The Inferno
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di grado in grado, come que’ che lassi.
Tutti son pien di spirti maladetti;
ma perché poi ti basti pur la vista,
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intendi come e perché son costretti.
D’ogne malizia, ch’odio in cielo acquista, →
ingiuria è ’l fine, ed ogne fin cotale
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o con forza o con frode altrui contrista.
Ma perché frode è de l’uom proprio male,
più spiace a Dio; e però stan di sotto
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li frodolenti, e più dolor li assale.
Di vïolenti il primo cerchio è tutto; →
ma perché si fa forza a tre persone,
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in tre gironi è distinto e costrutto.
A Dio, a sé, al prossimo si pòne
far forza, dico in loro e in lor cose,
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come udirai con aperta ragione.
Morte per forza e ferute dogliose →
nel prossimo si danno, e nel suo avere
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ruine, incendi e tollette dannose;
onde omicide e ciascun che mal fiere,
guastatori e predon, tutti tormenta
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lo giron primo per diverse schiere.
Puote omo avere in sé man vïolenta →
e ne’ suoi beni; e però nel secondo
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giron convien che sanza pro si penta
qualunque priva sé del vostro mondo,
biscazza e fonde la sua facultade,
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e piange là dov’ esser de’ giocondo.
Puossi far forza ne la deïtade, →
col cor negando e bestemmiando quella,
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e spregiando natura e sua bontade;
e però lo minor giron suggella
del segno suo e Soddoma e Caorsa
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e chi, spregiando Dio col cor, favella.
La frode, ond’ ogne coscïenza è morsa, →
può l’omo usare in colui che ’n lui fida
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e in quel che fidanza non imborsa.
Questo modo di retro par ch’incida
pur lo vinco d’amor che fa natura;
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onde nel cerchio secondo s’annida
ipocresia, lusinghe e chi affattura,
falsità, ladroneccio e simonia,
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ruffian, baratti e simile lordura.
Per l’altro modo quell’ amor s’oblia →
che fa natura, e quel ch’è poi aggiunto,
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di che la fede spezïal si cria;
onde nel cerchio minore, ov’ è ’l punto
de l’universo in su che Dite siede,
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qualunque trade in etterno è consunto.”
E io: “Maestro, assai chiara procede →
la tua ragione, e assai ben distingue
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questo baràtro e ’l popol ch’e’ possiede.
Ma dimmi: quei de la palude pingue,
che mena il vento, e che batte la pioggia,
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e che s’incontran con sì aspre lingue,
perché non dentro da la città roggia
sono ei puniti, se Dio li ha in ira?
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e se non li ha, perché sono a tal foggia?”
Ed elli a me “Perché tanto delira,” →
disse, “lo ’ngegno tuo da quel che sòle?
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o ver la mente dove altrove mira?
Non ti rimembra di quelle parole
con le quai la tua Etica pertratta
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le tre disposizion che ’l ciel non vole,
incontenenza, malizia e la matta
bestialitade? e come incontenenza
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men Dio offende e men biasimo accatta?
Se tu riguardi ben questa sentenza,
e rechiti a la mente chi son quelli
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che sù di fuor sostegnon penitenza,
tu vedrai ben perché da questi felli
sien dipartiti, e perché men crucciata
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la divina vendetta li martelli.”
“O sol che sani ogne vista turbata, →
tu mi contenti sì quando tu solvi,
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che, non men che saver, dubbiar m’aggrata.
Ancora in dietro un poco ti rivolvi,”
diss’ io, “là dove di’ ch’usura offende
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la divina bontade, e ’l groppo solvi.”
“Filosofia,” mi disse, “a chi la ’ntende, →
nota, non pure in una sola parte,
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come natura lo suo corso prende
dal divino ’ntelletto e da sua arte;
e se tu ben la tua Fisica note,
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tu troverai, non dopo molte carte,
che l’arte vostra quella, quanto pote,
segue, come ’l maestro fa ’l discente;
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sì che vostr’ arte a Dio quasi è nepote.
Da queste due, se tu ti rechi a mente
lo Genesì dal principio, convene
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prender sua vita e avanzar la gente;
e perché l’usuriere altra via tene,
per sé natura e per la sua seguace
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dispregia, poi ch’in altro pon la spene.
Ma seguimi oramai che ’l gir mi piace; →
ché i Pesci guizzan su per l’orizzonta,
e ’l Carro tutto sovra ’l Coro giace,
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e ’l balzo via là oltra si dismonta.”
INFERNO XII
Era lo loco ov’ a scender la riva
venimmo, alpestro e, per quel che v’er’ anco,
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tal, ch’ogne vista ne sarebbe schiva.
Qual è quella ruina che nel fianco →
di qua da Trento l’Adice percosse,
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o per tremoto o per sostegno manco,
che da cima del monte, onde si mosse,
al piano è sì la roccia discoscesa,
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ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:
cotal di quel burrato era la scesa;
e ’n su la punta de la rotta lacca
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l’infamïa di Creti era distesa →
che fu concetta ne la falsa vacca;
e quando vide noi, sé stesso morse,
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sì come quei cui l’ira dentro fiacca.
Lo savio mio inver’ lui gridò: “Forse →
tu credi che qui sia ’l duca d’Atene,
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che sù nel mondo la morte ti porse?
Pàrtiti, bestia, ché questi non vene
ammaestrato da la tua sorella,
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ma vassi per veder le vostre pene.”
Qual è quel toro che si slaccia in quella →
c’ha ricevuto già ’l colpo mortale,
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che gir non sa, ma qua e là saltella,
vid’ io lo Minotauro far cotale;
e quello accorto gridò: “Corri al varco;
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mentre ch’e’ ’nfuria, è buon che tu ti cale.”
Così prendemmo via giù per lo scarco →
di quelle pietre, che spesso moviensi
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sotto i miei piedi per lo novo carco.
Io gia pensando; e quei disse: “Tu pensi
forse a questa ruina, ch’è guardata →
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da quell’ ira bestial ch’i’ ora spensi. →
Or vo’ che sappi che l’altra fïata →
ch’i’ discesi qua giù nel basso inferno,
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questa roccia non era ancor cascata.
Ma certo poco pria, se ben discerno,
che venisse colui che la gran preda
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levò a Dite del cerchio superno, →
da tutte parti l’alta valle feda →
tremò sì, ch’i’ pensai che l’universo
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sentisse amor, per lo qual è chi creda
più volte il mondo in caòsso converso;
e in quel punto questa vecchia roccia,
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qui e altrove, tal fece riverso.
Ma ficca li occhi a valle, ché s’approccia
la riviera del sangue in la qual bolle
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qual che per vïolenza in altrui noccia.” →
Oh cieca cupidigia e ira folle, →
che sì ci sproni ne la vita corta,
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e ne l’etterna poi sì mal c’immolle!
Io vidi un’ampia fossa in arco torta,
come quella che tutto ’l piano abbraccia,
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secondo ch’avea detto la mia scorta;
e tra ’l piè de la ripa ed essa, in traccia
corrien centauri, armati di saette, →
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come solien nel mondo andare a caccia.
Veggendoci calar, ciascun ristette, →
e de la schiera tre si dipartiro
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con archi e asticciuole prima elette;
e l’un gridò da lungi: “A qual martiro
venite voi che scendete la costa?
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Ditel costinci; se non, l’arco tiro.”
Lo mio maestro disse: “La risposta →
farem noi a Chirón costà di presso:
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mal fu la voglia tua sempre sì tosta.”
Poi mi tentò, e disse: “Quelli è Nesso, →
che morì per la bella Deianira,
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e fé di sé la vendetta elli stesso.
E quel di mezzo, ch’al petto si mira, →
è il gran Chirón, il qual nodrì Achille;
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quell’ altro è Folo, che fu sì pien d’ira. →
Dintorno al fosso vanno a mille a mille,
saettando qual anima si svelle
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del sangue più che sua colpa sortille.” →
Noi ci appressammo a quelle fiere isnelle: →
Chirón prese uno strale, e con la cocca
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fece la barba in dietro a le mascelle.
Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
disse a’ compagni: “Siete voi accorti
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che quel di retro move ciò ch’el tocca?
Così non soglion far li piè d’i morti.”
E ’l mio buon duca, che già li er’ al petto,
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dove le due nature son consorti,
rispuose: “Ben è vivo, e sì soletto
mostrar li mi convien la valle buia;
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necessità ’l ci ’nduce, e non diletto.
Tal si partì da cantare alleluia →
che mi commise quest’ officio novo:
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non è ladron, né io anima fuia.
Ma per quella virtù per cu’ io movo
li passi miei per sì selvaggia strada,
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danne un de’ tuoi, a cui noi siamo a provo, →
e che ne mostri là dove si guada,
e che porti costui in su la groppa,
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ché non è spirto che per l’aere vada.”
Chirón si volse in su la destra poppa, →
e disse a Nesso: “Torna, e sì li guida,
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e fa cansar s’altra schiera v’intoppa.”
Or ci movemmo con la scorta fida
lungo la proda del bollor vermiglio,
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dove i bolliti facieno alte strida.
Io vidi gente sotto infino al ciglio;
e ’l gran centauro disse: “E’ son tiranni →
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che dier nel sangue e ne l’aver di piglio.
Quivi si piangon li spietati danni; →
quivi è Alessandro, e Dïonisio fero
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che fé Cicilia aver dolorosi anni.
E quella fronte c’ha ’l pel così nero,
è Azzolino; e quell’ altro ch’è biondo,
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è Opizzo da Esti, il qual per vero
fu spento dal figliastro sù nel mondo.”
Allor mi volsi al poeta, e quei disse:
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“Questi ti sia or primo, e io secondo.” →
Poco più oltre il centauro s’affisse
sovr’ una gente che ’nfino a la gola →
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parea che di quel bulicame uscisse.
Mostrocci un’ombra da l’un canto sola,
dicendo: “Colui fesse in grembo a Dio
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lo cor che ’n su Tamisi ancor si cola.”
Poi vidi gente che di fuor del rio →
tenean la testa e ancor tutto ’l casso;
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e di costoro assai riconobb’ io.
Così a più a più si facea basso →
quel sangue, sì che cocea pur li piedi;
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e quindi fu del fosso il nostro passo. →
“Sì come tu da questa parte vedi →
lo bulicame che sempre si scema,”
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disse ’l centauro, “voglio che tu credi
che da quest’ altra a più a più giù prema
lo fondo suo, infin ch’el si raggiunge
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ove la tirannia convien che gema.
La divina giustizia di qua punge →
quell’ Attila che fu flagello in terra,
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e Pirro e Sesto; e in etterno munge
le lagrime, che col bollor diserra, →
a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra.”
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Poi si rivolse e ripassossi ’l guazzo. →
INFERNO XIII
Non era ancor di là Nesso arrivato, →
quando noi ci mettemmo per un bosco
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che da neun sentiero era segnato.
Non fronda verde, ma di color fosco; →
non rami schietti, ma nodosi e ’nvolti;
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non pomi v’eran, ma stecchi con tòsco.
Non han sì aspri sterpi né sì folti
quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
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tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
Quivi le brutte Arpie lor nidi fanno, →
che cacciar de le Strofade i Troiani
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con tristo annunzio di futuro danno.
Ali hanno late, e colli e visi umani,
piè con artigli, e pennuto ’l gran ventre;
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fanno lamenti in su li alberi strani.
E ’l buon maestro “Prima che più entre,
sappi che se’ nel secondo girone,”
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mi cominciò a dire, “e sarai mentre
che tu verrai ne l’orribil sabbione.
Però riguarda ben; sì vederai →
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cose che torrien fede al mio sermone.”
Io sentia d’ogne parte trarre guai
e non vedea persona che ’l facesse;
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per ch’io tutto smarrito m’arrestai. →
Cred’ ïo ch’ei credette ch’io credesse →
che tante voci uscisser, tra quei bronchi,
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da gente che per noi si nascondesse.
Però disse ’l maestro: “Se tu tronchi
qualche fraschetta d’una d’este piante,
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li pensier c’hai si faran tutti monchi.”
Allor porsi la mano un poco avante →
e colsi un ramicel da un gran pruno;
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e ’l tronco suo gridò: “Perc
hé mi schiante?”
Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
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non hai tu spirto di pietade alcuno?
Uomini fummo, e or siam fatti sterpi:
ben dovrebb’ esser la tua man più pia,
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se state fossimo anime di serpi.”
Come d’un stizzo verde ch’arso sia →
da l’un de’ capi, che da l’altro geme
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e cigola per vento che va via,
sì de la scheggia rotta usciva insieme
parole e sangue; ond’ io lasciai la cima
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cadere, e stetti come l’uom che teme.
“S’elli avesse potuto creder prima,” →
rispuose ’l savio mio, “anima lesa,
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ciò c’ha veduto pur con la mia rima,
non averebbe in te la man distesa;
ma la cosa incredibile mi fece
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indurlo ad ovra ch’a me stesso pesa.
Ma dilli chi tu fosti, si che ’n vece →
d’alcun’ ammenda tua fama rinfreschi
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nel mondo sù, dove tornar li lece.”
E ’l tronco: “Si col dolce dir m’adeschi, →
ch’i’ non posso tacere; e voi non gravi
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perch’ ïo un poco a ragionar m’inveschi.
Io son colui che tenni ambo le chiavi →
del cor di Federigo, e che le volsi,
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serrando e diserrando, sì soavi,
che dal secreto suo quasi ogn’ uom tolsi;
fede portai al glorïoso offizio,
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tanto ch’i’ ne perde’ li sonni e ’ polsi.