by Dante
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contrapesando l’un con l’altro lato. →
Dentro al cristallo che ’l vocabol porta, →
cerchiando il mondo, del suo caro duce
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sotto cui giacque ogne malizia morta,
di color d’oro in che raggio traluce →
vid’ io uno scaleo eretto in suso →
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tanto, che nol seguiva la mia luce.
Vidi anche per li gradi scender giuso →
tanti splendor, ch’io pensai ch’ogne lume
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che par nel ciel, quindi fosse diffuso.
E come, per lo natural costume, → →
le pole insieme, al cominciar del giorno,
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si movono a scaldar le fredde piume;
poi altre vanno via sanza ritorno, →
altre rivolgon sé onde son mosse,
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e altre roteando fan soggiorno;
tal modo parve me che quivi fosse
in quello sfavillar che ’nsieme venne,
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sì come in certo grado si percosse. →
E quel che presso più ci si ritenne, →
si fé sì chiaro, ch’io dicea pensando:
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“Io veggio ben l’amor che tu m’accenne.
Ma quella ond’ io aspetto il come e ’l quando →
del dire e del tacer, si sta; ond’ io,
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contra ’l disio, fo ben ch’io non dimando.”
Per ch’ella, che vedëa il tacer mio →
nel veder di colui che tutto vede,
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mi disse: “Solvi il tuo caldo disio.” →
E io incominciai: “La mia mercede →
non mi fa degno de la tua risposta;
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ma per colei che ’l chieder mi concede,
vita beata che ti stai nascosta
dentro a la tua letizia, fammi nota
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la cagion che sì presso mi t’ha posta;
e dì perché si tace in questa rota →
la dolce sinfonia di paradiso, →
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che giù per l’altre suona sì divota.”
“Tu hai l’udir mortal sì come il viso,” →
rispuose a me; “onde qui non si canta
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per quel che Bëatrice non ha riso.
Giù per li gradi de la scala santa →
discesi tanto sol per farti festa
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col dire e con la luce che mi ammanta;
né più amor mi fece esser più presta,
ché più e tanto amor quinci sù ferve,
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sì come il fiammeggiar ti manifesta.
Ma l’alta carità, che ci fa serve
pronte al consiglio che ’l mondo governa,
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sorteggia qui sì come tu osserve.”
“Io veggio ben,” diss’ io, “sacra lucerna, →
come libero amore in questa corte
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basta a seguir la provedenza etterna;
ma questo è quel ch’a cerner mi par forte,
perché predestinata fosti sola →
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a questo officio tra le tue consorte.”
Né venni prima a l’ultima parola,
che del suo mezzo fece il lume centro,
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girando sé come veloce mola;
poi rispuose l’amor che v’era dentro:
“Luce divina sopra me s’appunta, →
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penetrando per questa in ch’io m’inventro, →
la cui virtù, col mio veder congiunta,
mi leva sopra me tanto, ch’i’ veggio
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la somma essenza de la quale è munta.
Quinci vien l’allegrezza ond’ io fiammeggio;
per ch’a la vista mia, quant’ ella è chiara,
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la chiarità de la fiamma pareggio. →
Ma quell’ alma nel ciel che più si schiara, →
quel serafin che ’n Dio più l’occhio ha fisso,
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a la dimanda tua non satisfara,
però che sì s’innoltra ne lo abisso →
de l’etterno statuto quel che chiedi,
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che da ogne creata vista è scisso.
E al mondo mortal, quando tu riedi,
questo rapporta, sì che non presumma
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a tanto segno più mover li piedi.
La mente, che qui luce, in terra fumma;
onde riguarda come può là giùe
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quel che non pote perché ’l ciel l’assumma.”
Sì mi prescrisser le parole sue, →
ch’io lasciai la quistione e mi ritrassi
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a dimandarla umilmente chi fue.
“Tra ’due liti d’Italia surgon sassi, →
e non molto distanti a la tua patria,
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tanto che’ troni assai suonan più bassi,
e fanno un gibbo che si chiama Catria,
di sotto al quale è consecrato un ermo,
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che suole esser disposto a sola latria.” →
Così ricominciommi il terzo sermo;
e poi, continüando, disse: “Quivi
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al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,
che pur con cibi di liquor d’ulivi →
lievemente passava caldi e geli,
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contento ne’ pensier contemplativi.
Render solea quel chiostro a questi cieli
fertilemente; e ora è fatto vano,
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sì che tosto convien che si riveli.
In quel loco fu’ io Pietro Damiano, →
e Pietro Peccator fu’ ne la casa
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di Nostra Donna in sul lito adriano.
Poca vita mortal m’era rimasa,
quando fui chiesto e tratto a quel cappello, →
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che pur di male in peggio si travasa.
Venne Cefàs e venne il gran vasello → →
de lo Spirito Santo, magri e scalzi,
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prendendo il cibo da qualunque ostello. →
Or voglion quinci e quindi chi rincalzi
li moderni pastori e chi li meni,
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tanto son gravi, e chi di rietro li alzi.
Cuopron d’i manti loro i palafreni,
sì che due bestie van sott’ una pelle:
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oh pazïenza che tanto sostieni!”
A questa voce vid’ io più fiammelle →
di grado in grado scendere e girarsi,
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e ogne giro le facea più belle.
Dintorno a questa vennero e fermarsi,
e fero un grido di sì alto suono,
che non potrebbe qui assomigliarsi;
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né io lo ’ntesi, sì mi vinse il tuono.
PARADISO XXII
Oppresso di stupore, a la mia guida → →
mi volsi, come parvol che ricorre
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sempre colà dove più si confida;
e quella, come madre che soccorre →
sùbito al figlio palido e anelo
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con la sua voce, che ’l suol ben disporre,
mi disse: “Non sai tu che tu se’ in cielo? →
e non sai tu che ’l cielo è tutto santo,
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e ciò che ci si fa vien da buon zelo?
Come t’avrebbe trasmutato il canto, → →
e io ridendo, mo pensar lo puoi,
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poscia che ’l grido t’ha mosso cotanto;
nel qual, se ’nteso avessi i prieghi suoi, →
già ti sarebbe nota la vendetta
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che tu vedrai innanzi che tu muoi.
La spad
a di qua sù non taglia in fretta →
né tardo, ma’ ch’al parer di colui
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che disïando o temendo l’aspetta.
Ma rivolgiti omai inverso altrui; →
ch’assai illustri spiriti vedrai, →
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se com’ io dico l’aspetto redui.”
Come a lei piacque, li occhi ritornai,
e vidi cento sperule che ’nsieme →
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più s’abbellivan con mutüi rai.
Io stava come quei che ’n sé repreme →
la punta del disio, e non s’attenta
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di domandar, sì del troppo si teme;
e la maggiore e la più luculenta →
di quelle margherite innanzi fessi,
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per far di sé la mia voglia contenta.
Poi dentro a lei udi’: “Se tu vedessi → →
com’ io la carità che tra noi arde,
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li tuoi concetti sarebbero espressi.
Ma perché tu, aspettando, non tarde
a l’alto fine, io ti farò risposta
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pur al pensier, da che si ti riguarde.
Quel monte a cui Cassino è ne la costa →
fu frequentato già in su la cima
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da la gente ingannata e mal disposta; →
e quel son io che sù vi portai prima
lo nome di colui che ’n terra addusse
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la verità che tanto ci soblima;
e tanta grazia sopra me relusse,
ch’io ritrassi le ville circunstanti
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da l’empio cólto che ’l mondo sedusse. →
Questi altri fuochi tutti contemplanti →
uomini fuoro, accesi di quel caldo
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che fa nascere i fiori e ’ frutti santi. →
Qui è Maccario, qui è Romoaldo, →
qui son li frati miei che dentro ai chiostri →
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fermar li piedi e tennero il cor saldo.”
E io a lui: “L’affetto che dimostri →
meco parlando, e la buona sembianza
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ch’io veggio e noto in tutti li ardor vostri,
così m’ha dilatata mia fidanza,
come ’l sol fa la rosa quando aperta
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tanto divien quant’ ell’ ha di possanza.
Però ti priego, e tu, padre, m’accerta →
s’io posso prender tanta grazia, ch’io
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ti veggia con imagine scoverta.”
Ond’ elli: “Frate, il tuo alto disio → →
s’adempierà in su l’ultima spera,
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ove s’adempion tutti li altri e ’l mio.
Ivi è perfetta, matura e intera →
ciascuna disïanza; in quella sola
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è ogne parte là ove sempr’ era,
perchè non è in loco e non s’impola; →
e nostra scala infino ad essa varca, →
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onde così dal viso ti s’invola.
Infin là sù la vide il patriarca →
Iacobbe porger la superna parte,
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quando li apparve d’angeli sì carca.
Ma, per salirla, mo nessun diparte →
da terra i piedi, e la regola mia
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rimasa è per danno de le carte.
Le mura che solieno esser badia
fatte sono spelonche, e le cocolle →
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sacca son piene di farina ria.
Ma grave usura tanto non si tolle
contra ’l piacer di Dio, quanto quel frutto
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che fa il cor de’ monaci sì folle;
chè quantunque la Chiesa guarda, tutto
è de la gente che per Dio dimanda;
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non di parenti nè d’altro più brutto.
La carne d’i mortali è tanto blanda, →
che giù non basta buon cominciamento
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dal nascer de la quercia al far la ghianda.
Pier cominciò sanz’ oro e sanz’ argento, → →
e io con orazione e con digiuno, →
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e Francesco umilmente il suo convento;
e se guardi ’l principio di ciascuno,
poscia riguardi là dov’ è trascorso,
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tu vederai del bianco fatto bruno. →
Veramente Iordan vòlto retrorso →
più fu, e ’l mar fuggir, quando Dio volse,
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mirabile a veder che qui ’l soccorso.”
Così mi disse, e indi si raccolse →
al suo collegio, e ’l collegio si strinse;
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poi, come turbo, in sù tutto s’avvolse.
La dolce donna dietro a lor mi pinse →
con un sol cenno su per quella scala,
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sì sua virtù la mia natura vinse; →
né mai qua giù dove si monta e cala
naturalmente, fu sì ratto moto
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ch’agguagliar si potesse a la mia ala.
S’io torni mai, lettore, a quel divoto →
trïunfo per lo quale io piango spesso
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le mie peccata e ’l petto mi percuoto,
tu non avresti in tanto tratto e messo → →
nel foco il dito, in quant’ io vidi ’l segno
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che segue il Tauro e fui dentro da esso.
O glorïose stelle, o lume pregno →
di gran virtù, dal quale io riconosco
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tutto, qual che si sia, il mio ingegno,
con voi nasceva e s’ascondeva vosco
quelli ch’è padre d’ogne mortal vita,
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quand’ io senti’ di prima l’aere tosco;
e poi, quando mi fu grazia largita
d’entrar ne l’alta rota che vi gira,
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la vostra regïon mi fu sortita.
A voi divotamente ora sospira →
l’anima mia, per acquistar virtute
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al passo forte che a sé la tira. →
“Tu se’ sì presso a l’ultima salute,” → →
cominciò Bëatrice, “che tu dei
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aver le luci tue chiare e acute;
e però, prima che tu più t’inlei, →
rimira in giù, e vedi quanto mondo
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sotto li piedi già esser ti fei; →
sì che ’l tuo cor, quantunque può, giocondo
s’appresenti a la turba trïunfante →
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che lieta vien per questo etera tondo.” →
Col viso ritornai per tutte quante →
le sette spere, e vidi questo globo →
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tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante;
e quel consiglio per migliore approbo
che l’ha per meno; e chi ad altro pensa
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chiamar si puote veramente probo.
Vidi la figlia di Latona incensa → →
sanza quell’ ombra che mi fu cagione
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per che già la credetti rara e densa.
L’aspetto del tuo nato, Iperïone, →
quivi sostenni, e vidi com’ si move
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circa e vicino a lui Maia e Dïone. →
Quindi m’apparve il temperar di Giove →
tra ’l padre e ’l figlio; e quindi mi fu chiaro →
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il varïar che fanno di lor dove;
e tutti e sette mi si dimostraro →
quanto son grandi e quanto son veloci
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e come sono in distante riparo.
L’aiuola che ci fa tanto feroci, →
/>
volgendom’ io con li etterni Gemelli, →
tutta m’apparve da’ colli a le foci;
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poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.
PARADISO XXIII
Come l’augello, intra l’amate fronde, → →
posato al nido de’ suoi dolci nati →
3
la notte che le cose ci nasconde, →
che, per veder li aspetti disïati →
e per trovar lo cibo onde li pasca,
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in che gravi labor li sono aggrati,
previene il tempo in su aperta frasca, →
e con ardente affetto il sole aspetta,
9
fiso guardando pur che l’alba nasca; →
così la donna mïa stava eretta →
e attenta, rivolta inver’ la plaga →
12
sotto la quale il sol mostra men fretta: →
sì che, veggendola io sospesa e vaga, →
fecimi qual è quei che disïando
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altro vorria, e sperando s’appaga.
Ma poco fu tra uno e altro quando,
del mio attender, dico, e del vedere
18
lo ciel venir più e più rischiarando;
e Bëatrice disse: “Ecco le schiere →
del trïunfo di Cristo e tutto ’l frutto →
21
ricolto del girar di queste spere!”
Pariemi che ’l suo viso ardesse tutto, →
e li occhi avea di letizia sì pieni,
24
che passarmen convien sanza costrutto. →
Quale ne’ plenilunïi sereni → →
Trivïa ride tra le ninfe etterne