congiunto,

  Togliendola al riposo, anco la notte.

  Nè cosa è più che ritardar gli possa

  488 Dal far l’estremo omai d’ogni lor possa.

  LXII.

  Del dì, cui dell’assalto il dì successe,

  Gran parte orando il pio Buglion dispensa:

  E impon che ogn’altro i falli suoi confesse,

  492 E pasca il pan dell’alme alla gran mensa.

  Machine ed arme poscia ivi più spesse

  Dimostra, ove adoprarle egli men pensa.

  E ‘l deluso Pagan si riconforta,

  496 Ch’oppor le vede alla munita porta.

  LXIII.

  Col bujo della notte è poi la vasta

  Agil machina sua colà traslata,

  Ove è men curvo il muro, e men contrasta,

  500 Ch’angulosa non fa parte, e piegata.

  E d’in sul colle alla Città sovrasta

  Raimondo ancor con la sua torre armata.

  La sua Camillo a quel lato avvicina,

  504 Che dal Borea all’Occaso alquanto inchina.

  LXIV.

  Ma come furo in Oriente apparsi

  I mattutini messaggier del Sole,

  S’avvidero i Pagani (e ben turbarsi)

  508 Che la torre non è dove esser suole:

  E mirar quinci e quindi anco innalzarsi,

  Non più veduta, una ed un’altra mole.

  E in numero infinito anco son viste

  512 Catapulte, monton, gatti, e baliste.

  LXV.

  Non è la turba di Soria già lenta

  A trasportarne là molte difese,

  Ove il Buglion le machine appresenta

  516 Da quella parte, ove primier l’attese.

  Ma il Capitan, ch’a tergo aver rammenta

  L’oste d’Egitto, ha quelle vie già prese.

  E Guelfo, e i due Roberti a se chiamati:

  520 State, dice, a cavallo in sella armati.

  LXVI.

  E procurate voi che mentre ascendo

  Colà dove quel muro appar men forte,

  Schiera non sia che subita venendo

  524 S’atterghi agli occupati, e guerra porte.

  Tacque; e già da tre lati assalto orrendo

  Movon le tre sì valorose scorte.

  E da tre lati ha il Re sue genti opposte:

  528 Chè riprese quel dì l’arme deposte.

  LXVII.

  Egli medesmo al corpo omai tremante

  Per gli anni, e grave del suo proprio pondo,

  L’arme che disusò gran tempo innante,

  532 Circonda, e se ne va contra Raimondo.

  Solimano a Goffredo, e ‘l fero Argante

  Al buon Camillo oppon, che di Boemondo

  Seco ha il nipote: e lui fortuna or guida,

  536 Perchè ‘l nemico a se dovuto uccida.

  LXVIII.

  Incominciaro a saettar gli arcieri,

  Infette di veleno, arme mortali:

  Ed adombrato il Ciel par che s’anneri

  540 Sotto un immenso nuvolo di strali.

  Ma con forza maggior colpi più feri

  Ne venian dalle machine murali.

  Indi gran palle uscian marmoree e gravi,

  544 E con punta d’acciar ferrate travi.

  LXIX.

  Par fulmine ogni sasso, e così trita

  L’armatura e le membra a chi n’è colto,

  Che gli toglie non pur l’alma e la vita,

  548 Ma la forma del corpo anco e del volto.

  Non si ferma la lancia alla ferita:

  Dopo il colpo del corso avanza molto:

  Entra da un lato, e fuor per l’altro passa

  552 Fuggendo, e nel fuggir la morte lassa.

  LXX.

  Ma non togliea però dalla difesa

  Tanto furor le Saracine genti.

  Contra quelle percosse avean già tesa

  556 Pieghevol tela, e cose altre cedenti.

  L’impeto, che in lor cade, ivi contesa

  Non trova, e vien che vi si fiacchi e lenti:

  Essi, ove miran più la calca esposta,

  560 Fan con l’arme volanti aspra risposta.

  LXXI.

  Con tutto ciò d’andarne oltre non cessa

  L’assalitor, che tripartito move.

  E chi va sotto gatti, ove la spessa

  564 Gragnuola di saette indarno piove:

  E chi le torri all’alto muro appressa,

  Che loro a suo poter da se rimove;

  Tenta ogni torre omai lanciare il ponte,

  568 Cozza il monton con la ferrata fronte.

  LXXII.

  Rinaldo intanto irresoluto bada,

  Chè quel rischio di lui degno non era.

  E stima onor plebeo, quando egli vada

  572 Per le comuni vie col volgo in schiera.

  E volge intorno gli occhj, e quella strada

  Sol gli piace tentar ch’altri dispera.

  Là dove il muro più munito ed alto

  576 In pace stassi, ei vuol portar l’assalto.

  LXXIII.

  E volgendosi a quegli, i quai già furo

  Guidati da Dudon guerrier famosi:

  O vergogna, dicea, che là quel muro

  580 Fra cotante arme in pace or si riposi.

  Ogni rischio al valor sempre è sicuro:

  Tutte le vie son piane agli animosi.

  Moviam la guerra, e contra ai colpi crudi

  584 Facciam densa testuggine di scudi.

  LXXIV.

  Giunsersi tutti seco a questo detto:

  Tutti gli scudi alzar sovra la testa:

  E gli uniron così, che ferreo tetto

  588 Facean contra l’orribile tempesta.

  Sotto il coperchio il fero stuol ristretto

  Va di gran corso, e nulla il corso arresta:

  Chè la soda testuggine sostiene

  592 Ciò che di ruinoso in giù ne viene.

  LXXV.

  Son già sotto le mura; allor Rinaldo

  Scala drizzò di cento gradi e cento:

  E lei con braccio maneggiò sì saldo,

  596 Ch’agile è men picciola canna al vento.

  Or lancia o trave, or gran colonna o spaldo

  D’alto discende: ei non va su più lento;

  Ma intrepido ed invitto ad ogni scossa,

  600 Sprezzeria, se cadesse, Olimpo ed Ossa.

  LXXVI.

  Una selva di strali e di ruine

  Sostien sul dosso, e sullo scudo un monte.

  Scuote una man le mura a se vicine,

  604 L’altra, sospesa, in guardia è della fronte.

  L’esempio all’opre ardite e peregrine

  Spinge i compagni: ei non è sol che monte:

  Chè molti appoggian seco eccelse scale,

  608 Ma ‘l valore e la sorte è disuguale.

  LXXVII.

  More alcuno, altri cade; egli sublime

  Poggia, e questi conforta, e quei minaccia.

  Tanto è già in su, che le merlate cime

  612 Puote afferrar con le distese braccia.
/>
  Gran gente allor vi trae, l’urta, il reprime,

  Cerca precipitarlo, e pur nol caccia.

  (Mirabil vista!) a un grande e fermo stuolo

  616 Resister può, sospeso in aria, un solo.

  LXXVIII.

  E resiste, e s’avanza, e si rinforza:

  E come palma suol, cui pondo aggreva,

  Suo valor combattuto ha maggior forza,

  620 E nella oppression più si solleva.

  E vince alfin tutti i nemici, e sforza

  L’aste e gl’intoppi che d’incontro aveva:

  E sale il muro, e ‘l signoreggia, e ‘l rende

  624 Sgombro e sicuro a chi diretro ascende.

  LXXIX.

  Ed egli stesso all’ultimo germano

  Del pio Buglion, ch’è di cadere in forse,

  Stesa la vincitrice amica mano,

  628 Di salirne secondo aita porse.

  Frattanto erano altrove al Capitano

  Varie fortune e perigliose occorse:

  Ch’ivi non pur fra gli uomini si pugna;

  632 Ma le machine insieme anco fan pugna.

  LXXX.

  Sul muro aveano i Siri un tronco alzato

  Ch’antenna un tempo esser solea di nave:

  E sovra lui col capo aspro e ferrato,

  636 Per traverso, sospesa è grossa trave:

  È indietro quel da canapi tirato,

  Poi torna innanzi impetuoso e grave:

  Talor rientra nel suo guscio, ed ora

  640 La testuggin rimanda il collo fuora.

  LXXXI.

  Urtò la trave immensa, e così dure

  Nella torre addoppiò le sue percosse;

  Che le ben teste in lei salde giunture

  644 Lentando aperse, e la rispinse, e scosse.

  La torre a quel bisogno armi sicure

  Avea già in punto, e due gran falci mosse,

  Che, avventate con arte incontra al legno,

  648 Quelle funi troncar ch’eran sostegno.

  LXXXII.

  Qual gran sasso talor, che o la vecchiezza

  Solve d’un monte, o svelle ira de’ venti,

  Ruinoso dirupa: e porta, e spezza

  652 Le selve, e con le case anco gli armenti;

  Tal giù traea dalla sublime altezza

  L’orribil trave e merli, ed arme, e genti.

  Diè la torre, a quel moto, uno e duo’ crolli:

  656 Tremar le mura, e rimbombaro i colli.

  LXXXIII.

  Passa il Buglion vittorioso avanti,

  E già le mura d’occupar si crede;

  Ma fiamme allora fetide e fumanti

  660 Lanciarsi incontra immantinente ei vede.

  Nè dal sulfureo sen fochi mai tanti

  Il cavernoso Mongibel fuor diede:

  Nè mai cotanti, negli estivi ardori,

  664 Piove l’Indico Ciel caldi vapori.

  LXXXIV.

  Quì vasi, e cerchj, ed aste ardenti sono:

  Qual fiamma nera, e qual sanguigna splende.

  L’odore appuzza, assorda il rombo e ‘l tuono,

  668 Accieca il fumo, il foco arde e s’apprende.

  L’umido cuojo alfin saria mal buono

  Schermo alla torre: appena or la difende.

  Già suda, e si rincrespa, e se più tarda

  672 Il soccorso del Ciel, convien pur ch’arda.

  LXXXV.

  Il magnanimo Duce innanzi a tutti

  Stassi, e non muta nè color nè loco:

  E quei conforta che su’ cuoj asciutti

  676 Versan l’onde apprestate incontra al foco.

  In tale stato eran costor ridutti:

  E già dell’acque rimanea lor poco.

  Quando ecco un vento, ch’improvviso spira,

  680 Contra gli autori suoi l’incendio gira.

  LXXXVI.

  Vien contro al foco il turbo, e indietro volto

  Il foco, ove i Pagan le tele alzaro,

  Quella molle materia in se raccolto

  684 L’ha immantinente, e n’arde ogni riparo.

  O glorioso Capitano, o molto

  Dal gran Dio custodito, al gran Dio caro!

  A te guerreggia il Cielo: ed ubbidienti

  688 Vengon chiamati, a suon di trombe, i venti.

  LXXXVII.

  Ma l’empio Ismen, che le sulfuree faci

  Vide da Borea incontra se converse,

  Ritentar volle l’arti sue fallaci

  692 Per sforzar la natura, e l’aure avverse:

  E fra due maghe, che di lui seguaci

  Si fer, sul muro agli occhj altrui s’offerse:

  E torvo, e nero, e squallido, e barbuto

  696 Fra due Furie parea Caronte, o Pluto.

  LXXXVIII.

  Già il mormorar s’udia delle parole

  Di cui teme Cocíto, e Flegetonte:

  Già si vedea l’aria turbare, e ‘l Sole

  700 Cinger d’oscuri nuvoli la fronte;

  Quando avventato fu dall’alta mole

  Un gran sasso, che fu parte d’un monte:

  E tra lor colse sì, ch’una percossa

  704 Sparse di tutti insieme il sangue e l’ossa.

  LXXXIX.

  In pezzi minutissimi e sanguigni

  Si disperser così le inique teste;

  Che di sotto ai pesanti aspri macigni

  708 Soglion poco le biade uscir più peste.

  Lasciar, gemendo, i tre spirti maligni

  L’aria serena, e ‘l bel raggio celeste:

  E sen fuggir tra l’ombre empie infernali.

  712 Apprendete pietà quinci, o mortali.

  XC.

  In questo mezzo alla Città la torre,

  Cui dall’incendio il turbine assicura,

  S’avvicina così, che può ben porre

  716 E fermare il suo ponte in su le mura;

  Ma Solimano intrepido v’accorre,

  E ‘l passo angusto di tagliar procura:

  E doppia i colpi, e ben l’avria reciso;

  720 Ma un’altra torre apparse all’improvviso.

  XCI.

  La gran mole crescente oltra i confini

  De’ più alti edifizj in aria passa.

  Attoniti a quel mostro i Saracini

  724 Restar, vedendo la Città più bassa.

  Ma il fero Turco, ancor che’n lui ruini

  Di pietre un nembo, il loco suo non lassa:

  Nè di tagliare il ponte anco diffida,

  728 E gli altri che temean rincora, e sgrida.

  XCII.

  S’offerse agli occhj di Goffredo allora,

  Invisibile altrui, l’Angel Michele

  Cinto d’armi celesti: e vinto fora

  732 Il Sol da lui, cui nulla nube vele.

  Ecco, disse, Goffredo, è giunta l’ora

  Ch’esca Sion di servitù crudele.

  Non chinar, non chinar gli occhj smarriti:

  736 Mira con quante forze il Ciel t’aiti.

  XCIII.

  Drizza pur gli occhj a riguardar l’immenso

  Esercito immortal ch’è in aria accolto:

  Ch’io dinanzi torrotti il nuvol denso

  740 Di vostra umanità, ch’intorno avvolto

  Adombrando t’appanna il mortal senso,

  Sì che vedrai gl’ignudi spirti in volto:

  E sostener per breve spazio i rai

  744 Delle angeliche forme anco potrai.

  XCIV.

  Mira di quei che fur campion di Cristo,

  L’anime fatte in Cielo or cittadine,

  Che pugnan teco, e di sì alto acquisto

  748 Si trovan teco al glorioso fine.

  Là ‘ve ondeggiar la polve, e ‘l fumo misto

  Vedi, e di rotte moli alte ruine;

  Tra quella folta nebbia Ugon combatte,

  752 E delle torri i fondamenti abbatte.

  XCV.

  Ecco poi là Dudon che l’alta porta

  Aquilonar con ferro e fiamma assale:

  Ministra l’arme ai combattenti, e
sorta

  756 Ch’altri su monti, e drizza, e tien le scale.

  Quel ch’è sul colle, e ‘l sacro abito porta,

  E la corona ai crin sacerdotale,

  È il pastore Ademaro, alma felice:

  760 Vedi ch’ancor vi segna, e benedice.

  XCVI.

  Leva più in su le ardite luci, e tutta

  La grande oste del Ciel congiunta guata.

  Egli alzò il guardo: e vide in un ridutta

  764 Milizia innumerabile, ed alata.

  Tre folte squadre, ed ogni squadra instrutta

  In tre ordini gira, e si dilata;

  Ma si dilata più quanto più in fuori

  768 I cerchj son: son gl’intimi i minori.

  XCVII.

  Quì chinò vinti i lumi, e gli alzò poi:

  Nè lo spettacol grande ei più rivide.

  Ma riguardando d’ogni parte i suoi,

  772 Scorge che a tutti la vittoria arride.

  Molti dietro a Rinaldo illustri eroi

  Saliano: ei già salito i Siri uccide.

  Il Capitan, che più indugiar si sdegna,

  776 Toglie di mano al fido alfier l’insegna.

  XCVIII.

  E passa primo il ponte, ed impedita

  Gli è a mezzo il corso dal Soldan la via.

  Un picciol varco è campo ad infinita

  780 Virtù, che in pochi colpi ivi apparia.

  Grida il fier Solimano: all’altrui vita

  Dono e consacro io quì la vita mia.

  Tagliate, amici, alle mie spalle or questo

  784 Ponte: chè quì non facil preda i’ resto.

  XCIX.

  Ma venirne Rinaldo, in volto orrendo,

  E fuggirne ciascun vedea lontano.

  Or che farò? se quì la vita spendo,

  788 La spando, disse, e la disperdo invano.

  E in se nove difese anco volgendo,

  Cedea libero il passo al Capitano,

  Che minacciando il segue, e della santa

  792 Croce il vessillo in su le mura pianta.

  C.

  La vincitrice insegna in mille giri

  Alteramente si rivolge intorno:

  E par che in lei più riverente spiri

  796 L’aura, e che splenda in lei più chiaro il giorno:

  Ch’ogni dardo, ogni stral che in lei si tiri,

  O la declini, o faccia indi ritorno:

  Par che Sion, par che l’opposto monte

  800 Lieto l’adori, e inchini a lei la fronte.

  CI.

  Allor tutte le squadre il grido alzaro

  Della vittoria altissimo e festante:

  E risonarne i monti, e replicaro

  804 Gli ultimi accenti: e quasi in quello istante

  Ruppe e vinse Tancredi ogni riparo

  Che gli aveva all’incontro opposto Argante:

  E, lanciando il suo ponte, anch’ei veloce

  808 Passò nel muro, e v’innalzò la Croce.

  CII.

  Ma verso il Mezzogiorno, ove il canuto

  Raimondo pugna, e ‘l Palestin Tiranno,

  I guerrier di Guascogna anco potuto

 

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