The Inferno
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e poi ch’e’ si chiamaro, attesi come.
“O Rubicante, fa che tu li metti
li unghioni a dosso, sì che tu lo scuoi!”
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gridavan tutti insieme i maladetti.
E io: “Maestro mio, fa, se tu puoi,
che tu sappi chi è lo sciagurato
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venuto a man de li avversari suoi.”
Lo duca mio li s’accostò allato;
domandollo ond’ ei fosse, e quei rispuose:
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“I’ fui del regno di Navarra nato. →
Mia madre a servo d’un segnor mi puose,
che m’avea generato d’un ribaldo,
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distruggitor di sé e di sue cose.
Poi fui famiglia del buon re Tebaldo;
quivi mi misi a far baratteria,
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di ch’io rendo ragione in questo caldo.”
E Cirïatto, a cui di bocca uscia
d’ogne parte una sanna come a porco,
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li fé sentir come l’una sdruscia.
Tra male gatte era venuto ’l sorco;
ma Barbariccia il chiuse con le braccia →
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e disse: “State in là, mentr’ io lo ’nforco.”
E al maestro mio volse la faccia;
“Domanda,” disse, “ancor, se più disii
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saper da lui, prima ch’altri ’l disfaccia.”
Lo duca dunque: “Or dì: de li altri rii →
conosci tu alcun che sia latino
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sotto la pece?” E quelli: “I’ mi partii,
poco è, da un che fu di là vicino. →
Così foss’ io ancor con lui coperto,
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ch’i’ non temerei unghia né uncino!”
E Libicocco “Troppo avem sofferto,” →
disse; e preseli ’l braccio col runciglio,
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sì che, stracciando, ne portò un lacerto.
Draghignazzo anco i volle dar di piglio
giuso a le gambe; onde ’l decurio loro
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si volse intorno intorno con mal piglio.
Quand’ elli un poco rappaciati fuoro,
a lui, ch’ancor mirava sua ferita,
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domandò ’l duca mio sanza dimoro:
“Chi fu colui da cui mala partita
di’ che facesti per venire a proda?”
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Ed ei rispuose: “Fu frate Gomita, →
quel di Gallura, vasel d’ogne froda,
ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
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e fé sì lor, che ciascun se ne loda.
Danar si tolse e lasciolli di piano,
sì com’ e’ dice; e ne li altri offici anche
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barattier fu non picciol, ma sovrano.
Usa con esso donno Michel Zanche →
di Logodoro; e a dir di Sardigna
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le lingue lor non si sentono stanche.
Omè, vedete l’altro che digrigna; →
i’ direi anche, ma i’ temo ch’ello
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non s’apparecchi a grattarmi la tigna.”
E ’l gran proposto, vòlto a Farfarello
che stralunava li occhi per fedire,
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disse: “Fatti ’n costà, malvagio uccello!”
“Se voi volete vedere o udire,” →
ricominciò lo spaürato appresso,
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“Toschi o Lombardi, io ne farò venire;
ma stieno i Malebranche un poco in cesso, →
sì ch’ei non teman de le lor vendette;
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e io, seggendo in questo loco stesso,
per un ch’io son, ne farò venir sette
quand’ io suffolerò, com’ è nostro uso
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di fare allor che fori alcun si mette.”
Cagnazzo a cotal motto levò ’l muso,
crollando ’l capo, e disse: “Odi malizia
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ch’elli ha pensata per gittarsi giuso!”
Ond’ ei, ch’avea lacciuoli a gran divizia,
rispuose: “Malizioso son io troppo,
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quand’ io procuro a’ mia maggior trestizia.”
Alichin non si tenne e, di rintoppo
a li altri, disse a lui: “Se tu ti cali,
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io non ti verrò dietro di gualoppo,
ma batterò sovra la pece l’ali.
Lascisi ’l collo, e sia la ripa scudo,
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a veder se tu sol più di noi vali.”
O tu che leggi, udirai nuovo ludo:
ciascun da l’altra costa li occhi volse,
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quel prima, ch’a ciò fare era più crudo.
Lo Navarrese ben suo tempo colse;
fermò le piante a terra, e in un punto
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saltò e dal proposto lor si sciolse.
Di che ciascun di colpa fu compunto, →
ma quei più che cagion fu del difetto;
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però si mosse e gridò: “Tu se’ giunto!”
Ma poco i valse: ché l’ali al sospetto
non potero avanzar; quelli andò sotto,
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e quei drizzò volando suso il petto:
non altrimenti l’anitra di botto,
quando ’l falcon s’appressa, giù s’attuffa,
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ed ei ritorna sù crucciato e rotto.
Irato Calcabrina de la buffa,
volando dietro li tenne, invaghito
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che quei campasse per aver la zuffa;
e come ’l barattier fu disparito,
così volse li artigli al suo compagno,
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e fu con lui sopra ’l fosso ghermito.
Ma l’altro fu bene sparvier grifagno
ad artigliar ben lui, e amendue
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cadder nel mezzo del bogliente stagno.
Lo caldo sghermitor sùbito fue;
ma però di levarsi era neente,
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sì avieno inviscate l’ali sue.
Barbariccia, con li altri suoi dolente, →
quattro ne fé volar da l’altra costa
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con tutt’ i raffi, e assai prestamente
di qua, di là discesero a la posta;
porser li uncini verso li ’mpaniati,
ch’eran già cotti dentro da la crosta.
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E noi lasciammo lor così ’mpacciati. →
INFERNO XXIII
Taciti, soli, sanza compagnia →
n’andavam l’un dinanzi e l’altro dopo,
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come frati minor vanno per via.
Vòlt’ era in su la favola d’Isopo →
lo mio pensier per la presente rissa,
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dov’ el parlò de la rana e del topo;
ché più non si pareggia “mo” e “issa”
che l’un con l’altro fa, se ben s’accoppia
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principio e fine con la mente fissa.
E come l’un pensier de l’altro scoppia,
così nacque di quello un altro poi,
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che la prima paura mi fé doppia.
Io pensava così: “Questi per noi
sono scherniti con danno e con beffa
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sì fatta, ch’ assai credo che lor nòi.
Se l’ira sovra ’l mal voler s’aggueffa,
ei ne verranno dietro più crudeli
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che ’l cane a quella lievre ch’elli acceffa.”
Già mi sentia tutti arricciar li peli →
de la paura e stava in dietro intento,
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quand’ io dissi: “Maestro, se non celi
te e me tostamente, i’ ho pavent
o
d’i Malebranche. Noi li avem già dietro;
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io li ’magino sì, che già li sento.”
E quei: “S’i’ fossi di piombato vetro, →
l’imagine di fuor tua non trarrei
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più tosto a me, che quella dentro ’mpetro.
Pur mo venieno i tuo’ pensier tra ’ miei,
con simile atto e con simile faccia,
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sì che d’intrambi un sol consiglio fei.
S’elli è che sì la destra costa giaccia,
che noi possiam ne l’altra bolgia scendere,
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noi fuggirem l’imaginata caccia.”
Già non compié di tal consiglio rendere, →
ch’io li vidi venir con l’ali tese
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non molto lungi, per volerne prendere.
Lo duca mio di sùbito mi prese, →
come la madre ch’al romore è desta
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e vede presso a sé le fiamme accese,
che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
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tanto che solo una camiscia vesta;
e giù dal collo de la ripa dura
supin si diede a la pendente roccia,
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che l’un de’ lati a l’altra bolgia tura.
Non corse mai sì tosto acqua per doccia →
a volger ruota di molin terragno,
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quand’ ella più verso le pale approccia,
come ’l maestro mio per quel vivagno,
portandosene me sovra ’l suo petto,
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come suo figlio, non come compagno.
A pena fuoro i piè suoi giunti al letto →
del fondo giù, ch’e’ furon in sul colle
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sovresso noi; ma non lì era sospetto:
ché l’alta provedenza che lor volle
porre ministri de la fossa quinta,
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poder di partirs’ indi a tutti tolle.
Là giù trovammo una gente dipinta →
che giva intorno assai con lenti passi,
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piangendo e nel sembiante stanca e vinta.
Elli avean cappe con cappucci bassi →
dinanzi a li occhi, fatte de la taglia
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che in Clugnì per li monaci fassi.
Di fuor dorate son, sì ch’elli abbaglia; →
ma dentro tutte piombo, e gravi tanto,
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che Federigo le mettea di paglia. →
Oh in etterno faticoso manto!
Noi ci volgemmo ancor pur a man manca
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con loro insieme, intenti al tristo pianto;
ma per lo peso quella gente stanca
venìa sì pian, che noi eravam nuovi
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di compagnia ad ogne mover d’anca.
Per ch’io al duca mio: “Fa che tu trovi
alcun ch’al fatto o al nome si conosca,
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e li occhi, sì andando, intorno movi.”
E un che ’ntese la parola tosca, →
di retro a noi gridò: “Tenete i piedi,
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voi che correte sì per l’aura fosca!
Forse ch’avrai da me quel che tu chiedi.”
Onde ’l duca si volse e disse: “Aspetta,
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e poi secondo il suo passo procedi.”
Ristetti, e vidi due mostrar gran fretta
de l’animo, col viso, d’esser meco;
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ma tardavali ’l carco e la via stretta.
Quando fuor giunti, assai con l’occhio bieco
mi rimiraron sanza far parola;
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poi si volsero in sé, e dicean seco:
“Costui par vivo a l’atto de la gola;
e s’e’ son morti, per qual privilegio
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vanno scoperti de la grave stola?”
Poi disser me: “O Tosco, ch’al collegio
de l’ipocriti tristi se’ venuto, →
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dir chi tu se’ non avere in dispregio.”
E io a loro: “I’ fui nato e cresciuto
sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,
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e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.
Ma voi chi siete, a cui tanto distilla
quant’ i’ veggio dolor giù per le guance?
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e che pena è in voi che sì sfavilla?”
E l’un rispuose a me: “Le cappe rance
son di piombo sì grosse, che li pesi
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fan così cigolar le lor bilance. →
Frati godenti fummo, e bolognesi; →
io Catalano e questi Loderingo →
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nomati, e da tua terra insieme presi
come suole esser tolto un uom solingo,
per conservar sua pace; e fummo tali,
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ch’ancor si pare intorno dal Gardingo.”
Io cominciai: “O frati, i vostri mali …” →
ma più non dissi, ch’a l’occhio mi corse →
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un, crucifisso in terra con tre pali.
Quando mi vide, tutto si distorse,
soffiando ne la barba con sospiri;
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e ’l frate Catalan, ch’a ciò s’accorse,
mi disse: “Quel confitto che tu miri,
consigliò i Farisei che convenia
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porre un uom per lo popolo a’ martìri.
Attraversato è, nudo, ne la via, →
come tu vedi, ed è mestier ch’el senta
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qualunque passa, come pesa, pria.
E a tal modo il socero si stenta →
in questa fossa, e li altri dal concilio
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che fu per li Giudei mala sementa.”
Allor vid’ io maravigliar Virgilio →
sovra colui ch’era disteso in croce
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tanto vilmente ne l’etterno essilio.
Poscia drizzò al frate cotal voce:
“Non vi dispiaccia, se vi lece, dirci
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s’a la man destra giace alcuna foce
onde noi amendue possiamo uscirci,
sanza costrigner de li angeli neri →
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che vegnan d’esto fondo a dipartirci.”
Rispuose adunque: “Più che tu non speri →
s’appressa un sasso che da la gran cerchia
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si move e varca tutt’ i vallon feri,
salvo che ’n questo è rotto e nol coperchia;
montar potrete su per la ruina,
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che giace in costa e nel fondo soperchia.”
Lo duca stette un poco a testa china;
poi disse: “Mal contava la bisogna
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colui che i peccator di qua uncina.”
E ’l frate: “Io udi’ già dire a Bologna →
del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’
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ch’elli è bugiardo e padre di menzogna.”
Appresso il duca a gran passi sen gì, →
turbato un poco d’ira nel sembiante;
ond’ io da li ’ncarcati mi parti’
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dietro a le poste de le care piante.
INFERNO XXIV
In quella parte del giovanetto anno →
che ’l sole i crin sotto l’Aquario tempra
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e già le notti al mezzo dì sen vanno,
quando la brina in su la terra assempra
l’imagine di sua sorella bianca,
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ma poco dura a la sua penna tempra,
lo villanello a cui la roba manca,
si leva, e guarda, e vede la campagna
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biancheggiar tutta; ond’ ei si batte l’anca,
ritorna in casa, e qua e là si lagna,
come ’l tapin che non sa che si faccia;
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poi riede, e la speranza ringavagna,
veggendo ’l mondo aver cangiata faccia
in poco d’ora, e prende suo vincastro
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e fuor le pecorelle a pascer caccia.
Così mi fece sbigottir lo mastro
quand’ io li vidi sì turbar la fronte,
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e così tosto al mal giunse lo ’mpiastro;
ché, come noi venimmo al guasto ponte,
lo duca a me si volse con quel piglio
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dolce ch’io vidi prima a piè del monte.
Le braccia aperse, dopo alcun consiglio →
eletto seco riguardando prima
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ben la ruina, e diedemi di piglio.
E come quei ch’adopera ed estima,
che sempre par che ’nnanzi si proveggia,
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così, levando me sù ver’ la cima
d’un ronchione, avvisava un’altra scheggia
dicendo: “Sovra quella poi t’aggrappa;
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ma tenta pria s’è tal ch’ella ti reggia.”
Non era via da vestito di cappa, →
ché noi a pena, ei lieve e io sospinto, →
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potavam sù montar di chiappa in chiappa.
E se non fosse che da quel precinto
più che da l’altro era la costa corta,
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non so di lui, ma io sarei ben vinto.
Ma perché Malebolge inver’ la porta →
del bassissimo pozzo tutta pende,