by Dante
La meretrice che mai da l’ospizio →
di Cesare non torse li occhi putti,
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morte comune e de le corti vizio,
infiammò contra me li animi tutti;
e li ’nfiammati infiammar sì Augusto, →
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che ’ lieti onor tornaro in tristi lutti.
L’animo mio, per disdegnoso gusto, →
credendo col morir fuggir disdegno,
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ingiusto fece me contra me giusto.
Per le nove radici d’esto legno →
vi giuro che già mai non ruppi fede
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al mio segnor, che fu d’onor sì degno.
E se di voi alcun nel mondo riede,
conforti la memoria mia, che giace
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ancor del colpo che ’nvidia le diede.”
Un poco attese, e poi “Da ch’el si tace,”
disse ’l poeta a me, “non perder l’ora;
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ma parla, e chiedi a lui, se più ti piace.”
Ond’ ïo a lui: “Domandal tu ancora →
di quel che credi ch’a me satisfaccia;
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ch’i’ non potrei, tanta pietà m’accora.”
Perciò ricominciò: “Se l’om ti faccia
liberamente ciò che ’l tuo dir priega,
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spirito incarcerato, ancor ti piaccia
di dirne come l’anima si lega
in questi nocchi; e dinne, se tu puoi,
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s’alcuna mai di tai membra si spiega.”
Allor soffiò il tronco forte, e poi
si convertì quel vento in cotal voce:
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“Brievemente sarà risposto a voi.
Quando si parte l’anima feroce
dal corpo ond’ ella stessa s’è disvelta,
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Minòs la manda a la settima foce.
Cade in la selva, e non l’è parte scelta;
ma là dove fortuna la balestra,
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quivi germoglia come gran di spelta.
Surge in vermena e in pianta silvestra:
l’Arpie, pascendo poi de le sue foglie,
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fanno dolore, e al dolor fenestra.
Come l’altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch’alcuna sen rivesta,
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ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie.
Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
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ciascuno al prun de l’ombra sua molesta.”
Noi eravamo ancora al tronco attesi, →
credendo ch’altro ne volesse dire,
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quando noi fummo d’un romor sorpresi,
similemente a colui che venire
sente ’l porco e la caccia a la sua posta,
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ch’ode le bestie, e le frasche stormire.
Ed ecco due da la sinistra costa,
nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
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che de la selva rompieno ogne rosta.
Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”
E l’altro, cui pareva tardar troppo,
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gridava: “Lano, sì non furo accorte
le gambe tue a le giostre dal Toppo!”
E poi che forse li fallia la lena,
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di sé e d’un cespuglio fece un groppo.
Di rietro a loro era la selva piena
di nere cagne, bramose e correnti
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come veltri ch’uscisser di catena.
In quel che s’appiattò miser li denti,
e quel dilaceraro a brano a brano;
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poi sen portar quelle membra dolenti.
Presemi allor la mia scorta per mano, →
e menommi al cespuglio che piangea
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per le rotture sanguinenti in vano.
“O Iacopo,” dicea, “da Santo Andrea,
che t’è giovato di me fare schermo?
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che colpa ho io de la tua vita rea?”
Quando ’l maestro fu sovr’ esso fermo,
disse: “Chi fosti, che per tante punte
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soffi con sangue doloroso sermo?”
Ed elli a noi: “O anime che giunte →
siete a veder lo strazio disonesto
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c’ha le mie fronde sì da me disgiunte,
raccoglietele al piè del tristo cesto.
I’ fui de la città che nel Batista
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mutò ’l primo padrone; ond’ ei per questo
sempre con l’arte sua la farà trista;
e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
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rimane ancor di lui alcuna vista,
que’ cittadin che poi la rifondarno
sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
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Io fei gibetto a me de le mie case.”
INFERNO XIV
Poi che la carità del natio loco →
mi strinse, raunai le fronde sparte
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e rende’le a colui, ch’era già fioco.
Indi venimmo al fine ove si parte →
lo secondo giron dal terzo, e dove
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si vede di giustizia orribil arte.
A ben manifestar le cose nove, →
dico che arrivammo ad una landa
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che dal suo letto ogne pianta rimove.
La dolorosa selva l’è ghirlanda
intorno, come ’l fosso tristo ad essa;
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quivi fermammo i passi a randa a randa.
Lo spazzo era una rena arida e spessa,
non d’altra foggia fatta che colei →
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che fu da’ piè di Caton già soppressa.
O vendetta di Dio, quanto tu dei
esser temuta da ciascun che legge
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ciò che fu manifesto a li occhi mei!
D’anime nude vidi molte gregge →
che piangean tutte assai miseramente,
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e parea posta lor diversa legge.
Supin giacea in terra alcuna gente,
alcuna si sedea tutta raccolta,
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e altra andava continüamente.
Quella che giva ’ntorno era più molta,
e quella men che giacëa al tormento,
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ma più al duolo avea la lingua sciolta.
Sovra tutto ’l sabbion, d’un cader lento, →
piovean di foco dilatate falde,
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come di neve in alpe sanza vento. →
Quali Alessandro in quelle parti calde →
d’Indïa vide sopra ’l süo stuolo
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fiamme cadere infino a terra salde,
per ch’ei provide a scalpitar lo suolo
con le sue schiere, acciò che lo vapore
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mei si stingueva mentre ch’era solo:
tale scendeva l’etternale ardore;
onde la rena s’accendea, com’ esca
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sotto focile, a doppiar lo dolore.
Sanza riposo mai era la tresca →
de le misere mani, or quindi or quinci
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escotendo da sé l’arsura fresca.
I’ cominciai: “Maestro, tu che vinci →
tutte le cose, fuor che ’ demon duri
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ch’a l’intrar de la porta incontra uscinci,
chi è quel grande che non par che curi →
lo ’ncendio e giace dispettoso e torto,
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sì che la pioggia non par che ’l marturi?”
E quel medesmo, che si fu accorto →
/>
ch’io domandava il mio duca di lui,
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gridò: “Qual io fui vivo, tal son morto. →
Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui
crucciato prese la folgore aguta
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onde l’ultimo dì percosso fui;
o s’elli stanchi li altri a muta a muta
in Mongibello a la focina negra,
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chiamando ‘Buon Vulcano, aiuta, aiuta!’
sì com’ el fece a la pugna di Flegra,
e me saetti con tutta sua forza:
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non ne potrebbe aver vendetta allegra.”
Allora il duca mio parlò di forza →
tanto, ch’i’ non l’avea sì forte udito:
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“O Capaneo, in ciò che non s’ammorza
la tua superbia, se’ tu più punito;
nullo martiro, fuor che la tua rabbia,
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sarebbe al tuo furor dolor compito.”
Poi si rivolse a me con miglior labbia,
dicendo: “Quei fu l’un d’i sette regi
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ch’assiser Tebe; ed ebbe e par ch’elli abbia →
Dio in disdegno, e poco par che ’l pregi;
ma, com’ io dissi lui, li suoi dispetti
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sono al suo petto assai debiti fregi.
Or mi vien dietro, e guarda che non metti,
ancor, li piedi ne la rena arsiccia;
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ma sempre al bosco tien li piedi stretti.”
Tacendo divenimmo là ’ve spiccia →
fuor de la selva un picciol fiumicello,
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lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
Quale del Bulicame esce ruscello
che parton poi tra lor le peccatrici,
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tal per la rena giù sen giva quello.
Lo fondo suo e ambo le pendici
fatt’ era ’n pietra, e ’ margini da lato;
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per ch’io m’accorsi che ’l passo era lici.
“Tra tutto l’altro ch’i’ t’ho dimostrato,
poscia che noi intrammo per la porta
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lo cui sogliare a nessuno è negato,
cosa non fu da li tuoi occhi scorta
notabile com’ è ’l presente rio,
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che sovra sé tutte fiammelle ammorta.”
Queste parole fuor del duca mio;
per ch’io ’l pregai che mi largisse ’l pasto
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di cui largito m’avëa il disio.
“In mezzo mar siede un paese guasto,” → →
diss’ elli allora, “che s’appella Creta,
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sotto ’l cui rege fu già ’l mondo casto.
Una montagna v’è che già fu lieta
d’acqua e di fronde, che si chiamò Ida;
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or è diserta come cosa vieta.
Rëa la scelse già per cuna fida
del suo figliuolo, e per celarlo meglio,
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quando piangea, vi facea far le grida.
Dentro dal monte sta dritto un gran veglio, →
che tien volte le spalle inver’ Dammiata
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e Roma guarda come süo speglio.
La sua testa è di fin oro formata,
e puro argento son le braccia e ’l petto,
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poi è di rame infino a la forcata;
da indi in giuso è tutto ferro eletto,
salvo che ’l destro piede è terra cotta;
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e sta ’n su quel, più che ’n su l’altro, eretto.
Ciascuna parte, fuor che l’oro, è rotta →
d’una fessura che lagrime goccia,
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le quali, accolte, fóran quella grotta.
Lor corso in questa valle si diroccia; →
fanno Acheronte, Stige e Flegetonta;
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poi sen van giù per questa stretta doccia,
infin, là ove più non si dismonta,
fanno Cocito; e qual sia quello stagno
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tu lo vedrai, però qui non si conta.”
E io a lui: “Se ’l presente rigagno
si diriva così dal nostro mondo,
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perché ci appar pur a questo vivagno?”
Ed elli a me: “Tu sai che ’l loco è tondo;
e tutto che tu sie venuto molto,
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pur a sinistra, giù calando al fondo,
non se’ ancor per tutto ’l cerchio vòlto;
per che, se cosa n’apparisce nova,
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non de’ addur maraviglia al tuo volto.”
E io ancor: “Maestro, ove si trova →
Flegetonta e Letè? ché de l’un taci,
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e l’altro di’ che si fa d’esta piova.”
“In tutte tue question certo mi piaci,”
rispuose, “ma ’l bollor de l’acqua rossa
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dovea ben solver l’una che tu faci.
Letè vedrai, ma fuor di questa fossa,
là dove vanno l’anime a lavarsi
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quando la colpa pentuta è rimossa.”
Poi disse: “Omai è tempo da scostarsi →
dal bosco; fa che di retro a me vegne:
li margini fan via, che non son arsi,
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e sopra loro ogne vapor si spegne.”
INFERNO XV
Ora cen porta l’un de’ duri margini; →
e ’l fummo del ruscel di sopra aduggia,
3
sì che dal foco salva l’acqua e li argini.
Quali Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia, →
temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa;
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fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;
e quali Padoan lungo la Brenta,
per difender lor ville e lor castelli,
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anzi che Carentana il caldo senta:
a tale imagine eran fatti quelli,
tutto che né sì alti né sì grossi,
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qual che si fosse, lo maestro félli.
Già eravam da la selva rimossi →
tanto, ch’i’ non avrei visto dov’ era,
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perch’ io in dietro rivolto mi fossi,
quando incontrammo d’anime una schiera
che venian lungo l’argine, e ciascuna
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ci riguardava come suol da sera
guardare uno altro sotto nuova luna;
e sì ver’ noi aguzzavan le ciglia
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come ’l vecchio sartor fa ne la cruna.
Così adocchiato da cotal famiglia,
fui conosciuto da un, che mi prese →
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per lo lembo e gridò: “Qual maraviglia!”
E io, quando ’l suo braccio a me distese,
ficcaï li occhi per lo cotto aspetto,
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sì che ’l viso abbrusciato non difese
la conoscenza süa al mio ’ntelletto; →
e chinando la mano a la sua faccia,
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rispuosi: “Siete voi qui, ser Brunetto?”
E quelli: “O figliuol mio, non ti dispiaccia
se Brunetto Latino un poco teco
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ritorna ’n dietro e lascia andar la traccia.”
I’ dissi lui: “Quanto posso, ven preco;
e se volete che con voi m’asseggia,
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faròl, se piace a costui che vo seco.”
“O figliuol,” disse, “qual di questa greggia
s’arresta punto, giace poi cent’ anni
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sanz’ arrostarsi quando ’l foco il feggia.
Però va oltre: i’ ti verrò a’ panni;
e poi rigiugner
ò la mia masnada,
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che va piangendo i suoi etterni danni.”
Io non osava scender de la strada
per andar par di lui; ma ’l capo chino
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tenea com’ uom che reverente vada.
El cominciò: “Qual fortuna o destino
anzi l’ultimo dì qua giù ti mena?
48
e chi è questi che mostra ’l cammino?” →
“Là sù di sopra, in la vita serena,”
rispuos’ io lui, “mi smarri’ in una valle, →
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avanti che l’età mia fosse piena.
Pur ier mattina le volsi le spalle:
questi m’apparve, tornand’ïo in quella,
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e reducemi a ca per questo calle.” →
Ed elli a me: “Se tu segui tua stella, →
non puoi fallire a glorïoso porto,
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se ben m’accorsi ne la vita bella;
e s’io non fossi sì per tempo morto, →
veggendo il cielo a te così benigno,
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dato t’avrei a l’opera conforto.
Ma quello ingrato popolo maligno →
che discese di Fiesole ab antico,
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e tiene ancor del monte e del macigno,
ti si farà, per tuo ben far, nimico;
ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
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si disconvien fruttare al dolce fico.
Vecchia fama nel mondo li chiama orbi;
gent’ è avara, invidiosa e superba:
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dai lor costumi fa che tu ti forbi.
La tua fortuna tanto onor ti serba,