The Inferno
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con la forza di tal che testé piaggia.
Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l’altra sotto gravi pesi,
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come che di ciò pianga o che n’aonti.
Giusti son due, e non vi sono intesi; →
superbia, invidia e avarizia sono →
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le tre faville c’hanno i cuori accesi.”
Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: “Ancor vo’ che mi ’nsegni
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e che di più parlar mi facci dono.
Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, →
Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca
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e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,
dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
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se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca.”
E quelli: “Ei son tra l’anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
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se tanto scendi, là i potrai vedere.
Ma quando tu sarai nel dolce mondo, →
priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:
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più non ti dico e più non ti rispondo.” →
Li diritti occhi torse allora in biechi; →
guardommi un poco e poi chinò la testa:
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cadde con essa a par de li altri ciechi.
E ’l duca disse a me: “Più non si desta
di qua dal suon de l’angelica tromba,
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quando verrà la nimica podesta:
ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
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udirà quel ch’in etterno rimbomba.” →
Sì trapassammo per sozza mistura
de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,
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toccando un poco la vita futura; →
per ch’io dissi: “Maestro, esti tormenti
crescerann’ ei dopo la gran sentenza,
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o fier minori, o saran sì cocenti?”
Ed elli a me: “Ritorna a tua scïenza, →
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
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più senta il bene, e così la doglienza.
Tutto che questa gente maladetta →
in vera perfezion già mai non vada,
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di là più che di qua essere aspetta.”
Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch’i’ non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
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quivi trovammo Pluto, il gran nemico.
INFERNO VII
“Pape Satàn, pape Satàn aleppe!” →
cominciò Pluto con la voce chioccia;
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e quel savio gentil, che tutto seppe,
disse per confortarmi: “Non ti noccia
la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,
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non ci torrà lo scender questa roccia.”
Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,
e disse: “Taci, maladetto lupo! →
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consuma dentro te con la tua rabbia.
Non è sanza cagion l’andare al cupo: →
vuolsi ne l’alto, là dove Michele
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fé la vendetta del superbo strupo.”
Quali dal vento le gonfiate vele →
caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,
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tal cadde a terra la fiera crudele.
Così scendemmo ne la quarta lacca,
pigliando più de la dolente ripa
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che ’l mal de l’universo tutto insacca.
Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa →
nove travaglie e pene quant’ io viddi?
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e perché nostra colpa sì ne scipa?
Come fa l’onda là sovra Cariddi, →
che si frange con quella in cui s’intoppa,
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così convien che qui la gente riddi. →
Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa, →
e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,
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voltando pesi per forza di poppa.
Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì
si rivolgea ciascun, voltando a retro,
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gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?”
Così tornavan per lo cerchio tetro →
da ogne mano a l’opposito punto,
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gridandosi anche loro ontoso metro;
poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,
per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.
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E io, ch’avea lo cor quasi compunto, →
dissi: “Maestro mio, or mi dimostra
che gente è questa, e se tutti fuor cherci →
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questi chercuti a la sinistra nostra.”
Ed elli a me: “Tutti quanti fuor guerci
sì de la mente in la vita primaia,
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che con misura nullo spendio ferci.
Assai la voce lor chiaro l’abbaia,
quando vegnono a’ due punti del cerchio
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dove colpa contraria li dispaia.
Questi fuor cherci, che non han coperchio →
piloso al capo, e papi e cardinali,
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in cui usa avarizia il suo soperchio.”
E io: “Maestro, tra questi cotali
dovre’ io ben riconoscere alcuni
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che furo immondi di cotesti mali.”
Ed elli a me: “Vano pensiero aduni:
la sconoscente vita che i fé sozzi,
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ad ogne conoscenza or li fa bruni.
In etterno verranno a li due cozzi:
questi resurgeranno del sepulcro
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col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. →
Mal dare e mal tener lo mondo pulcro
ha tolto loro, e posti a questa zuffa:
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qual ella sia, parole non ci appulcro.
Or puoi, figliuol, veder la corta buffa
d’i ben che son commessi a la fortuna, →
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per che l’umana gente si rabuffa;
ché tutto l’oro ch’è sotto la luna
e che già fu, di quest’ anime stanche
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non poterebbe farne posare una.”
“Maestro mio,” diss’ io, “or mi dì anche:
questa fortuna di che tu mi tocche,
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che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?”
E quelli a me: “Oh creature sciocche, →
quanta ignoranza è quella che v’offende!
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Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.
Colui lo cui saver tutto trascende,
fece li cieli e diè lor chi conduce
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sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,
distribuendo igualmente la luce.
Similemente a li splendor mondani
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ordinò general ministra e duce
che permutasse a tempo li ben vani
di gente in gente e d’uno in altro sangue,
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oltre la difension d’i senni umani;
per ch’una gente impera e l’altra langue,
seguendo lo giudicio di costei,
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che è occulto come in erba l’angue. →
Vostro saver non ha contasto a lei:
questa provede, giudica, e persegue
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suo regno come il loro li altri dèi. →
Le sue permutazion non han
no triegue:
necessità la fa esser veloce;
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sì spesso vien chi vicenda consegue. →
Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce
pur da color che le dovrien dar lode,
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dandole biasmo a torto e mala voce;
ma ella s’è beata e ciò non ode:
con l’altre prime creature lieta
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volve sua spera e beata si gode.
Or discendiamo omai a maggior pieta;
già ogne stella cade che saliva →
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quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta.”
Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva
sovr’ una fonte che bolle e riversa
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per un fossato che da lei deriva.
L’acqua era buia assai più che persa;
e noi, in compagnia de l’onde bige,
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intrammo giù per una via diversa.
In la palude va c’ha nome Stige →
questo tristo ruscel, quand’ è disceso
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al piè de le maligne piagge grige.
E io, che di mirare stava inteso, →
vidi genti fangose in quel pantano,
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ignude tutte, con sembiante offeso.
Queste si percotean non pur con mano,
ma con la testa e col petto e coi piedi,
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troncandosi co’ denti a brano a brano.
Lo buon maestro disse: “Figlio, or vedi
l’anime di color cui vinse l’ira;
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e anche vo’ che tu per certo credi
che sotto l’acqua è gente che sospira, →
e fanno pullular quest’ acqua al summo,
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come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.
Fitti nel limo dicon: ‘Tristi fummo
ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
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portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra.’
Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,
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ché dir nol posson con parola integra.”
Così girammo de la lorda pozza
grand’ arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,
con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.
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Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.
INFERNO VIII
Io dico, seguitando, ch’assai prima →
che noi fossimo al piè de l’alta torre,
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li occhi nostri n’andar suso a la cima
per due fiammette che i vedemmo porre, →
e un’altra da lungi render cenno,
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tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.
E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; →
dissi: “Questo che dice? e che risponde
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quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?”
Ed elli a me: “Su per le sucide onde
già scorgere puoi quello che s’aspetta,
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se ’l fummo del pantan nol ti nasconde.”
Corda non pinse mai da sé saetta
che sì corresse via per l’aere snella,
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com’ io vidi una nave piccioletta →
venir per l’acqua verso noi in quella,
sotto ’l governo d’un sol galeoto,
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che gridava: “Or se’ giunta, anima fella!” →
“Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto,” →
disse lo mio segnore, “a questa volta: →
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più non ci avrai che sol passando il loto.”
Qual è colui che grande inganno ascolta →
che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
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fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.
Lo duca mio discese ne la barca, →
e poi mi fece intrare appresso lui;
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e sol quand’ io fui dentro parve carca.
Tosto che ’l duca e io nel legno fui,
segando se ne va l’antica prora
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de l’acqua più che non suol con altrui.
Mentre noi corravam la morta gora, →
dinanzi mi si fece un pien di fango, →
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e disse: “Chi se’ tu che vieni anzi ora?”
E io a lui: “S’i’ vegno, non rimango;
ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?”
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Rispuose: “Vedi che son un che piango.”
E io a lui: “Con piangere e con lutto, →
spirito maladetto, ti rimani;
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ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto.”
Allor distese al legno ambo le mani; →
per che ’l maestro accorto lo sospinse,
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dicendo: “Via costà con li altri cani!”
Lo collo poi con le braccia mi cinse;
basciommi ’l volto e disse: “Alma sdegnosa,
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benedetta colei che ’n te s’incinse!
Quei fu al mondo persona orgogliosa; →
bontà non è che sua memoria fregi:
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così s’è l’ombra sua qui furïosa.
Quanti si tegnon or là sù gran regi
che qui staranno come porci in brago,
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di sé lasciando orribili dispregi!”
E io: “Maestro, molto sarei vago
di vederlo attuffare in questa broda
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prima che noi uscissimo del lago.”
Ed elli a me: “Avante che la proda
ti si lasci veder, tu sarai sazio:
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di tal disïo convien che tu goda.”
Dopo ciò poco vid’ io quello strazio
far di costui a le fangose genti,
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che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!” →
e ’l fiorentino spirito bizzarro →
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in sé medesmo si volvea co’ denti. →
Quivi il lasciammo, che più non ne narro;
ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,
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per ch’io avante l’occhio intento sbarro.
Lo buon maestro disse: “Omai, figliuolo,
s’appressa la città c’ha nome Dite, →
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coi gravi cittadin, col grande stuolo.”
E io: “Maestro, già le sue meschite →
là entro certe ne la valle cerno,
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vermiglie come se di foco uscite
fossero.” Ed ei mi disse: “Il foco etterno
ch’entro l’affoca le dimostra rosse,
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come tu vedi in questo basso inferno.”
Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse
che vallan quella terra sconsolata:
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le mura mi parean che ferro fosse. →
Non sanza prima far grande aggirata,
venimmo in parte dove il nocchier forte
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“Usciteci,” gridò: “qui è l’intrata.” →
Io vidi più di mille in su le porte →
da ciel piovuti, che stizzosamente
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dicean: “Chi è costui che sanza morte
va per lo regno de la morta gente?”
E ’l savio mio maestro fece segno
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di voler lor parlar segretamente.
Allor chiusero un poco il gran disdegno
e disser: “Vien tu solo, e quei sen vada
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che sì ardito intrò per questo regno.
Sol si ritorni per la folle strada:
pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,
/>
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che li ha’ iscorta sì buia contrada.”
Pensa, lettor, se io mi sconfortai →
nel suon de le parole maladette,
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ché non credetti ritornarci mai.
“O caro duca mio, che più di sette →
volte m’hai sicurtà renduta e tratto
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d’alto periglio che ’ncontra mi stette,
non mi lasciar,” diss’ io, “così disfatto;
e se ’l passar più oltre ci è negato,
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ritroviam l’orme nostre insieme ratto.”
E quel segnor che lì m’avea menato,
mi disse: “Non temer; ché ’l nostro passo →
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non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.
Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso →
conforta e ciba di speranza buona,
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ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso.”
Così sen va, e quivi m’abbandona
lo dolce padre, e io rimagno in forse,
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che sì e no nel capo mi tenciona.
Udir non potti quello ch’a lor porse;
ma ei non stette là con essi guari,
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che ciascun dentro a pruova si ricorse.
Chiuser le porte que’ nostri avversari →
nel petto al mio segnor, che fuor rimase
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e rivolsesi a me con passi rari.
Li occhi a la terra e le ciglia avea rase
d’ogne baldanza, e dicea ne’ sospiri:
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“Chi m’ha negate le dolenti case!”
E a me disse: “Tu, perch’ io m’adiri, →