The Inferno
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che l’una parte e l’altra avranno fame
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di te; ma lungi fia dal becco l’erba.
Faccian le bestie fiesolane strame
di lor medesme, e non tocchin la pianta,
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s’alcuna surge ancora in lor letame,
in cui riviva la sementa santa
di que’ Roman che vi rimaser quando
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fu fatto il nido di malizia tanta.”
“Se fosse tutto pieno il mio dimando,”
rispuos’ io lui, “voi non sareste ancora
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de l’umana natura posto in bando;
ché ’n la mente m’è fitta, e or m’accora,
la cara e buona imagine paterna →
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di voi quando nel mondo ad ora ad ora
m’insegnavate come l’uom s’etterna:
e quant’ io l’abbia in grado, mentr’ io vivo
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convien che ne la mia lingua si scerna.
Ciò che narrate di mio corso scrivo, →
e serbolo a chiosar con altro testo
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a donna che saprà, s’a lei arrivo.
Tanto vogl’ io che vi sia manifesto, →
pur che mia coscïenza non mi garra,
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ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.
Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota →
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come le piace, e ’l villan la sua marra.”
Lo mio maestro allora in su la gota
destra si volse in dietro e riguardommi;
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poi disse: “Bene ascolta chi la nota.” →
Né per tanto di men parlando vommi
con ser Brunetto, e dimando chi sono
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li suoi compagni più noti e più sommi.
Ed elli a me: “Saper d’alcuno è buono;
de li altri fia laudabile tacerci,
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ché ’l tempo saria corto a tanto suono.
In somma sappi che tutti fur cherci →
e litterati grandi e di gran fama,
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d’un peccato medesmo al mondo lerci.
Priscian sen va con quella turba grama,
e Francesco d’Accorso anche; e vedervi,
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s’avessi avuto di tal tigna brama,
colui potei che dal servo de’ servi
fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
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dove lasciò li mal protesi nervi.
Di più direi; ma ’l venire e ’l sermone
più lungo esser non può, però ch’i’ veggio
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là surger nuovo fummo del sabbione.
Gente vien con la quale esser non deggio. →
Sieti raccomandato il mio Tesoro, →
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nel qual io vivo ancora, e più non cheggio.”
Poi si rivolse e parve di coloro →
che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro
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quelli che vince, non colui che perde.
INFERNO XVI
Già era in loco onde s’udia ’l rimbombo →
de l’acqua che cadea ne l’altro giro,
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simile a quel che l’arnie fanno rombo,
quando tre ombre insieme si partiro,
correndo, d’una torma che passava
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sotto la pioggia de l’aspro martiro.
Venian ver’ noi, e ciascuna gridava:
“Sòstati tu ch’a l’abito ne sembri
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essere alcun di nostra terra prava.”
Ahimè, che piaghe vidi ne’ lor membri,
ricenti e vecchie, da le fiamme incese!
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Ancor men duol pur ch’i’ me ne rimembri.
A le lor grida il mio dottor s’attese;
volse ’l viso ver’ me, e “Or aspetta,”
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disse, “a costor si vuole esser cortese. →
E se non fosse il foco che saetta
la natura del loco, i’ dicerei
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che meglio stesse a te che a lor la fretta.”
Ricominciar, come noi restammo, ei →
l’antico verso; e quando a noi fuor giunti,
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fenno una rota di sé tutti e trei.
Qual sogliono i campion far nudi e unti,
avvisando lor presa e lor vantaggio,
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prima che sien tra lor battuti e punti,
così rotando, ciascuno il visaggio
drizzava a me, sì che ’n contraro il collo
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faceva ai piè continüo vïaggio.
E “Se miseria d’esto loco sollo →
rende in dispetto noi e nostri prieghi,”
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cominciò l’uno, “e ’l tinto aspetto e brollo,
la fama nostra il tuo animo pieghi
a dirne chi tu se’, che i vivi piedi
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così sicuro per lo ’nferno freghi.
Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,
tutto che nudo e dipelato vada,
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fu di grado maggior che tu non credi:
nepote fu de la buona Gualdrada;
Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
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fece col senno assai e con la spada.
L’altro, ch’appresso me la rena trita,
è Tegghiaio Aldobrandi, la cui voce
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nel mondo sù dovria esser gradita.
E io, che posto son con loro in croce,
Iacopo Rusticucci fui, e certo
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la fiera moglie più ch’altro mi nuoce.”
S’i’ fossi stato dal foco coperto, →
gittato mi sarei tra lor di sotto,
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e credo che ’l dottor l’avria sofferto;
ma perch’ io mi sarei brusciato e cotto,
vinse paura la mia buona voglia
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che di loro abbracciar mi facea ghiotto.
Poi cominciai: “Non dispetto, ma doglia
la vostra condizion dentro mi fisse,
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tanta che tardi tutta si dispoglia,
tosto che questo mio segnor mi disse
parole per le quali i’ mi pensai
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che qual voi siete, tal gente venisse.
Di vostra terra sono, e sempre mai →
l’ovra di voi e li onorati nomi
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con affezion ritrassi e ascoltai.
Lascio lo fele e vo per dolci pomi
promessi a me per lo verace duca;
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ma ’nfino al centro pria convien ch’i’ tomi.”
“Se lungamente l’anima conduca →
le membra tue,” rispuose quelli ancora,
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“e se la fama tua dopo te luca,
cortesia e valor dì se dimora
ne la nostra città sì come suole,
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o se del tutto se n’è gita fora;
ché Guiglielmo Borsiere, il qual si duole
con noi per poco e va là coi compagni,
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assai ne cruccia con le sue parole.”
“La gente nuova e i sùbiti guadagni →
orgoglio e dismisura han generata,
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Fiorenza, in te, sì che tu già ten piagni.”
Così gridai con la faccia levata; →
e i tre, che ciò inteser per risposta,
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guardar l’un l’altro com’ al ver si guata.
“Se l’altre volte sì poco ti costa,”
rispuoser tutti, “il satisfare altrui,
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felice te se sì parli a tua posta!
Però, se campi d’es
ti luoghi bui →
e torni a riveder le belle stelle,
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quando ti gioverà dicere ‘I’ fui,’
fa che di noi a la gente favelle.”
Indi rupper la rota, e a fuggirsi
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ali sembiar le gambe loro isnelle.
Un amen non saria possuto dirsi →
tosto così com’ e’ fuoro spariti;
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per ch’al maestro parve di partirsi.
Io lo seguiva, e poco eravam iti, →
che ’l suon de l’acqua n’era sì vicino,
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che per parlar saremmo a pena uditi.
Come quel fiume c’ha proprio cammino →
prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
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da la sinistra costa d’Apennino,
che si chiama Acquacheta suso, avante
che si divalli giù nel basso letto,
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e a Forlì di quel nome è vacante,
rimbomba là sovra San Benedetto
de l’Alpe per cadere ad una scesa
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ove dovea per mille esser recetto;
così, giù d’una ripa discoscesa,
trovammo risonar quell’ acqua tinta,
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sì che ’n poc’ ora avria l’orecchia offesa.
Io avea una corda intorno cinta, →
e con essa pensai alcuna volta
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prender la lonza a la pelle dipinta.
Poscia ch’io l’ebbi tutta da me sciolta, →
sì come ’l duca m’avea comandato,
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porsila a lui aggroppata e ravvolta.
Ond’ ei si volse inver’ lo destro lato,
e alquanto di lunge da la sponda
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la gittò giuso in quell’ alto burrato.
“E’ pur convien che novità risponda,” →
dicea fra me medesmo, “al novo cenno
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che ’l maestro con l’occhio sì seconda.”
Ahi quanto cauti li uomini esser dienno
presso a color che non veggion pur l’ovra,
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ma per entro i pensier miran col senno!
El disse a me: “Tosto verrà di sovra
ciò ch’io attendo e che il tuo pensier sogna;
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tosto convien ch’al tuo viso si scovra.”
Sempre a quel ver c’ha faccia di menzogna →
de’ l’uom chiuder le labbra fin ch’el puote,
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però che sanza colpa fa vergogna;
ma qui tacer nol posso; e per le note
di questa comedìa, lettor, ti giuro,
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s’elle non sien di lunga grazia vòte,
ch’i’ vidi per quell’ aere grosso e scuro
venir notando una figura in suso,
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maravigliosa ad ogne cor sicuro,
sì come torna colui che va giuso →
talora a solver l’àncora ch’aggrappa
o scoglio o altro che nel mare è chiuso,
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che ’n sù si stende e da piè si rattrappa.
INFERNO XVII
“Ecco la fiera con la coda aguzza, →
che passa i monti e rompe i muri e l’armi!
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Ecco colei che tutto ’l mondo appuzza!”
Sì cominciò lo mio duca a parlarmi;
e accennolle che venisse a proda,
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vicino al fin d’i passeggiati marmi.
E quella sozza imagine di froda
sen venne, e arrivò la testa e ’l busto,
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ma ’n su la riva non trasse la coda.
La faccia sua era faccia d’uom giusto, →
tanto benigna avea di fuor la pelle,
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e d’un serpente tutto l’altro fusto;
due branche avea pilose insin l’ascelle;
lo dosso e ’l petto e ambedue le coste →
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dipinti avea di nodi e di rotelle.
Con più color, sommesse e sovraposte
non fer mai drappi Tartari né Turchi,
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né fuor tai tele per Aragne imposte.
Come talvolta stanno a riva i burchi, →
che parte sono in acqua e parte in terra,
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e come là tra li Tedeschi lurchi
lo bivero s’assetta a far sua guerra,
così la fiera pessima si stava
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su l’orlo ch’è di pietra e ’l sabbion serra.
Nel vano tutta sua coda guizzava,
torcendo in sù la venenosa forca
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ch’a guisa di scorpion la punta armava.
Lo duca disse: “Or convien che si torca →
la nostra via un poco insino a quella
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bestia malvagia che colà si corca.”
Però scendemmo a la destra mammella,
e diece passi femmo in su lo stremo,
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per ben cessar la rena e la fiammella.
E quando noi a lei venuti semo,
poco più oltre veggio in su la rena
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gente seder propinqua al loco scemo.
Quivi ’l maestro “Acciò che tutta piena →
esperïenza d’esto giron porti,”
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mi disse, “va, e vedi la lor mena.
Li tuoi ragionamenti sian là corti;
mentre che torni, parlerò con questa,
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che ne conceda i suoi omeri forti.”
Così ancor su per la strema testa
di quel settimo cerchio tutto solo
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andai, dove sedea la gente mesta. →
Per li occhi fora scoppiava lor duolo;
di qua, di là soccorrien con le mani
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quando a’ vapori, e quando al caldo suolo:
non altrimenti fan di state i cani
or col ceffo or col piè, quando son morsi
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o da pulci o da mosche o da tafani.
Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
ne’ quali ’l doloroso foco casca,
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non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi
che dal collo a ciascun pendea una tasca →
ch’avea certo colore e certo segno,
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e quindi par che ’l loro occhio si pasca.
E com’ io riguardando tra lor vegno,
in una borsa gialla vidi azzurro →
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che d’un leone avea faccia e contegno.
Poi, procedendo di mio sguardo il curro,
vidine un’altra come sangue rossa, →
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mostrando un’oca bianca più che burro.
E un che d’una scrofa azzurra e grossa →
segnato avea lo suo sacchetto bianco,
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mi disse: “Che fai tu in questa fossa?
Or te ne va; e perché se’ vivo anco, →
sappi che ’l mio vicin Vitalïano
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sederà qui dal mio sinistro fianco.
Con questi Fiorentin son padoano:
spesse fïate mi ’ntronan li orecchi
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gridando: ‘Vegna ’l cavalier sovrano, →
che recherà la tasca con tre becchi!’ ”
Qui distorse la bocca e di fuor trasse →
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la lingua, come bue che ’l naso lecchi.
E io, temendo no’l più star crucciasse
lui che di poco star m’avea ’mmonito,
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torna’mi in dietro da l’anime lasse.
Trova’ il duca mio ch’era salito
già su la groppa del fiero animale,
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e disse a me: “Or sie forte e ardito.
Omai si scende per sì fatte scale; →
monta dinanzi, ch’i’ voglio esser mezzo,
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sì che la coda non possa far male.”
Qual è colui che sì presso ha ’l riprezzo
de la quartana, c’ha già l’unghie smorte,
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e triema tutto pur guardando ’l rezzo,
tal divenn’ io a le parole porte;
ma vergogna mi fé le sue minacce,
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che innanzi a buon segnor fa servo forte.
I’ m’assettai in su quelle spallacce;
sì volli dir, ma la voce non venne
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com’ io credetti: “Fa che tu m’abbracce.”
Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
ad altro forse, tosto ch’i’ montai
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con le braccia m’avvinse e mi sostenne;
e disse: “Gerïon, moviti omai: →
le rote larghe, e lo scender sia poco;
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pensa la nova soma che tu hai.”
Come la navicella esce di loco
in dietro in dietro, sì quindi si tolse;
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e poi ch’al tutto si sentì a gioco,
là ’v’ era ’l petto, la coda rivolse,
e quella tesa, come anguilla, mosse,
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e con le branche l’aere a sé raccolse.
Maggior paura non credo che fosse →
quando Fetonte abbandonò li freni,
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per che ’l ciel, come pare ancor, si cosse;
né quando Icaro misero le reni →
sentì spennar per la scaldata cera,
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gridando il padre a lui “Mala via tieni!”