Sussurri

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Sussurri Page 14

by Dean Koontz


  Non cercò di aprire la porta della cucina con le chiavi che aveva rubato dalla borsa di Hilary il giorno in cui era andata da lui. Probabilmente aveva fatto montare una nuova serratura. E anche se la donna non avesse preso que­ste precauzioni, non sarebbe riuscito comunque a entrare. Martedì sera, la prima volta che aveva cercato di introdursi in casa, la donna era là e lui aveva scoperto che era impos­sibile aprire la serratura con la chiave se era stata bloccata dall'interno. Quella superiore era scattata senza problemi, ma quella inferiore si poteva aprire solo se veniva chiusa dall'esterno, con una chiave. Così aveva dovuto rinunciarci e tornare la sera successiva, mercoledì, otto ore prima, mentre lei era fuori a cena ed entrambe le chiavi erano uti­lizzabili. Ma ora lei c'era, e anche se non aveva cambiato la serratura, aveva sicuramente fatto scattare dall'interno uno di quei chiavistelli speciali, impedendo così l'ingresso, indi­pendentemente dal tipo di chiave.

  Si diresse verso l'angolo della casa, vicino a una grande finestra che si affacciava sul giardino. Era divisa in pannelli di vetro da sottili strisce scure di legno laccato. Dall'altra parte si intravedeva lo studio tappezzato di libri. Estrasse una torcia dalla tasca, l'accese e diresse il fascio di luce con­tro la finestra. Socchiudendo gli occhi, cercò la sporgenza del davanzale e la sbarra orizzontale centrale, finché loca­lizzò la serratura, poi spense la torcia. Aveva un rotolo di nastro adesivo gommato e cominciò a strapparne alcune strisce, ricoprendo il piccolo pannello di vetro più vicino alla serratura. Quando il quadrato fu completamente co­perto, sferrò un unico colpo deciso con la mano guantata per frantumarlo. Il vetro si ruppe quasi senza rumore rima­nendo attaccato al nastro. Frye fece scivolare dentro la mano e aprì la finestra, la sollevò e si introdusse nello stu­dio. Evitò per un pelo di fare un frastuono infernale an­dando a sbattere contro un tavolino.

  In piedi, al centro della stanza, con il cuore che martel­lava, Frye tese l'orecchio per avvertire eventuali rumori al­l'interno della casa.

  Regnava il silenzio.

  Lei era in grado di risorgere dal regno dei morti e di in­carnarsi in un'altra persona, ma evidentemente quello era il limite dei suoi poteri soprannaturali. Ovviamente non po­teva vedere e sapere tutto. Era in casa sua, ma lei non lo sa­peva ancora.

  Sogghignò.

  Con la mano destra estrasse il coltello dal fodero fissato alla cintura.

  Con la pila nella mano sinistra, scivolò silenziosamente attraverso tutte le stanze del pianterreno. Erano buie e de­serte.

  Salendo le scale che conducevano al primo piano, si mantenne rasente al muro, nel caso i gradini scricchiolas­sero. Raggiunse il pianerottolo senza fare il benché minimo rumore.

  Esplorò le camere da letto, ma non trovò niente di inte­ressante finché non si avvicinò all'ultima stanza sulla sini­stra. Gli sembrò di notare una luce filtrare da sotto la porta e spense la pila. Nel corridoio buio quella debole luce ar­gentata era sufficiente a renderla visibile. Si diresse verso la porta e girò lentamente il pomello. Chiusa.

  L'aveva trovata.

  Katherine.

  Che si faceva passare per una certa Hilary Thomas.

  La puttana. La sporca puttana.

  Katherine, Katherine, Katherine...

  Mentre quel nome gli riecheggiava nella mente, strinse la mano attorno al coltello e lo agitò con piccoli movimenti decisi, come se la stesse accoltellando.

  Allungandosi per terra con il viso a livello del pavi­mento, Frye guardò attraverso lo spiraglio sotto la porta. Un mobile, forse un cassettone, era stato spinto contro la porta all'interno della stanza. Qualche debole raggio di luce, proveniente da un punto imprecisato sulla destra, riu­sciva comunque a filtrare sotto l'uscio.

  Frye era deliziato da quel poco che riusciva a vedere e si sentì invadere da un'ondata di ottimismo. Si era barricata dentro e questo significava che quella sporca puttana aveva paura di lui. Lei aveva paura di lui. Anche se sapeva come resuscitare dalla tomba, aveva paura di morire. O forse sa­peva o avvertiva che questa volta non sarebbe più riuscita a tornare in vita. Sarebbe stato maledettamente preciso nel sistemare il cadavere, molto più scrupoloso di quando si era occupato degli altri corpi di donna, di cui lei aveva as­sunto le fattezze. Le avrebbe strappato il cuore. Glielo avrebbe trafitto con un paletto di legno. Le avrebbe tagliato la testa. Riempito la bocca di aglio. Aveva anche l'in­tenzione di portarsi via la testa e il cuore, quando se ne fosse andato. Avrebbe sepolto quei macabri trofei in tombe separate, nel terreno consacrato di due cimiteri diversi, lon­tano dal resto del corpo. Apparentemente, lei si rendeva conto che questa volta intendeva prendere particolari pre­cauzioni, perché gli stava resistendo con una furia e una fermezza mai mostrate prima.

  Nella stanza regnava il silenzio.

  Stava dormendo?

  No, decise. Era troppo spaventata per poter dormire. Probabilmente era seduta sul letto con la pistola in mano.

  Se l'immaginò come un topo che si nasconde per sfug­gire al gatto: si sentì forte, potente come una forza della na­tura. Sentiva l'odio ribollirgli dentro. Voleva che si agitasse e tremasse per la paura, come aveva fatto lui per tanti anni. Improvvisamente, provò l'impulso di gridare: voleva urlare il suo nome, Katherine, Katherine... e maledirla. Riuscì a controllarsi solo con un enorme sforzo che gli imperlò la fronte di sudore e gli riempì gli occhi di lacrime.

  Si alzò e rimase immobile al buio, considerando le di­verse alternative. Avrebbe potuto scagliarsi contro la porta, buttarla giù e spostare il mobile, ma sarebbe stato un suici­dio. Non sarebbe riuscito a eliminare la barricata abba­stanza velocemente da coglierla di sorpresa. Lei avrebbe avuto tutto il tempo di prendere la mira e scaricargli in corpo una dozzina di proiettili. L'altra alternativa era aspettare che lei uscisse. Se fosse rimasto nel corridoio e non avesse fatto rumore per tutta la notte, con il passare delle ore lei avrebbe abbassato la guardia. Al mattino avrebbe pensato che ormai era salva e che lui non sarebbe tornato mai più. Quando fosse uscita dalla stanza, l'a­vrebbe afferrata e trascinata sul letto prima ancora che lei si rendesse conto di quello che stava succedendo.

  Frye attraversò il corridoio e si sedette sul pavimento, con la schiena appoggiata alla parete.

  Dopo pochi minuti, cominciò a sentire dei fruscii, dei leggeri passi frettolosi nel buio.

  È solo la mia immaginazione, si disse. Quella paura a lui tanto familiare.

  Ma, improvvisamente, sentì qualcosa che gli strisciava sulla gamba, sotto i pantaloni.

  Non c'è niente, cercò di convincersi.

  Qualcosa di orribile e non identificabile gli scivolò sotto la manica e si arrampicò sul braccio mentre qualcosa di pic­colo e mortale gli correva sulla spalla fino al collo. Si diri­geva verso la bocca. Serrò le labbra. La cosa proseguì verso gli occhi. Strinse gli occhi. Continuò verso le narici e Frye si passò freneticamente la mano sul viso: non riuscì a tro­varla, non riuscì a scacciarla. No!

  Accese la torcia. Era l'unica creatura vivente nel corri­doio. Non c'era niente che si muovesse sotto i pantaloni. Niente nelle maniche. Niente sul viso.

  Fu scosso dai brividi.

  Lasciò la torcia accesa.

  Giovedì mattina alle nove, Hilary fu svegliata dal telefono. C'era un apparecchio nella stanza degli ospiti. Il volume della suoneria era stato messo per sbaglio al massimo, pro­babilmente da qualcuno dell'impresa di pulizie che chia­mava di tanto in tanto. L'improvviso suono acuto e stridente interruppe il sonno di Hilary che si ritrovò seduta sul letto.

  Era Wally Topelis. Mentre faceva colazione, aveva letto sul giornale l'articolo relativo all'aggressione. Era scon­volto e preoccupato.

  Prima di aggiungere qualcosa a quanto riportato dal giornale, gli chiese di leggerle l'articolo. Fu contenta di sentire che si trattava di un articoletto di poche righe in se­sta pagina, con una fotografia minuscola. Era interamente basato sulle scarne informazioni che lei e il tenente Cle­menza avevano fornito ai giornalisti la notte prima. Non si faceva alcun accenno a Bruno Frye, o all'investigatore Frank Howard che la considerava una bugiarda. La stampa era arrivata e
se n'era andata giusto in tempo per perdere i particolari succosi che avrebbero permesso all'intera vi­cenda di finire in una delle prime pagine.

  Raccontò tutto a Wally che parve offeso. "Quello stu­pido, dannatissimo piedipiatti! Se soltanto si fosse sforzato di scoprire qualcosa di più su di te, sul genere di persona che sei, si sarebbe accorto che non avresti mai potuto in­ventare una storia simile. Ascolta, piccola, me ne occuperò io. Non preoccuparti. Entrerò in azione."

  "Come?"

  "Devo chiamare alcune persone."

  "Chi?"

  "Che cosa ne dici del capo della polizia, tanto per co­minciare?"

  "Oh, certo."

  "Vedi, mi deve alcuni favori," proseguì Wally. "Negli ul­timi cinque anni, chi credi abbia organizzato lo spettacolo di beneficenza della polizia? Chi credi che abbia convinto alcune delle star più famose di Hollywood a partecipare senza ricevere un soldo? Chi credi abbia trovato cantanti, attori e prestigiatori disposti a lavorare gratis per la poli­zia?"

  "Tu?"

  "Certo, dannazione. Proprio io."

  "Ma che cosa può fare?"

  "Può riaprire il caso."

  "Anche se uno dei suoi uomini giura che si tratta di uno scherzo?"

  "Il suo uomo è malato nel cervello."

  "Ho il sospetto che questo Frank Howard abbia delle ot­time credenziali," disse.

  "E allora significa che giudicano i loro uomini in modo penoso. O si accontentano di poco o sono tutti fuori di te­sta."

  "Credo comunque che non sarà molto facile convincere il capo della polizia."

  "So essere molto persuasivo, agnellino mio."

  "Ma, anche ammesso che lui ti debba un favore, come può riaprire il caso senza alcuna prova concreta in mano? Può anche darsi che sia il capo, ma dovrà pur seguire le regole."

  "Senti, almeno potrà parlare con lo sceriffo di Napa County."

  "E lo sceriffo Laurenski ripeterà la stessa storia che ha ri­ferito la scorsa notte. Dirà che Frye era a casa a preparare una torta o cose del genere."

  "E allora lo sceriffo è uno stupido incompetente che si è fatto fregare da qualcuno che lavora per Frye. Oppure un bugiardo. O forse è persino coinvolto con Frye in qualche modo."

  "Prova ad andare dal capo con questa teoria," proseguì, "e ci accuseranno di essere entrambi schizofrenici e para­noici."

  "Se non riuscirò a ottenere niente dai piedipiatti," sbottò Wally, "vorrà dire che mi rivolgerò a una squadra di inve­stigatori."

  "Investigatori privati?"

  "Conosco un'agenzia specializzata. Sono in gamba. Deci­samente meglio di molti poliziotti. Indagheranno a fondo sulla vita di Frye e scopriranno ogni minimo segreto. Riu­sciranno sicuramente a trovare una traccia che farà riaprire il caso."

  "Ma non costerà un sacco di soldi?"

  "Faremo a metà," rispose.

  "Oh, no."

  "Oh, sì."

  "E molto generoso da parte tua, ma..."

  "Non si tratta di generosità. Tu sei un bene estrema­mente prezioso, agnellino mio. Mi spetta una percentuale sui tuoi guadagni e quindi considera i soldi spesi per gli in­vestigatori privati come una forma di assicurazione. Voglio solo proteggere i miei interessi."

  "Stai parlando a vanvera e lo sai bene," lo rimproverò. "Sei molto generoso, Wally. Ma per il momento non assu­mere nessuno. L'altro investigatore di cui ti ho parlato, Clemenza, ha detto che si sarebbe fermato da me questo pomeriggio per vedere se ricordavo qualcosa di nuovo. Sono convinta che creda ancora alle mie parole, ma è un po' confuso perché Laurenski ha decisamente ingarbu­gliato la mia storia. Credo che Clemenza troverà una scusa qualsiasi per poter riaprire il caso. Lascia che prima gli parli. Se la situazione non si sbloccherà, potremo assumere i tuoi investigatori privati."

  "Bene... D'accordo," bofonchiò Wally con riluttanza. "Ma nel frattempo dirò loro di mandare un uomo per pro­teggerti."

  "Wally, non ho bisogno di una guardia del corpo."

  "Invece sì, dannazione."

  "Sono rimasta al sicuro tutta la notte e poi..."

  "Ascolta, piccola, ti manderò lì qualcuno. Ormai ho de­ciso. E non provare a discutere con lo zio Wally. Se non lo farai entrare, rimarrà in piedi davanti alla porta d'ingresso come la guardia di un palazzo."

  "Davvero, io..."

  "Prima o poi," proseguì Wally dolcemente, "dovrai ren­derti conto che non puoi affrontare sempre tutto da sola, contando esclusivamente sulle tue forze. Nessuno lo fa. Nessuno, piccola. Prima o poi tutti hanno bisogno di una mano. Avresti dovuto chiamarmi ieri sera."

  "Non volevo disturbarti."

  "Per l'amor del cielo, non mi avresti disturbato! Io sono tuo amico, anzi, il fatto che tu non mi abbia disturbato, mi disturba ancora di più. Bambina mia, è una bella cosa es­sere forti, indipendenti e pieni di fiducia in se stessi. Ma quando esageri, quando ti isoli in questo modo è come se prendessi a sberle tutti quelli che ti vogliono bene. Allora, lascerai entrare la guardia che ti sto mandando?"

  Hilary sospirò. "Va bene."

  "Bene. Sarà da te fra un'ora. Mi chiamerai quando avrai finito di parlare con Clemenza?"

  "D'accordo."

  "Promesso?"

  "Lo prometto."

  "Hai dormito, questa notte?"

  "Sì. Sembra incredibile."

  "Se non hai riposato abbastanza," proseguì, "fai un piso­lino questo pomeriggio."

  Hilary scoppiò a ridere. "Saresti una stupenda mamma ebraica."

  "Forse questa sera ti porterò una bella tazza di brodo caldo. Arnvederci, piccola."

  "Arnvederci, Wally. Grazie di avermi chiamato."

  Riappese il ricevitore e lanciò un'occhiata al cassettone appoggiato contro la porta. Dopo una notte tanto tran­quilla quella barricata sembrava ridicola. Wally aveva ra­gione: il modo migliore per risolvere l'intera faccenda era quello di assumere guardie del corpo ventiquattr'ore su ventiquattro e di lanciare una squadra di investigatori pri­vati di prim'ordine sulle tracce di Frye. La sua idea di affrontare il problema da sola era semplicemente ridicola. Non poteva certo sprangare le finestre e combattere la Bat­taglia di Alamo contro Frye.

  Balzò fuori del letto, si infilò la vestaglia di seta e si di­resse verso il cassettone. Tolse i cassetti e li mise da parte. Quando il mobile fu sufficientemente leggero per essere spostato, lo allontanò dalla porta e lo rimise al suo posto, stando attenta ad appoggiarlo sui segni lasciati sul tappeto. Poi sistemò i cassetti.

  Tornò al comodino, afferrò il coltello e sorrise ripen­sando a quanto era stata ingenua. Un combattimento a fac­cia a faccia con Bruno Frye? Uno scontro con un maniaco? Come aveva potuto pensare di avere anche solo una possi­bilità? Frye era molto più forte di lei. Ed era già stata fortu­nata la notte precedente a riuscire a sfuggirgli. Grazie a Dio, era riuscita ad afferrare la pistola. Ma se avesse pro­vato a lottare, l'avrebbe fatta a pezzi.

  Decise di riportare il coltello in cucina e di vestirsi prima che arrivasse la guardia del corpo. Andò verso la porta, girò la chiave, l'apri, fece un passo nel corridoio e lanciò un urlo quando Bruno Frye l'afferrò mandandola a sbat­tere contro il muro. La testa colpì la parete con un rumore sordo e Hilary si sforzò di scacciare il velo oscuro che le si stava formando davanti agli occhi. Lui l'afferrò per la gola con la mano destra, immobilizzandola. Con la mano sini­stra, le strappò la vestaglia e le strizzò i seni nudi, guardan­dola con aria maliziosa e chiamandola troia e puttana.

  Doveva aver ascoltato la conversazione con Wally, do­veva aver capito che la polizia le aveva sequestrato la pi­stola perché non mostrò il benché minimo segno di paura. Non aveva accennato al coltello con Wally e Frye non era preparato. Gli conficcò la lama nella pancia piatta e musco­losa. Per qualche secondo lui sembrò non accorgersene; fece scivolare la mano dal seno, cercando di infilarle le dita nella vagina. Quando Hilary estrasse il coltello, lui fu colto da una fitta di dolore. Spalancò gli occhi e si lasciò sfuggire un gemito acuto. Hilary continuò a infierire con il coltello, col­pendolo sul fianco, proprio sotto le costole. Il viso del­l'uomo diventò
improvvisamente bianco e untuoso come il lardo. Ululò, mollò la presa e inciampò all'indietro, an­dando a sbattere contro la parete e facendo cadere un qua­dro.

  Un violento brivido di repulsione attraversò il corpo di Hilary quando si rese conto di ciò che aveva fatto. Ma non lasciò cadere il coltello e si preparò a colpirlo di nuovo nel caso l'avesse aggredita.

  Bruno Frye si guardò la pancia, sbalordito. La lama era penetrata in profondità. Dalla ferita fuoriusciva un sottile fiotto di sangue che gli macchiò rapidamente il golf e i pan­taloni.

  Hilary non rimase ad aspettare che quell'espressione di stupore si trasformasse in rabbia e agonia. Si voltò e si pre­cipitò nella stanza degli ospiti, sbattè la porta e la chiuse a chiave. Per circa mezzo minuto si fermò ad ascoltare i ge­miti, le imprecazioni e i goffi movimenti di Frye, chieden­dosi se avrebbe avuto ancora la forza necessaria per sfon­dare la porta. Le parve di udire il corpo dell'uomo che si trascinava pesantemente giù per le scale, ma non poteva esserne certa. Si precipitò al telefono. Con le mani esangui e paralizzate, sollevò il ricevitore e compose il numero del centralino. Chiese di parlare con la polizia.

  Quella puttana! Quella fottuta puttana!

  Frye fece scivolare una mano sotto il pullover giallo e strinse la ferita che gli aveva squarciato le budella e che sanguinava copiosamente. Cercò di stringerne i lembi, nel tentativo di impedire che la vita gli sfuggisse. Sentì il san­gue tiepido che colava attraverso le cuciture dei guanti, ba­gnandogli le dita.

  Non era un dolore insopportabile. Solo una sensazione di caldo nello stomaco. Un pizzicore elettrico lungo il fianco sinistro. Una fitta che si ripeteva a intervalli ritmici, con la stessa cadenza del battito cardiaco. Nient'altro.

  Tuttavia, sapeva di essere ferito gravemente e di peggio­rare con il passare del tempo. Era incredibilmente debole. La sua grande forza l'aveva abbandonato improvvisamente e completamente.

  Stringendosi la pancia con una mano e afferrando la ba­laustra con l'altra, scese al pianterreno sui gradini instabili come quelli della casa dei fantasmi al luna park: sembra­vano inclinarsi, beccheggiare e rollare continuamente. Quando giunse in fondo alle scale, era bagnato fradicio di sudore.

 

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