Blackout

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Blackout Page 12

by Gianluca Morozzi


  La videocamera sul pavimento freddo.

  Al momento di entrare in una vera casa stregata, Claudia si era tutelata dal terrore nello stesso modo. Aveva socchiuso gli occhi, inscrivendo in una fessura la schiena di Bea e il fascio di luce della torcia, e si era sforzata di non vedere niente di quello che stavano attraversando. Aveva fatto cosı̀ nella cantina, sulla scala di legno dai gradini scricchiolanti, e poi nel salone. Soprattutto, nel salone.

  Con la coda dell’occhio aveva intuito l’ampiezza spaventosa di quel locale. Forse era stato ricostruito sulle ceneri del salone originario, aveva pensato. Quello in cui un uomo aveva atteso le fiamme seduto in poltrona, accanto al fratello e alla moglie legati e sanguinanti sul pavimento, ignorando le urla dei bambini che bruciavano al piano di sopra.

  C’era un odore diverso, in quel salone. Cinnamono e cera bollente, mescolati insieme. Troppo grande. Potevano esserci cose maligne e affamate acquattate negli angoli più lontani, nel buio. Meglio non guardare, concentrarsi sulla schiena di Bea, sulla luce della torcia. E non guardare assolutamente niente.

  Bea aveva attraversato il salone a grandi passi. Poi aveva detto, con estrema naturalezza: «Ah, non te l’ho detto. Nella villa si celebra qualche messa nera, di tanto in tanto».

  «Grazie» aveva pensato Claudia. «Ora mi sento meglio. Davvero molto meglio. Grazie per avermi tranquillizzata.»

  Nemmeno il tempo di rispondere, che Bea si era spostata veloce verso la scalinata in pietra. Claudia l’aveva seguita sui gradini umidi e freddi, erano salite al piano di sopra, sbucando in un lungo corridoio spoglio. Il fascio di luce si era spostato sugli stipiti delle porte corrose dai tarli, su resti di stanze in cui un tempo qualcuno aveva vissuto, alla ricerca di un punto particolare. Bea aveva sorriso in modo sinistro.

  Aveva illuminato la porta murata.

  «Questa era la stanza della bambina» aveva sorriso trionfante, gli occhi che luccicavano. Aveva spostato il fascio di luce verso il basso, rivelando uno squarcio nel muro. Un pertugio del diametro di un metro, come il segno del passaggio di un ariete.

  Mentre seguiva Bea nel pertugio, Claudia aveva isolato un pensiero. Nel frastuono burrascoso delle tempie, provocato dal battito violento del suo cuore.

  Oh, chiariamoci.

  Io non ho paura di niente.

  Non ho paura di niente.

  Però.

  Se sento qualcosa.

  Che ricorda vagamente il pianto di una bambina.

  O una palla che rimbalza.

  Io muoio qua.

  Io non ho paura di niente.

  Ma questo.

  Oggettivamente.

  È un po’ troppo.

  Se schizza fuori un topo.

  Anche solo un topo.

  Io scompaio alla velocità del fulmine.

  E mi fermo solo quando arrivo in Kansas.

  La stanza era illuminata da un’opaca luce gialloazzurra. La luna rischiarava le pareti scorticate da un’enorme breccia nel tetto, squarciando il velo della nebbia. Bea aveva indicato la breccia con un cenno del capo.

  «Vedi? Quando c’è la luna piena, la luce batte contro la finestra. Da fuori si ha l’impressione che la luce nella stanza sia accesa. Suggestivo, eh?»

  «Abbastanza» aveva convenuto Claudia, aggirandosi tra calcinacci, foglie e qualcosa di strano sotto i piedi, come paglia fradicia e molliccia. Si era avvicinata alla finestra, aveva cercato di scorgere Ricky oltre il cancello, ma non era riuscita a distinguere niente tra le sagome alte e scure degli alberi enormi nella nebbiolina.

  «Guarda» l’aveva richiamata Bea, puntando la torcia contro la porta murata.

  Claudia aveva cercato qualcosa di particolare nel cerchio di luce elettrica, aveva visto solo dei mattoni rossi.

  Aveva alzato gli occhi verso Bea. «Cosa dovrei guardare, di preciso?»

  «I solchi.» E le aveva indicato dei segni verticali sui mattoni, paralleli, appena visibili. Aveva scoperto i denti bianchi nella luce della luna in un ghigno sadico. «Le unghie della bambina. Che cercava di uscire. Scavandosi un passaggio a mani nude.»

  Claudia aveva spalancato gli occhi.

  Davanti al disperato tentativo di sopravvivenza di una bambina che aveva graffiato la pietra fino a consumarsi la carne. Era quasi riuscita a vederla, sola in quella stanza, senza cibo, senza acqua, senza più voce, dopo aver urlato per giorni interi, dopo aver invocato inutilmente i genitori. In ginocchio sul pavimento.

  Ma Claudia, be’, Claudia era la donna che non aveva paura di niente. E allora aveva dissimulato tutto l’orrore, aveva detto con voce ferma: «È adesso che viene fuori il fantasma, giusto?»

  Bea l’aveva guardata storta. «Quale fantasma?»

  «Il fantasma della bambina, dai, ne ho visti a quintali, di film dell’orrore. Le due cretine che sono entrate nella casa stregata si trovano davanti il fantasma della bambina, tutta bianca, con le dita consumate fino all’osso.»

  Bea aveva ridacchiato. «Te non sei mica normale.»

  «Aspetta, aspetta, non ho finito. Il fantasma taglia la gola a una delle due cretine, a te, probabilmente, l’altra scappa per tutta la casa, inciampa sulle scale marce, corre attraverso scheletri e ragnatele, e alla fine si trova davanti la porta murata. A quel punto si gira, fa un bell’urlo in primo piano, e il fantasma fa fuori anche lei.»

  «Sai? Mi stai un pochino spaventando. Solo un pochino.»

  «Era il mio scopo. Facciamo uno scherzo agli altri?»

  «Che scherzo?»

  «Usciamo librandoci sui rami degli alberi come Tarzan, ci arrampichiamo sul muro, e sbuchiamo alle loro spalle urlando come delle pazze. Ci stai?»

  Bea aveva riso. «Se lo facciamo, il ciccione muore sul colpo. »

  «Meglio. Si sta più larghi in macchina.»

  E avevano continuato cosı̀ per un bel po’, prima di uscire dalla villa stregata.

  Tutto, pur di non pensare a quei segni sul muro. A piccole unghie che cercavano di aprirsi un varco impossibile.

  Impossibile

  (come sfondare l’acciaio con le mani, uscire dall’ascensore con la forza delle braccia)

  immaginare il freddo di un’anima imprigionata tra quattro mura, senza nessuna speranza di fuga, con la vita risucchiata via, piano piano, come

  (dentro un ascensore fermo tra l’undicesimo e il dodicesimo piano)

  un mulinello, e Claudia sbatte gli occhi, li chiude, li riapre, e di colpo non è più nella villa stregata insieme a Bea, conosciuta solo poche ore prima. È di nuovo nell’ascensore, tra quattro pareti di metallo, con due uomini che consumano il suo ossigeno prezioso.

  Digrigna i denti cosı̀ forte da riscuotere Tomas dal suo torpore. Il ragazzo alza la testa per un attimo, distratto da quello stridore fastidioso, poi torna a isolarsi nel suo mondo.

  Claudia cerca di riavvolgere il nastro.

  Torna a visualizzare la piazza ampia e spaziosa, il sole, l’aria pura, si sente bene, si sente libera. Ma il nastro scorre fino in fondo, fino a una bambina talmente in bilico sul ciglio della vita da scarnificarsi le dita sui mattoni.

  E allora esce dal film. Si concentra sulla targhetta della capienza e della portata, sulle ginocchia piegate in posizione innaturale che urlano di agonia, sui lembi troppo corti del vestito.

  Tutto, pur di scacciare l’idea di se stessa in ginocchio davanti alle porte della cabina. Impazzita di paura, a graffiare il cemento solido del vano.

  QUARTA ORA

  20:17

  «Biscotti?» brontola Ferro. La sua voce è bassa e gorgogliante, un groviglio di ciottoli nel cestello di una lavatrice.

  «Non ho nient’altro» tossisce Claudia. Ha diviso in tre la sua razione di biscotti. Ferro digrigna i denti rumorosamente.

  «Se non c’è altro, godiamoci questa prelibatezza del palato » dice.

  È molto scuro in volto. Lancia sguardi convulsi a Claudia, poi a Tomas, poi alle pareti dell’ascensore. Muove la testa a scatti come un Terminator, artiglia il suo biscotto come un ragno che afferra la mosca, ne saggia la consistenza tra le dita.

  «Si è quasi sciolto» si lamenta.
«È mezzo sciolto. Cazzo.»

  Claudia alza le spalle. «Caldo» dice soltanto. Economizza le parole. La gola sembra di cartone per quanto è secca, parlare fa male, respirare è un’agonia.

  Ferro spezza in due il biscotto, ne porta una metà alla bocca, mastica piano, gli occhi persi nel verde. Poi manda al diavolo il razionamento del cibo e ficca in bocca tutto. Inghiotte svelto, grufolando, le mani impiastricciate e appiccicose.

  «Tomas?» tossisce di nuovo Claudia. «Ho dei biscotti. Ne vuoi?»

  Tomas non risponde. È accucciato in fondo alla cabina e non dice una parola da venti minuti. Ha gli occhi chiusi come se stesse dormendo, a tratti è scosso da brividi convulsi e violenti.

  «Tomas?» ripete Claudia. Allunga una mano per toccargli una spalla, il ragazzo si ritrae, geme: «Non voglio niente. Non voglio assolutamente niente».

  «Lascia che muoia di fame» latra Ferro. «Se non vuole mangiare, lascia che muoia di fame.»

  Claudia lo ignora, per non essere costretta a insultarlo. Sta impazzendo per la voglia di fumare, di bere, di stendere le gambe. Mastica lentamente.

  Ti darà un po’ di energia, ma peggiorerà la sete, lo sai, no?

  Hai guadagnato un po’ di energia, che il caldo e l’attesa e l’immobilità ti stanno asciugando come una pila scarica, ma tra poco la sete inizierà a farti impazzire. Non lo sai ancora cosa significa davvero avere sete, bambina. Finirai davvero per bere le tue urine e ne sarai felice, lo sai, vero?

  Ripone nello zaino il biscotto rifiutato da Tomas, che è meglio conservarlo in vista di momenti ancora peggiori, e inaspettatamente tocca qualcosa sul fondo. Qualcosa di piccolo, liscio e dimenticato.

  Trasale. Scruta Ferro, ma Ferro non la sta guardando. Mangia in silenzio, gli occhi bassi come un leone nella savana. Non si accorge di lei.

  Allora Claudia apre lo zaino peruviano, solo un poco, quanto basta per guardarci dentro. Ha toccato un pacchetto di Pocket Coffee.

  Un pacchetto che non ricordava di avere nello zaino.

  «Il concerto dei Subsonica!» s’illumina Claudia. Il concerto dei Subsonica a inizio estate, il locale stracolmo, il caldo da impazzire. I corpi sudati che strisciavano l’uno sull’altro. E la sete di metà concerto mentre cantava a squarciagola tutti i ritornelli, alimentata dal caldo da fornace in quel groviglio di carne sotto il palco. Un’ombra, certo, paragonata alla vera sete, quella che sta vivendo nell’ascensore fermo da tre ore e un quarto, ma apparentemente insopportabile, al tempo.

  Il bar era sul lato opposto del locale, raggiungerlo significava abbandonare il posto faticosamente conquistato, farsi largo tra la folla, sgomitare al bancone, ritornare, fendere la folla con la birra in mano, cercare di riconquistare il posto, il bicchiere di plastica pieno fino all’orlo a rallentare l’impresa. Venti minuti di concerto persi. Come minimo.

  E allora aveva avuto un’idea. Si era ficcata in bocca un Pocket Coffee dopo l’altro, suggendo come un’ape il caffè racchiuso nell’involucro di cioccolata. Era pur sempre liquido.

  Con quel misero palliativo era arrivata a fine concerto, alla meritata birra conclusiva, senza ridursi a leccare il suo stesso sudore, o a mendicare un goccio d’acqua dai vicini di transenna.

  Ad anni luce da quel momento spensierato, Claudia ha una mano ficcata nello zaino peruviano. Si sta assicurando di non essere osservata, intanto che valuta al tatto l’esatto contenuto del pacchetto.

  Quattro Pocket Coffee superstiti. Quattro.

  Mezzi sciolti per il caldo, a giudicare dalla consistenza. «È incredibile» pensa «hanno retto a quest’inferno.»

  Claudia schiaccia tra due dita l’estremità aperta del pacchetto, ne fa sgusciare fuori un cioccolatino semifuso ma ancora pieno di liquido prezioso. Lo scarta con pazienza, senza farlo uscire dallo zaino. Il cioccolato è appiccicoso e molle.

  Ferro non guarda. È il momento.

  Porta il Pocket Coffee alla bocca, svelta come un lampo. Lo morde. Chiude gli occhi. E ascende in paradiso.

  Gocce di caffè.

  Liquido.

  Come una cascata nella sua bocca inaridita.

  Il liquido tocca ogni punto del ruvido palato, della lingua di cemento, delle guance come cuoio. Rianimando ogni angolo che tocca, salvifico.

  Per Claudia, è il momento più bello da quando è entrata nell’ascensore.

  Quando ogni stilla di caffè è completamente esaurita, Claudia ingoia svelta la cioccolata semifusa. Ci sono altri tre cioccolatini gravidi di liquido nel pacchetto, tre riserve vitali. Devono restare in fondo allo zaino, ben nascosti. Sono suoi e soltanto suoi.

  Ora che ha recuperato energie, Claudia può affrontare la situazione. Guarda Tomas, appallottolato come uno straccio contro le porte.

  «Tomas?» mormora dolce, di nuovo in grado di articolare le parole. «Tomas? Stai bene?»

  «No» rantola il ragazzo, senza girarsi. «Non sto bene. Non sto bene per niente.» Tossisce. «Ho sete. Muoio di sete. Ho perso il treno, il treno è già partito e io sono ancora in questo cazzo di ascensore. Devo assolutamente fare una telefonata, e questo cazzo di cellulare continua a dirmi che sta cercando la rete. Credo di avere la febbre. Non sto bene. Non sto bene per niente.»

  «Be’, perché non piangi, bimbo?» lo provoca Ferro, gli occhi increspati di sottili ragnatele rosse. «Perché non picchi i piedini per terra? Magari la fatina buona ti tira fuori di qui. Che dici, bimbo? Picchia i piedini per terra, dai. Facci divertire. Picchia i piedini per terra.»

  «Basta» lo rimprovera Claudia.

  «Basta un cazzo» ringhia Ferro, alzandosi in piedi.

  Claudia si irrigidisce. Si appiattisce contro la parete.

  Oddio. Oddio, è impazzito. Guardagli gli occhi. È impazzito.

  Nel vederla spaventata, Ferro ridacchia catarroso. Alza le mani. «Oh, oh, bambina, stai calma. Non ti violento mica qua dentro. Non ci sarebbe nemmeno lo spazio», ride convulso alla sua battuta. «Però, cazzo, io devo proprio farmi una paglia. Se non fumo divento cattivo, non rispondo più di me. Non volete vedere Aldo Ferro che diventa cattivo, vero?»

  «Non c’è aria qui dentro» sussurra Claudia, cercando aiuto da Tomas con la coda dell’occhio. Non lo trova. Tomas non c’è, è altrove. «Anch’io vorrei fumare, solo, non c’è assolutamente aria, qui dentro.»

  «Lo so, bambina, lo so, respiro anch’io, cosa credi, che abbia le branchie? Quindi sarò bravo, rispetterò le zone non fumatori e andrò a farmi una paglia fuori. Tenetemi aperte le porte.» Allunga la gamba, tocca Tomas con la punta dello stivale. «Oh, bimbo, mi hai sentito? Devo andare a fumare fuori. Siate buoni, voi due, tenetemi aperte le porte. Sennò divento cattivo.»

  Claudia si alza meccanicamente, stringe i denti. Le ginocchia anchilosate gridano per il dolore.

  Per un istante ha avuto paura, vera paura.

  Non è una che si spaventa facilmente, Claudia, ma quando ha guardato negli occhi di Ferro ha avuto una paura folle. Quando ha guardato in quei due pozzi neri, due pozzi neri con dietro il niente.

  In quel momento ha provato una sensazione orribile. Non era più in un ascensore con due sconosciuti, un ragazzo innocuo e affidabile e un uomo sgradevole, sgradevole ma non più pericoloso del cafone che ti tampona e urla in mezzo alla strada, pretende di aver ragione e non vuole firmare nessun modulo. Quando ha visto quei due pozzi neri, quando ha sentito ringhiare quella voce da orco, si è sentita in un limbo senza regole, un limbo in cui tutto può succedere. Con un giovane alleato infinitamente più debole del vecchio nemico. Ha avuto paura. E ha ubbidito.

  Tomas ci mette un po’ a riemergere dal suo triste universo, un universo fatto di treni sui binari, di ragazze in trepida attesa alla stazione, di telefoni inservibili. Si alza grondando sudore, striscia radente alle pareti dalla parte opposta rispetto a Claudia. La sua pelle scivola sul sudore di Ferro, sui pannelli d’acciaio.

  Aprono le porte.

  Claudia tiene aperta quella di sinistra. Tomas quella di destra.

  «Grazie, bimbi» tossisce di nuovo Ferro. «Fate i bravi, che poi zio Aldo è generoso con la paghetta.»

  S
porge la testa nel vano dell’ascensore, in piedi sul binario di scorrimento. Si sporge negli otto centimetri a sua disposizione, cerca nella tasca il pacchetto, poi lo Zippo. Sfila la sigaretta dal pacchetto, in un rituale meticoloso. Accende la sigaretta, aspira voluttuosamente, e lascia che il fumo si perda nel vano.

  Claudia e Tomas sono costretti ad appiattirsi contro le pareti, a tirarsi il più possibile dentro alla cabina e allungare le braccia per mantenere la presa sulle porte, in una posizione scomoda e innaturale. Si puntellano con i piedi sulla gomma a bolle, come due ancelle che fanno spazio al loro signore.

  Claudia stringe i denti. È incredibile la pressione che esercitano quelle incongrue porte a molla, la pervicacia con cui tentano di ricongiungersi. Non sono porte a molla, pensa, sono magnetiche, magnetizzate, sembrano.

  Tomas è impegnato in uno sforzo speculare dall’altro lato, l’aria assente, le braccia tese. In mezzo a loro il sosia di Elvis fuma tranquillamente, a torso nudo, ricamando anelli di fumo nel vano dell’ascensore. Fa cadere la cenere giù per undici piani, come se fosse sul balcone di casa sua. Claudia e Tomas sono costretti a fargli da cavalieri serventi, le braccia allungate come quelle di Mister Fantastic.

  «Come se non fossimo già abbastanza distrutti dal caldo, dalla sete, dalla claustrofobia, no, dobbiamo anche lottare con le porte che scivolano sotto le dita, tutto per consentire a questo stronzo sudato di fumare con calma» pensa rabbiosa Claudia.

  Lo odia. Sopporterebbe tutta quella tortura, l’immobilità, l’attesa, se il suo unico compagno di sventura fosse Tomas.

  Ma quell’uomo orrendo, con i suoi miasmi di fetido sudore, con i suoi ciuffi di peli sulla schiena e sulle spalle, con tutto lo schifo che tiene nascosto dietro la facciata di perbenismo fintamente zingaresco, tutto questo le fa venir voglia di mordere e graffiare. La grattugia sulla nuca pulsa come se volesse crescere, come se volesse ramificarsi tra le ossa.

 

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