Blackout

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Blackout Page 16

by Gianluca Morozzi


  Merda. Merda. Merda. Se quello si avvicina, lascio la valigia e corro via come il vento. Sono sempre stata lenta a correre. Merda. Alle gare di corsa campestre della scuola arrivo sempre tra le ultime, insieme alle ciccione. Ci mancava solo questa. Tutta colpa di quel bastardo.

  Ti odio, Tomas.

  Ti odio.

  Dovevamo già essere oltre il confine, a quest’ora. E invece sono qua, nel deserto, a trascinarmi una valigia, a guardare la brace della sigaretta di uno sconosciuto alle mie spalle.

  Ti odio. Giuro che ti odio.

  Cento metri, e il suono dei passi dello sconosciuto è sostituito dal cigolı̀o di un portone che si apre. Francesca gira di nuovo la testa. Lo sconosciuto sta tranquillamente entrando in casa sua.

  Francesca respira di nuovo. Allenta la presa sul cellulare, e continua la sua lenta, interminabile marcia. A metà strada, si vede passare davanti l’autobus notturno.

  Non si arrabbia nemmeno. Non ne ha più la forza.

  Casa sua, eccola.

  Si era illusa di poter volare via da quella casa, Francesca. E invece è ricaduta a terra con un tonfo pensantissimo.

  Prima di entrare, fa un ultimo tentativo. Chiama per l’ultima volta il cellulare di Tomas, ripete a occhi chiusi «Rispondi, rispondi, rispondi, rispondi, bastardo, ti odio, ti odio, ti odio».

  Ma l’utente, come al solito, non è al momento raggiungibile.

  E allora Francesca sospira, si trascina la valigia sulle scale, e va incontro al suo destino.

  Fai che i miei non siano ancora tornati. Fai che non siano ancora tornati, tipregotipregotipregotiprego.

  Arriva al pianerottolo.

  Cerca le chiavi.

  E in quel momento sente le voci al di là della porta. Suo padre e sua madre.

  Che sono già rientrati. E stanno urlando nel loro appartamento, nel cuore della notte.

  Appoggia la valigia sul pianerottolo e si siede sull’ultimo gradino, abbracciandosi le ginocchia.

  Rientrare in casa, non ne ha il coraggio. Non sa cosa fare. Non sa dove andare.

  E allora rimane lı̀, anche quando si spegne la luce delle scale. Rimane lı̀ nel buio, senza sapere cosa fare e dove andare, ascoltando le urla terribili dietro la porta.

  Nel deserto del Marocco, a sud di Erfoud, Bea è tra le dune a guardare le stelle.

  Nelle prime settimane di lavorazione, riusciva a comunicare con Claudia almeno una volta al giorno. Si dicevano cose mielosissime in quelle prime settimane di lontananza, cose affatto autoironiche, del tipo se guardiamo la stessa stella alla stessa ora sapremo che ci stiamo pensando. Cose cosı̀, bleah.

  Ma Bea non ha più tempo per le mail o le telefonate, adesso che le riprese si sono fatte veramente dure. Il regista la sta spremendo in tutti i modi, lui, il maestro di spada, il capo stunt, i cavalli, i maledetti cammelli, la stanno massacrando fisicamente e psicologicamente. I cammelli, soprattutto.

  Guarda il cielo, cerca la loro stella, sua e di Claudia, ma per quanto si sforzi non riesce a trovarla. Le costellazioni sembrano diverse e aliene, in mezzo alle dune. Tutto sembra diverso, in mezzo alle dune.

  Guarda i camper lontani, verso la linea dell’orizzonte. «Meglio andare a dormire» si dice, «che domani sarà un delirio. Tutte quelle scene sui cammelli, i maledetti cammelli, con quella roba schifosa che sputano. Bestie bastarde.»

  Spazzola via con le mani la sabbia dai pantaloni in tela leggera.

  Risale in macchina.

  E guida lentamente sulla sabbia, sotto il cielo stellato.

  A due ore di aereo dal deserto del Marocco, in una periferia di città cotta dal sole di quel lungo giorno, Claudia sta respirando come un mantice in iperventilazione. Il cuore batte cosı̀ forte che sembra volerle aprire il petto, schiacciata dal corpo ormai immobile di Aldo Ferro. Lo Zippo è schizzato via da quella mano inerte. È buio di nuovo.

  Lentamente, deglutendo saliva acida, scivola fuori da quell’ammasso di carne fredda e morta. Nella cabina, adesso, l’odore è insopportabile.

  Claudia cerca lo Zippo, allunga la mano a tentoni sulla gomma a bolle. Tocca cose viscide, liquide, morbide e molli,

  (non voglio sapere cosa sto toccando. Non voglio sapere cosa sto toccando. Non voglio sapere cosa sto toccando)

  la lama del coltello, da cui si ritrae subito.

  Proprio quando si è convinta che lo Zippo sia caduto nel vano, lo trova. In una pozza di liquame schifoso, fluido e denso.

  Lo raccoglie, con le dita che tremano violentemente. È scossa da brividi devastanti che la squassano in tutto il corpo.

  Accende la fiammella. Illumina la cabina.

  Ferro è in una posizione ridicola e innaturale. Sembra che abbia la testa infilata in una sagoma di cartone, di quelle con un ovale in cui mettere la faccia per scattare una foto buffa, col viso su un corpo di cowboy o di culturista.

  Solo che ha le braccia rilasciate mollemente lungo i fianchi. Le ginocchia radenti a terra.

  E la testa schiacciata tra le porte.

  Col sangue che gocciola sul binario di scorrimento, ritmicamente, come un rubinetto che perde.

  «È morto?» rantola Tomas.

  Claudia si gira. Il ragazzo è immobile sul fondo della cabina. La osserva con gli occhi acquosi e vacui.

  «Sı̀» risponde lei, poi crolla, sopraffatta dalla tensione, dalla puzza di escrementi, di sangue, di sudore. Vomita tra la camicia country ripiegata e lo stivale destro di Ferro, quello sfilato dopo l’incidente della caviglia. Rigetta cioccolata, caffè, succhi gastrici, tremando per le violente convulsioni, la divisa strappata lungo la coscia sinistra. La pallina di metallo che l’ha resa forte e risoluta è tornata nell’universo alieno da cui proveniva.

  Alla fine, Claudia si riscuote. Si pulisce la bocca con la camicia di Ferro, raccoglie da terra la maglietta di Bruce Springsteen, la strappa in tre parti con la mano libera e con i denti. Cerca di restare lucida, di non pensare che a ogni movimento sta sfiorando un cadavere dalla testa fracassata, che non può fare a meno di toccarlo con le gambe nude. Si sforza di non pensarci, s’inginocchia davanti a Tomas, e fascia in qualche modo la sua ferita con quelle bende improvvisate. La stoffa nera, sottile, si impregna subito di sangue.

  Prova a strappare dei lembi della camicia di Ferro a mani nude, senza riuscirci. E allora raccoglie da terra il coltello e comincia a tagliare, in silenzio. Mentre Tomas la osserva con un sorriso triste.

  Claudia si sforza di ignorare l’odore di tutte quelle cose che dovrebbero stare dentro e invece sono fuori, sangue, succhi gastrici, escrementi. Tutte le cose che dovrebbero stare dentro e invece sono fuori, e lei che vorrebbe essere fuori invece è chiusa dentro, ancora e inevitabilmente dentro, chissà per quanto, ancora.

  «Devi rimanere cosciente» sta dicendo la voce di Claudia da qualche angolo dell’universo. «Devi rimanere cosciente, rimanere cosciente, cosciente, cosciente.» La sua voce è morbido miele, scorre giù per i canali uditivi e rimbalza nel cranio e scende in vibrazione fino alla gola, ma la spalla è ferita e brucia e fa male, e allora Tomas indirizza la vibrazione in territori più sicuri, la guida e la pilota come un’astronave che galleggia negli spazi vuoti tra i margini, bisogna stare molto attenti agli spazi vuoti tra i margini, si dice Tomas, bisogna stare molto attenti perché negli spazi vuoti tra i margini vivono le api senza forma, e le api senza forma nella configurazione conosciuta come Mark V hanno una potenza sonora impressionante, una compattezza metallica capace di tagliare il collo a un uomo come un coltello, bisogna stare attenti, molto attenti, alle api senza forma.

  «Non svenire di nuovo» ripete Claudia, «resta aggrappato alla realtà, devi restare aggrappato alla realtà, dimmi qualcosa, parlami, come si chiama tuo padre?»

  Nel buio al centro della testa di Tomas si apre una nuova piccola bocca che ride, parla masticando chiodi e cocci di bottiglia, «Potrò mica ricordarmi come si chiama mio padre» sghignazza la piccola bocca al centro della testa, «potrò mica ricordarmi tutte queste cose, io, io ho avuto altro da fare, ho combattuto il mostro e il mostro è morto, ma quando la sua testa si è staccata dal corp
o il suo sangue avvelenato mi ha coperto nero e denso, e ora sto morendo anch’io, che non mi sembra mica giusto, io a quest’ora dovevo essere ad Amsterdam, e se vi concedo di essere qua ancora per qualche ora in questo ascensore potreste avere la compiacenza di non farmi sanguinare cosı̀ tanto, quantomeno».

  «Come si chiama tuo padre?» ripete Claudia. «Tomas, Tomas, rimani aggrappato alla realtà, rimani cosciente, non lasciarmi sola, Tomas, come si chiama tuo padre? Dimmi come si chiama tuo padre.»

  La piccola bocca nella testa di Tomas risponde: «Non me lo ricordo come si chiama mio padre», e lo dice fortissimo, perché il suono passa dalla bocca più grande che sta sulla faccia di Tomas sopra il taglio di coltello e Claudia sente, perché dice: «Cosa vuol dire non te lo ricordi?»

  E la piccola bocca ribadisce «non me lo ricordo, non me lo ricordo».

  E Claudia: «E tua madre, come si chiama tua madre?»

  E la piccola bocca risponde: «Non me lo ricordo, non me lo ricordo, non me lo ricordo, lasciami in pace, io sto bene qua».

  INTERLUDIO: WILMO

  Anche a Wilmo Chiodi piaceva catturare le lucertole, da bambino. Le prendeva per la coda, le chiudeva in un barattolo di maionese, e con una cinepresa giocattolo ne filmava la lotta per la vita. L’ultima lucertola che restava viva, aveva in premio la libertà.

  Wilmo Chiodi viveva in un grumo di alberghi, sale giochi e ombrelloni gettati un po’ a caso sulla riviera romagnola. Uno sputo di paese che viveva solo e soltanto da maggio a settembre, per poi sprofondare nel sonno profondo della lunghissima stagione invernale. I suoi genitori erano i proprietari della pensione Miranda, popolata da maggio a settembre da turisti tedeschi, famiglie con bambini piccoli, coppie di pensionati in cerca di sole, mare e relax. Wilmo aiutava i genitori in sala, prendeva le ordinazioni delle bottiglie d’acqua e del vino.

  A fine settembre, quando i lettini e gli ombrelloni venivano ripiegati e messi da parte fino a maggio, quando gli alberghi si svuotavano e il paese diventava un veliero fantasma, Wilmo dava spazio alla sua fantasia. Le signore tedesche erano gentili e generose con le mance, e a fine estate Wilmo metteva da parte tutti i soldi guadagnati durante la stagione. Un giorno, con tutte quelle mance, avrebbe comprato una cinepresa. E avrebbe fissato su pellicola tutti i piccoli e meravigliosi film che scorrevano nella sua testa, fotogramma dopo fotogramma, in quei lunghi giorni passati a guardare la pioggia sottile sulle onde gelate.

  Quando si sentiva davvero morire in quell’orribile nulla ovattato, Wilmo saltava sul motorino e si spostava verso Rimini. Sfrecciava per dieci chilometri sull’asfalto fradicio del lungomare, costeggiando la macchia di grigio formata dall’acqua che si mischiava al cielo. Lasciava il motorino in una laterale di corso Augusto, e andava a scaldarsi le ossa e l’anima nel suo cineclub preferito.

  Imparava.

  Andava a vedere una copia restaurata di King Kong, magari, e rimaneva incantato dalle animazioni col fermo immagine di Willis O’Brien. Poteva passare un pomeriggio intero guardando quattro film di seguito, con la sua tessera sconto da studente, da solo nella sala deserta.

  Imparava.

  Wilmo Chiodi, in quei pomeriggi passati in uno scalcinato cineclub destinato a chiudere di lı̀ a poco, aveva già perfettamente in testa il suo destino.

  Dopo il diploma, Wilmo si era trasferito a Bologna per iscriversi al DAMS. Era andato ad abitare da uno zio all’estrema periferia della città, al confine con la campagna, in un intrico di vie battezzate con i nomi dei vecchi presidenti della Repubblica.

  In quei primi mesi universitari, Wilmo aveva imparato a convivere con il rumore delle ruspe e delle gru. Dall’altra parte della strada, stavano sorgendo due palazzi enormi.

  Due palazzi gemelli.

  Wilmo li aveva visti nascere e crescere, elevarsi maestosi sulle schiere di casette basse in cemento armato, con le ringhiere azzurre tutte uguali. Aveva preparato i primi esami col ruggire delle escavatrici, il brontolio delle betoniere, le urla dei muratori sulle impalcature.

  E poi, a un esame, aveva conosciuto Walter.

  NONA ORA

  Claudia sta in ginocchio nei pochi centimetri a sua disposizione. Ha strappato un’altra striscia di uniforme per usarla come benda, ma il sangue continua a uscire, cazzo, continua a uscire e lei non sa assolutamente cosa fare. Ha paura che Tomas muoia dissanguato, non sa come impedirlo. Ha il terrore di restare sola in quella tomba di plastica e ferro, sola tra due cadaveri. Ha paura di impazzire, lı̀ nell’ascensore.

  Sfiora il cadavere di Ferro a ogni minimo movimento. Non può fare a meno di toccare quella carne morta.

  L’odore nella cabina è insostenibile. L’aria è una palude, penetra il cervello in aghi sottili. Tanti piccoli aghi sottili.

  Claudia chiude gli occhi, stringe le palpebre fortissimo.

  Tomas alterna momenti di oblio ad altri di semicoscienza. Quando parla è rauco, strascicato e sofferente.

  «Claudia?»

  «Zitto. Sto cercando di dormire.»

  «Non è un normale blackout. Un blackout non dura cosı̀ tanto.»

  «Che vuoi dire?»

  «Che aveva ragione Ferro. È successo qualcosa, là fuori. Sono morti tutti. Tutti. Non c’è più niente là fuori.»

  «Aspetta!» urla Claudia. «Si sta muovendo!»

  «Non si sta muovendo.»

  «Certo che si sta muovendo! Non lo senti? L’ascensore. Sta scendendo. Non senti? Sta scendendo!»

  «Non sta scendendo.»

  «Certo che sta scendendo, idiota! Si muove! Siamo salvi! Siamo salvi!»

  Rimangono in silenzio, concentrati su ogni vibrazione. Claudia resta tesa come un puma per venti interminabili minuti.

  Poi crolla, si accascia sul pavimento senza forze.

  INTERLUDIO: WILMO E WALTER

  Come la Terra trattiene la Luna e in cambio la Luna influenza spiriti e maree, Wilmo e Walter avevano iniziato a satellitarsi intorno.

  Wilmo era il vulcano, il cervello in perenne ebollizione, l’uomo con più idee di quante fosse possibile realizzarne.

  Walter, be’, Walter idee non ne aveva, non era brillante, non era intelligente. Ma era il figlio di Colui che tutto può. Tanto bastava.

  Quando si erano conosciuti, Walter si era presentato con tanto di nome e cognome. E il suo cognome, inevitabilmente, richiamava quello di un volto televisivo ben noto a tutti gli italiani, l’eminenza che da trent’anni manipolava vicende catodiche e non solo catodiche, Colui che tutto può.

  Nel sentire quel cognome, Wilmo non aveva potuto evitare la battuta. Ben conscio che Walter, probabilmente, sentiva quella battuta ogni santo giorno della sua vita.

  Cosı̀ gli aveva domandato sorridente: «Sarai mica parente di...?»

  Walter, con un candore insospettabile, aveva gioiosamente risposto: «Certo, è mio padre».

  E Wilmo aveva spalancato gli occhi.

  Nella sua testa si stavano aprendo cancelli su cancelli verso il futuro. Orizzonti sconfinati su scenari di gloria.

  Aveva la possibilità di diventare amico - ma quale amico, un fratello, un simbionte - del figlio di Colui che tutto può. L’uomo che da trent’anni dava del tu ai politici che facevano a gara per un invito alla sua trasmissione. L’uomo che con una telefonata poteva stroncare senza appello una carriera o, al contrario, farla definitivamente decollare.

  Aveva cercato di non esternare troppo la sua gioia, quando aveva stretto la mano di quel portale verso l’infinito dicendo calmissimo: «Piacere, Wilmo Chiodi».

  Walter era un ragazzone rubizzo, con le guance rosse e una massa di capelli perennemente spettinati.

  «Io voglio seguire la mia strada senza dover contare mai sul mio cognome!» ripeteva sempre. «Piuttosto che chiedere l’aiuto di mio padre vado a scaricare le casse della frutta! Io sono un creativo, io devo sfondare con le mie sole forze!» Wilmo ascoltava quei proclami roboanti e sorrideva, pensando: «Sı̀, sı̀, certo, come no».

  Continuava a coinvolgere nei suoi progetti quel ragazzone buono, ma senza uno straccio di intuizione che non fosse la risciacquatura di cose sfruttate e risf
ruttate. Era bravo a trattarlo come un pari livello, a farlo sentire la metà di un duo. Quando gli esponeva le sue idee per un cortometraggio o per un filmino amatoriale, il contributo di Walter non andava quasi mai oltre un ammirato: «Sı̀, sı̀, bello, bello». Però, abilmente, Wilmo continuava a dire il nostro cortometraggio, il nostro progetto, a sollecitare continuamente il suo contributo, Walter sparava un paio di cazzate sconfortanti che Wilmo accoglieva soltanto a parole, senza nemmeno sognarsi di prenderle in considerazione. A progetto finito Wilmo gongolava, diceva: «Siamo stati bravi, eh, socio?, abbiamo fatto un bel lavoro, eh, socio?»

  Ingenuo com’era, Walter nemmeno si accorgeva che di suo, in quel progetto, erano rimaste solo le briciole.

  Per tutti gli anni di università erano stati gemelli siamesi, Wilmo e Walter. Si erano laureati brillantemente - la sciatta tesi di Walter aveva riscosso entusiasmi ingiustificati e molto sospetti, in sede di discussione - e appena laureati avevano deciso di avventurarsi nel mare in burrasca dello spettacolo.

  Wilmo sognava di sfondare nel cinema, ma sapeva anche essere realista e pragmatico fino all’osso. Era troppo importante poter contare sull’amicizia di Walter, sull’appoggio del manipolatore che agiva nell’ombra, che apriva tutte le porte per il figlio. Non sfruttare quel canale preferenziale, be’ sarebbe stato autolesionismo.

  Cosı̀ aveva deciso: si sarebbe fatto un nome come autore televisivo, piantando solide radici nell’ambiente. Una volta insediato, al momento giusto, avrebbe fatto il grande salto.

  Wilmo era la mente. Walter, la chiave.

  Subito dopo, coerente col meraviglioso mondo di elfi e fatine buone che abitava la testa di Walter, qualche pezzo grossissimo della TV li aveva contattati. Aveva detto di aver casualmente visionato i loro cortometraggi semiclandestini, di averne apprezzato la forza visionaria, e di voler proprio conoscere quei due giovani e sorprendenti autori. Tutto questo cumulo di cazzate Walter l’aveva riportato a Wilmo parola per parola, entusiasta, candido e convinto.

 

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