Blackout

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Blackout Page 9

by Gianluca Morozzi

Ferro approva con un cenno del capo. Comincia a contare. «Uno. Due. Tre.»

  Al tre gridano.

  Poi gridano di nuovo.

  Poi riprovano a suonare l’allarme.

  Poi controllano i cellulari, ancora e sempre morti e inutilizzabili.

  Ferro sforza allo spasimo i muscoli delle braccia, in piedi, la testa piegata in avanti, un pannello a schiacciargli la spina dorsale, l’altro a mordere sui palmi delle mani. Lotta per un po’ con la pressione dell’acciaio sulla carne, e alla fine cede. Lascia che le porte si richiudano rumorosamente, e che la cabina sia di nuovo sigillata come una tomba.

  Si appoggia a una parete, sforzandosi di non apparire affaticato, di non far vedere che sta ansimando.

  Queste porte. Queste maledette porte.

  Come cazzo funzionano, queste maledette porte?

  Tutti e tre si godono l’aria nuova penetrata dall’esterno.

  Nessuno parla.

  17:51

  Tomas ha gli occhi chiusi.

  Adesso conto fino a cinque, e quando arrivo al cinque l’ascensore riparte.

  Uno. Due. Tre. Quattro.

  Cinque.

  Al cinque apre gli occhi.

  L’ascensore è ancora fermo.

  Sospira.

  Adesso conto fino a dieci, e quando arrivo a dieci l’ascensore riparte. Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei. Sette. Otto. Nove.

  Dieci.

  Al dieci apre gli occhi. L’ascensore è ancora fermo.

  Tomas si è seduto tra le porte, sul binario di scorrimento. Le tiene aperte con la schiena e col ginocchio destro.

  Ha capito l’errore di Ferro, la posizione sbagliata, in piedi, con la sola forza delle braccia, e allora sta opponendo tutto il corpo alla pressione. Ha la testa otto centimetri fuori dalla cabina, la tempia appoggiata alla parete in cemento del vano. Respira quell’aria grigia e malata come l’alito di un moribondo.

  «’Sta storia delle porte continuo a non capirla» insiste Ferro, ancora una volta. «Dovrebbero stare aperte, le porte», e nel sentirlo ripetere la solita litania sulle porte a molla e le porte che dovrebbero stare aperte, Claudia non ce la fa più a fingersi conciliante. Ferro la rende furiosa, veramente furiosa. A pelle. Di puro istinto. Sta respirando il suo odore da troppo vicino, e il suo odore le fa rizzare i peli sulla nuca, le conficca piccoli spilli striscianti sulla schiena. Si sta scoprendo a reagire come un animale che capta un odore nemico.

  «Pensavo di avere una figlia e invece ho un cagnolino», la prendeva in giro sua madre quando Claudia si sedeva a tavola e annusava d’istinto quel che c’era nel piatto. Rideva: «Gesù, Claudia, cosa vuoi che sia, è una bistecca, mica cibo per gatti! »

  L’odore di Ferro è una grattugia, una grattugia sui suoi nervi. Quel profumo dolciastro a coprire il sudore, e quell’altra cosa, quella che sta sotto. Fredda. Estranea. Aliena.

  Cosı̀ sbotta, con voce tremante, rabbiosa: «Senta, mi scusi, sa, ma lei è un esperto di ascensori? Lei sa esattamente come funziona, una fotocellula? Perché mi sembra molto preparato sull’argomento». Cerca di mitigare l’ironia nella voce. Ci riesce solo in parte.

  Ferro la scruta cupo, sulla difensiva. Si gratta il mento, risponde. «Guardi, signorina, io non so assolutamente niente di ascensori, non mi è mai fregato assolutamente niente di sapere qualcosa di ascensori, so che salgono, che scendono, basta. Seguo la logica, dico solo: se c’è corrente, le porte non si possono aprire a mano. Se non c’è corrente, be’, non dovrebbero richiudersi automaticamente come invece fanno. E comunque, giovane fanciullo» ridacchia, «prega che l’ascensore non riparta adesso, di colpo. Che altrimenti ti ritrovi metà dentro la cabina e metà nel vano.»

  «Grazie della prospettiva. Qualcuno sa che ore sono?»

  «Dieci minuti alle sei» risponde Claudia.

  «Hai qualche impegno, giovane fanciullo? Fretta di uscire? »

  «Sı̀. Devo incontrare una persona alla stazione di Parma. Il mio treno parte alle otto» e non dice altro, che non si sa mai. I suoi genitori abitano in quello stesso palazzo, e non conviene rivelare troppe cose ai vicini di casa. Non si sa mai. Meglio star vaghi.

  «Saremo fuori di qui molto prima delle otto» lo rassicura Claudia. «Questo è scontato.»

  Ferro ride, ammicca di nuovo al ragazzo tra le porte. «C’hai la fidanzatina, a Parma? Anch’io ne ho avute un paio a Parma, spiegaglielo alla tua fidanzatina, che le hai dato buca perché eri chiuso in ascensore. Certe mie ragazze si sono bevute scuse peggiori. Roba che John Belushi era un dilettante, giuro.»

  Claudia serra le labbra in una smorfia contratta. Adesso le dà fastidio anche solo sentirlo parlare, Ferro. Ricaccia indietro reazioni violente, incontrollate, cosı̀ rabbiose e primordiali che le fanno paura. Non ha mai provato una cosı̀ forte ripugnanza per una persona.

  È la situazione, è la vicinanza, senz’aria, senz’acqua, il caldo, la sete. Non è niente di più. Niente di più.

  A parte quell’odore.

  Lucido di scarpe su caffè tostato.

  Quell’odore alieno.

  «Certo che è strano» sibila, cercando di dominarsi. «Gli abitanti di questo palazzo li conosco tutti, quantomeno di vista. Li ho incrociati tutti, almeno una volta. Tutti, tranne lei.»

  Ferro si irrigidisce. «Be’? Questo che vorrebbe dire?» «Niente. Solo, è bizzarro conoscersi in questo modo. È bizzarro, no?»

  «Per forza non ci siamo mai visti. Io in casa non ci sto mai, qui c’è il mio appartamento» sta per dire da scapolo, ma si arresta per tempo, si corregge al volo, «c’è il mio appartamento al ventesimo piano, ma io non ci sto mai. Sono sempre in giro per locali o all’estero, non sono fatto per la vita stanziale. Mi piace girare il mondo, sapete, Londra, Amsterdam, Parigi...»

  Tomas si illumina. «Ha delle conoscenze in quei posti? Amsterdam, voglio dire, Londra...?»

  «Delle conoscenze? Io conosco tutti, a Londra, a Parigi, ad Amsterdam. Figurati se non ho delle conoscenze. Conosco tutti.»

  «Tutti» ironizza Claudia, inascoltata. «Certo. Come no. A Londra, a Parigi. Proprio tutti. Naturale.»

  «È per un viaggio» spiega Tomas. «Un viaggio in Europa. Se qualcuno potesse ospitare me e la mia amica...»

  «Ah, la fidanzatina di Parma!» gongola Ferro. «Non sia mai detto che Aldo Ferro ostacola i giovani cuori, l’amore è una cosa meravigliosa! Appena usciamo di qua faccio un paio di telefonate, ti sistemo in giro per l’Europa, ti piazzo dove vuoi. Qualunque cosa per agevolare una giovane coppia, vero, signorina?» e strizza l’occhio a Claudia.

  Signorina? Ancora? Come cazzo parli?

  Stai nel tuo mezzo metro.

  Viscido.

  «Non è la mia fidanzata» balbetta Tomas, rosso in viso. «La ragazza di Parma, dico. È solo un’amica.» Non si fida, Tomas. Claudia non ha l’aria della vicina di casa impicciona, non se la vede a fare la spia con i suoi genitori: «So io dov’è vostro figlio! È in Olanda con una ragazza di Parma! Avevano appuntamento a Parma la domenica di ferragosto! Me lo ha confidato quando siamo rimasti chiusi in ascensore!»

  No, Claudia non sembra tipo da tradirlo, d’accordo, e Ferro, be’, Ferro nel palazzo pare che non ci sia mai. Però, insomma, meno si sa della sua fuga, meglio è.

  La pressione delle porte si sta facendo insostenibile. Tomas cerca di aiutarsi con la gamba sinistra, ma ormai ha le ginocchia schiacciate contro il mento, non riesce più a opporsi a quei mostri d’acciaio. Qualche secondo ancora, e rotola in cabina lasciando che le porte si richiudano di nuovo.

  «Scusate» si giustifica. «Non ce la facevo più.»

  «Non preoccuparti» lo consola Claudia. «Appena comincia a mancare l’aria, in mezzo alle porte mi ci metto io.»

  «Non sia mai detto, signorina» interviene Ferro. «Non permetteremo mai che una ragazza cosı̀ carina debba subire la pressione di queste due volgari porte. Io e il giovane innamorato qui presente» strizza l’occhio a Tomas «ci divideremo equamente il compito.»

  Claudia alza appena un angolo della bocca.

  Fa il galante, adesso, il porco. Cerca di farsi perdon
are i commenti di prima.

  Come se non l’avessi notata l’esitazione nella sua voce, quando ha parlato del suo appartamento. L’ho sentita l’esitazione nella sua voce, cosa crede?

  Secondo me ci porta le ucraine che carica sui viali, in quell’appartamento. Ci fa le orge con i suoi amici, maiali quanto lui.

  Magari ci tiene un set completo di fruste e manette.

  Aspettano, respirando aria calda e verde.

  Poi Ferro cede a quella temperatura da fonderia. Si toglie la camicia bianca sbuffando, la sbottona svelto. Claudia, investita da un’ondata di sudore acidulo, digrigna i denti e contrae le dita finché le nocche non diventano bianche. Guarda quell’uomo intento a ripiegare la camicia, a trasferire le sigarette e lo Zippo nella tasca dei pantaloni, guarda il suo torso nudo da palestrato, i ciuffi di peli sulle spalle e sulla schiena, lo osserva mentre ripone con cura la camicia in un angolo della cabina. Poi chiude gli occhi per non vederlo.

  «È buffo» dice Ferro, terminata l’operazione. «Stanotte ho fatto un sogno profetico.»

  Tomas alza la testa. «Cioè?»

  «Ho sognato che strisciavo in un tunnel, strisciavo sulla schiena, in mezzo a una montagna. Be’, il tunnel sbucava in mezzo a una scogliera a picco sul mare, migliaia di metri sopra il mare in burrasca, ci siete? E mentre me ne stavo lı̀ a guardare in basso, a studiare quella parete di roccia liscia, sentivo qualcosa di molliccio e schifoso arrivarmi incontro dall’altro lato del tunnel, come un verme gigantesco. Cioè, c’era una scogliera di roccia liscia da una parte, un verme gigantesco dall’altra, sembrava proprio vero, quel sogno. Sentivo benissimo l’odore dell’aria salmastra.»

  «E dopo si è svegliato?» s’interessa Tomas.

  «Certamente» ghigna Ferro. «Io me la sfango sempre in qualche modo, non sono mica cosı̀ stupido da farmi mangiare da un verme disgustoso. Nemmeno in sogno mi faccio fregare, io.»

  Claudia lo guarda come a dire: «Ma vola basso, cretino». Ma gli dice: «E cosa ci sarebbe di buffo, in questo sogno? Tanto per capire».

  Ferro pensa: «Sta alzando un po’ troppo la cresta, la ragazzina, con quei toni sarcastici del cazzo», ma non si scompone. «La situazione claustrofobica. Dentro il tunnel, con tutti questi chilometri di montagna sulla faccia, la roccia a pochi centimetri dal naso. Il tunnel buio e stretto. Un po’ come noi qua dentro, no? Con la differenza che quella era una situazione senza uscita, mentre noi saremo presto fuori a ridere di tutto questo. Però, insomma, ci trovavo un parallelismo. »

  Claudia sorride, scoprendo i denti. «È più buffo il mio di sogno, allora.»

  «Sentiamo» la sfida Ferro.

  «Ho sognato che ero nel deserto del Marocco, e tutt’intorno non c’erano che dune, sabbia e ancora sabbia. Nient’altro. Vagavo senza meta, sotto il sole a picco, senza sapere dove andare, senza una direzione.»

  Ferro aggrotta la fronte. «Qual è la parte buffa?» «Che tutto quello spazio vuoto mi terrorizzava.» Comincia a ridere da sola, istericamente. «Buffo, no? Tutto quello spazio che mi terrorizzava. Lo spazio vuoto. E noi non riusciamo neanche a stendere le gambe perché siamo pressati come sardine in una scatola. A me sembra buffo. Molto.»

  Nessun altro ride. Dopo un po’, smette di ridere anche lei.

  SECONDA ORA

  18:32

  «Croce» sceglie Tomas. Anche lui si è arreso al caldo; si è sfilato la maglietta di Springsteen e la sta usando per asciugarsi il sudore sul collo e sul torso nudo.

  Claudia sta bruciando, si scioglie, ma non è arrivata al punto di togliersi la divisa del bar. Già sente addosso il peso viscido degli sguardi di Ferro, le manca solo di restare in mutandine e reggiseno e offrirgli terreno fertile ulteriore. Per quanto il reggiseno nero e le mutandine sbrindellate bianche - lei non perde mai tempo a coordinare l’intimo quando ha solo la prospettiva di una schifosa giornata al bar da far passare in fretta -, l’uno e le altre provenienti dalle ceste dei grandi magazzini, siano quanto di meno eccitante Claudia possa concepire. Anche per la testa malata di uno come Ferro. Quindi sopporta il caldo e maledice la divisa da pornobarista, mentre la carta vetrata continua a grattugiarle i nervi. Dietro la nuca, e giù per il collo.

  Quando Tomas fa la sua scelta, Ferro sorride come Jack Nicholson nei panni del Joker. Strizza l’occhio a Claudia, lancia la moneta. La segue con gli occhi mentre rotea nell’aria, sfiora il cielino d’acciaio bianco, ricade nel palmo. Ferro la stringe nel pugno. Apre le dita. Ghigna.

  «Testa» declama. «Tredici a zero. Per me.»

  «Sta barando» lo accusa Claudia.

  «Non sto barando. Io lancio la moneta, lei ricade. Abbiamo stabilito che nelle monete da un euro questa è la testa e questa è la croce, anche se con le vecchie e care cento lire si giocava molto meglio, secondo me, comunque, abbiamo deciso arbitrariamente che questa faccia qui è la testa e quest’altra con l’omino di Michelangelo o di Leonardo da Vinci o di chi cazzo è, la faccia con l’omino a quattro braccia è la croce. Stabilite queste regole essenziali, ho vinto tredici volte su tredici. Nessun trucco. Può uscire testa, o può uscire croce.»

  «Ma non sempre testa» obietta Tomas. «È statistico.»

  «Vuoi provare a lanciare tu, giovane fanciullo? Eccoti qua il mio euro. Non farlo scivolare da quelle manine sudate.»

  «Non ho le mani sudate. Testa o croce?»

  «Testa. Mi porta fortuna.»

  Tomas lancia la moneta. La guarda librarsi più in alto della targhetta, fermarsi all’apice della sua parabola, richiamata dalla forza di gravità, ricadere nel palmo della mano. Spalanca gli occhi incredulo.

  «Testa» mormora. «Non è possibile. Davvero. Non è possibile. »

  Ferro sghignazza. «Quattordici a zero. Dovremmo cominciare a giocarci dei soldi.»

  «Non è veramente possibile» dice Tomas restituendo la moneta al suo proprietario. «È statistica. La statistica non è un’opinione.»

  «Senti, senti, giovane fanciullo, io di statistica non ne so un granché, ma ho idea che le leggi della statistica siano andate un po’ a mungere. Guardate noi tre.»

  Claudia aggrotta la fronte. «Non la seguo.»

  «Be’, non siamo un’aberrazione statistica, noi tre? Siete stati in giro per la città oggi pomeriggio? Non c’è nessuno, nessuno, proprio. Oggi pomeriggio avrei potuto lasciare la macchina in mezzo alla strada, sdraiarmi sull’asfalto bollente, fare un sonnellino sotto il sole, e non sarebbe passato nessuno perché, semplicemente, non c’era nessuno.» Abbassa il tono, diventa calmo, suadente. «E poi, improvvisamente, in questo deserto spuntiamo noi tre. Nello stesso palazzo. E nello stesso momento. Quante volte in vita vostra vi è capitato di trovarvi in ascensore con due sconosciuti? Con uno sconosciuto è normale, okay, ma due? Ed è successo proprio oggi, con la città vuota, dai, sarà mica normale. Qui ci sono all’opera delle forze primordiali.» Accarezza convinto la sua monetina. «Per questo dico che potrei lanciare il mio euro altre quattrocento volte, e uscirebbe testa per quattrocento volte. I flussi probabilistici oggi sono tutti aggrovigliati.»

  Claudia borbotta un «Bah!» quasi inudibile, fa un gesto con la mano come per scacciare una zanzara. È Tomas a cambiare discorso, domanda: «Da quanto tempo siamo qua dentro?»

  Ferro guarda l’orologio. «Un’ora e mezzo.»

  Tomas geme, impercettibilmente.

  Le sei e mezzo.

  Mi tocca andare in stazione in vespa, cazzo. Devo lasciare la vespa fuori dalla stazione, sotto il sole, vittima potenziale di qualunque ladro. Mi piange il cuore solo all’idea.

  A meno che non si esca di qua subito, adesso. Se l’ascensore riparte subito ce la posso fare, lascio perdere il maglione, schizzo fuori come la pallina di una cerbottana, arrivo in stazione anche a piedi. Al massimo confido in un autobus superstite. In tempo per saltare sul treno delle otto.

  Se l’ascensore riparte adesso. Ora, in questo istante.

  Se usciamo subito di qui.

  Cazzo.

  Cazzo.

  Nessuno aggiusta quelle cazzo di centraline?

  Quanto cazzo ci vuole a riparare un guasto? />
  Nessuno aggiusta quelle cazzo di centraline?

  Claudia di colpo si riscuote, scatta in piedi, le ginocchia che scricchiolano dolorosamente. È stata folgorata da un’idea assolutamente logica, assolutamente ovvia. «E se tentassimo di uscire da sopra?»

  Tomas la guarda speranzoso. «Dici che si può? Ci possiamo riuscire?»

  «Come no» lo stronca Ferro, giocando con la monetina da un euro. «Hai un trapano elettrico per sfondare il tettuccio? Un martello pneumatico? Oppure pensi di trasformarti nell’Incredibile Hulk davanti ai nostri occhi sconcertati?»

  «No, no, ha ragione Claudia, l’ho visto fare in un film con Bruce Willis! Possiamo uscire da lı̀ e poi arrampicarci nel vano, lungo i cavi, fino alle porte di piano. Possiamo aprirle dall’interno.»

  Ferro sghignazza, lancia di nuovo la monetina. «Giovane fanciullo, stai calmo. Io non son mica più giovane, che mi arrampico su per dei cavi come Spiderman.»

  «Non importa arrampicarsi lungo i cavi!» insiste Claudia. «Le porte di piano devono essere vicinissime, devono essere proprio qui sopra! Basterebbe uscire dall’alto, mettersi in piedi sopra la cabina. Possiamo aprirle dall’interno.»

  «Ascolta, l’hai guardata bene la cabina? È un corpo unico, il tettuccio, o come cacchio si chiama, è saldato alle pareti. Come pensi di sfondarlo, il tettuccio? A mani nude?»

  Claudia gli conficca gli occhi negli occhi. «Be’, non provarci nemmeno, sinceramente, mi pare proprio stupido», e Tomas annuisce freneticamente per darle ragione. «Visto che i soccorsi mi pare tardino parecchio ad arrivare, dobbiamo aiutarci da noi.»

  Ferro sospira. Rimette in tasca la moneta che tintinna lieve sul coltello a serramanico, sbuffa poco convinto: «E proviamoci, allora».

  Tomas si alza in punta di piedi, protende le braccia verso l’alto, tese al massimo. Le sue dita non sfiorano il cielino bianco nemmeno remotamente.

  «Un punto d’appoggio» mormora. «Non ci arrivo. Mi serve un punto d’appoggio.»

 

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