by Neil Gaiman
Le guardie uscirono insieme dalla sala. «L'ultima volta che hanno fatto una festa abbiamo scoperto che qualcuno aveva vomitato in un sarcofago» disse uno degli uomini, poi la porta si richiuse alle loro spalle.
«Se fai parte di Londra Sotto» spiegò Porta a Richard, con tono colloquiale, mentre camminavano fianco a fianco verso la sala successiva, «di solito non si accorgono neppure della tua esistenza, a meno che non li fermi e parli con loro. E anche in quel caso, si dimenticano di te in un batter d'occhio.»
«Ma io ti ho vista» fece Richard. Era da un po' che quel fatto gli dava da pensare.
«Lo so» disse Porta. «Non è strano?»
«Qui è tutto strano» ribadì Richard con foga. La musica degli archi si faceva più forte.
«L'Angelus è là dentro» annunciò Porta puntando il dito nella direzione da cui proveniva la musica.
«Come lo sai?»
«Lo so» disse con assoluta certezza. «Andiamo.» Uscirono dal buio per immettersi in un corridoio illuminato. Attraverso il corridoio campeggiava un grande cartello con sopra scritto:
ANGELI SULL'INGHILTERRA
UNA MOSTRA DEL BRITISH MUSEUM
sponsorizzata dalla Stockton S.p.A.
Attraversarono il corridoio e superarono una porta aperta, per entrare nella grande stanza in cui si stava svolgendo la festa.
C'era un quartetto d'archi che suonava e numerosi camerieri che rifornivano di cibo e bevande una stanza affollata di gente ben vestita. In un angolo della sala si trovava un piccolo palco con sopra un podio, a lato di un sipario lungo e pesante.
La stanza era completamente piena di angeli.
C'erano statue di angeli su minuscoli piedistalli. Dipinti di angeli sui muri. Affreschi con angeli. C'erano angeli enormi e angeli minuscoli, angeli risoluti e angeli amabili, angeli con ali e aureola e angeli senza, angeli bellicosi e angeli pacifici. C'erano angeli moderni e angeli classici. Centinaia e centinaia di angeli di ogni forma e misura. Angeli occidentali, medio-orientali e orientali. Angeli di Michelangelo. Angeli di Joel Peter Witkin, di Picasso, di Warhol. La collezione di angeli del signor Stockton era «indisciplinata fino a sfiorare il trash, ma di certo notevole per il suo ecclettismo» (Time Out).
«Penseresti che sono incontentabile» chiese Richard «se dicessi che trovare qualcosa con sopra un angelo in questa stanza è come cercare di trovare un... oh mio Dio, Jessica!»
Richard senti il sangue defluirgli dal viso. Fino a quel momento aveva pensato che si trattasse di un modo di dire. Non aveva mai creduto che potesse accadere davvero.
«Qualcuno che conosci?» chiese Porta.
Richard annui. «Era la mia... Be', dovevamo sposarci. Siamo stati insieme per un paio d'anni. Era con me quando ti ho trovata. Era quella nella... Che ha lasciato quel messaggio. Nella segreteria telefonica.»
Jessica stava conversando con Andrea Lloyd Webber, Janet Street-Porter e un signore occhialuto che sospettava fortemente fosse uno dei Saatchi, quelli dell'agenzia di pubblicità e pubbliche relazioni. Ogni due o tre minuti controllava l'orologio e lanciava un'occhiata in direzione della porta.
«Lei?» chiese Porta, ricordandosi di quanto era successo. Poi, sentendosi in dovere di dire qualcosa di carino di una persona che per Richard era stata tanto importante, aggiunse «Be', è molto...» fece una pausa e pensò, «... pulita.»
Richard fissava Jessica dall'altra parte della stanza. «Sarà... sarà infastidita dalla nostra presenza?»
«Ne dubito» rispose Porta. «A dire il vero, se non fai qualcosa di stupido, come rivolgerle la parola, probabilmente non si accorgerà nemmeno di te.» Quindi, con molto più entusiasmo, disse: «Cibo!»
Piombò sui canapé come una ragazzina col naso imbrattato di fuliggine, i capelli da folletto e una grande giacca di pelle marrone, una ragazza che non avesse mangiato in modo adeguato da anni. Enormi quantità di cibo vennero immediatamente stipate nella sua boccuccia, masticate e inghiottite mentre, allo stesso tempo, più sostanziosi panini venivano avvolti nei tovaglioli di carta e messi in tasca.
Poi, con in mano un piatto di carta su cui aveva ammonticchiato cosce di pollo, fette di melone, vol-au-vent ai funghi, sfogliatine al caviale e salsicce di cervo, cominciò ad aggirarsi per la stanza, fissando assorta ogni singolo angelico manufatto. Richard la seguiva con un panino al finocchio e brie e un bicchiere di succo d'arancia appena spremuto.
Jessica era molto perplessa. Aveva notato Richard, e avendo visto lui si era accorta anche di Porta. C'era qualcosa di familiare in quei due: era come un'immagine in un angolo remoto del cervello, impossibile da identificare e fonte di grande irritazione.
Le fece tornare alla mente un aneddoto che le aveva raccontato sua madre, quando aveva incontrato una donna che conosceva da sempre - con cui era andata a scuola, aveva fatto parte del consiglio parrocchiale e aveva gestito la tombola alla fiera del paese - e della quale si era resa conto, a una festa, di non sapere il nome, pur essendo a conoscenza del fatto che aveva un marito che lavorava nella pubblicità e si chiamava Eric e un golden retriever di nome Major.
La cosa aveva lasciato la madre di Jessica alquanto contrariata.
E stava distraendo Jessica.
«Chi sono quelle persone?» chiese a Clarence.
«Loro? Be', lui è il nuovo direttore di Vogue, lei è la corrispondente del New York Times per le belle arti. Quella nel mezzo è Emma Freud, credo...»
«No, non loro» disse Jessica. «Loro. Là.»
Clarence guardò nel punto che stava indicando. Hmm? Oh, loro. Non riusciva a capire come avesse potuto non notarli prima. L'età, pensò. Avrebbe compiuto ventitré anni di li a poco. «Giornalisti?» disse poco convinto. «Hanno un aspetto piuttosto trendy. Grunge chic? Ti prego! So di avere invitato The Face...»
«Io lo conosco» disse Jessica, frustrata. In quel momento lo chauffeur del signor Stockton telefonò da Holborn dicendo che erano quasi arrivati al British Museum, e Richard le scivolò via dalla testa come mercurio liquido che sgocciola tra le dita.
«Visto qualcosa?» chiese Richard.
Porta scosse il capo e inghiottì una boccata di coscia di pollo masticata frettolosamente. «È come giocare a 'Individua il piccione' a Trafalgar Square» commentò. «Ma non c'è niente che avverto come l'Angelus. La carta diceva che vedendolo l'avrei riconosciuto.»
Riprese ad aggirarsi nella sala, facendosi strada tra un Capitano d'Industria, il Leader dell'Opposizione e la Squillo Meglio Pagata dell'Inghilterra del sud.
Richard si voltò, e si trovò faccia a faccia con Jessica. Aveva i capelli pettinati alti sulla nuca, che le incorniciavano perfettamente il viso di riccioletti bruni. Era molto bella. Gli sorrideva. Fu il sorriso a smuoverlo.
«Ciao Jessica» disse. «Come stai?»
«Salve. Non ci crederà,» disse lei «ma il mio assistente non ha preso nota del suo giornale, signor hmm.»
«Giornale?» fece Richard.
«Ho detto giornale?» disse Jessica con una dolce e tintinnante risatina piena di auto-biasimo. «Rivista... stazione televisiva. Lei è nei media, vero?»
«Hai un aspetto splendido, Jessica» disse Richard.
«Lei è in vantaggio nei miei confronti» ribadì la ragazza con aria maliziosa.
«Sei Jessica Bartram. Sei la responsabile marketing della Stockton. Hai ventisei anni. Il tuo compleanno cade il ventitré aprile, e quando sei all'apice della passione tendi a canterellare a bocca chiusa la canzone dei Monkees I'm a believer...»
Ormai Jessica non sorrideva più.
«È una specie di scherzo?» chiese con freddezza.
«Oh, e negli ultimi diciotto mesi siamo stati fidanzati» aggiunse Richard.
Jessica sorrise nervosamente. Forse si trattava davvero di uno scherzo, di una di quelle spiritosaggini che tutti gli altri sembravano capire e che lei non riusciva mai ad afferrare.
«Credo che lo saprei se fossi stata fidanzata con qualcuno per diciotto mesi, signor hmm.»
«Mayhew» disse Richard per darle una mano. «Richard Mayhew. Mi hai piantato, e io non esist
o più.»
Jessica fece un cenno frettoloso a nessuno in particolare dall'altra parte della sala. «Arrivo subito!» gridò disperata, cominciando a indietreggiare.
«I'm a believer» canticchiò tutto allegro Richard «I coiddn't leave her if I tried...»
Jessica afferrò una coppa di champagne da un vassoio di passaggio e lo inghiotti in un sorso. Al lato opposto della stanza poteva vedere l'autista del signor Stockton, e dove si trovava l'autista del signor Stockton...
Si diresse verso la porta.
«Allora, chi era?» chiese Clarence mettendosi al suo fianco.
«Chi?»
«Il tuo uomo del mistero.»
«Non lo so» ammise lei. Poi aggiunse, «Senti, forse sarebbe meglio chiamare la sicurezza.»
«D'accordo. Perché?»
«Perché... perché ti chiedo di chiamare la sicurezza» poi il signor Arnold Stockton entrò nella sala e tutto il resto le usci dalla testa.
Era voluminoso e facoltoso, il signor Stockton: una vignetta d'uomo, con una circonferenza enorme, molti menti e un grande stomaco. Aveva superato i sessanta; i capelli erano grigio-argento, e li teneva troppo lunghi sulla nuca perché vedere che teneva i capelli troppo lunghi metteva a disagio la gente, e al signor Stockton piaceva molto mettere la gente a disagio.
Paragonato a Arnold Stockton, Rupert Murdoch era un losco speculatore di quart'ordine e il defunto Robert Maxwell una balena arenata. Arnold Stockton era un pitbull, ed era proprio cosi che spesso lo ritraevano i caricaturisti.
La Stockton possedeva un po' di tutto: satelliti, quotidiani, case discografiche, parchi di divertimento, libri, periodici, fumetti, stazioni televisive, compagnie cinematografiche.
«Il discorso lo pronuncio subito» disse il signor Stockton a Jessica come preambolo. «Poi me la svigno. Ci torno un'altra volta, senza tutti quei palloni gonfiati tra i piedi.»
«Bene» disse Jessica. «Si. Subito il discorso. Certo.»
Quindi lo condusse al piccolo palco e sul podio. Per ottenere il silenzio fece tintinnare le unghie contro un bicchiere. Nessuno ci fece caso, perciò prese il microfono e disse «Scusatemi.» Questa volta la conversazione si acquietò. «Signore e signori. Stimati ospiti. Vorrei dare a tutti voi il benvenuto al British Museum» disse «e alla mostra, sponsorizzata dalla Stockton, 'Angeli sull'Inghilterra', e in particolar modo all'uomo cui dobbiamo tutto questo, il nostro direttore generale e presidente del Consiglio di amministrazione, il signor Arnold Stockton.»
Gli ospiti si misero ad applaudire, senza avere dubbi riguardo a chi avesse raccolto la collezione di angeli e, peraltro, pagato lo champagne.
Il signor Stockton si schiari la voce. «Bene» disse. «Non sarà una cosa lunga. Quando ero piccolo, venivo al British Museum al sabato, perché l'ingresso era gratuito e a casa non giravano molti soldi. Però salivo gli alti gradini per raggiungere l'entrata e scendevo in questa sala sul retro per guardare quest'angelo. Era come se sapesse cosa pensavo.»
(Clarence rientrò nella stanza affiancato da un paio di guardie della sicurezza. Indicò Richard, che si era fermato ad ascoltare il discorso del signor Stockton. Porta stava ancora esaminando i pezzi esposti. «No, lui» Clarence continuava a ripetere alle guardie, in tono sommesso. «No, guardate, proprio là. Visto? Lui.»)
«Comunque. Come tutte le cose che non vengono custodite con attenzione» continuò il signor Stockton «è andato in rovina, caduto a pezzi sotto gli stress e le tensioni dei tempi moderni. È marcito. È andato a male. Be', ci è voluta un carrettata di soldi» fece una pausa per dare maggior peso all'espressione - se lui, Arnold Stockton, pensava fosse una carrettata, di carrettata certamente si trattava - «e decine di artigiani hanno passato un sacco di tempo a restaurarlo e a sistemarlo. Dopo Londra, la mostra andrà in America, poi in tutto il mondo, cosi forse potrà ispirare qualche altro piccolo birbante senza un soldo a costruirsi un impero nelle comunicazioni.»
Si guardò intorno. Rivolto a Jessica mormorò, «E adesso che faccio?»
Lei indicò il cordone a lato del sipario.
Il signor Stockton tirò il cordone e il sipario ondeggiò e si apri, rivelando un vecchio portale.
(«No. Lui» disse Clarence. «Per la miseria! Ma siete ciechi?»)
Poteva essere stato l'ingresso di una cattedrale. Era alto come due uomini e abbastanza largo perché ci passasse un pony. Intagliato nel legno del portale e dipinto in rosso, bianco e lamina d'oro, c'era un angelo straordinario. Che fissava il mondo con vuoti occhi medievali.
Gli ospiti fecero un oh! di stupore, quindi applaudirono.
«L'Angelus!» Porta si era messa a tirare la manica di Richard. «Eccolo! Richard, vieni!»
Corse verso il palco.
«Mi scusi, signore» disse una guardia rivolta a Richard. «Possiamo vedere il suo invito?» aggiunse un'altra, afferrandolo saldamente, ma con discrezione, per un braccio. «Ha un documento?»
«No» rispose Richard.
Porta era sul palco. Richard tentò di liberarsi con uno strattone, nella speranza che le guardie si dimenticassero di lui. Non lo fecero.
Una volta preso in custodia, intendevano trattarlo come avrebbero fatto con qualsiasi altro trasandato, sporco e mal rasato intruso. La guardia che teneva Richard per il braccio accentuò la stretta, mormorando: «Non pensarci nemmeno!»
Sul palco, Porta si era fermata, chiedendosi come fare affinché le guardie liberassero Richard. Quindi fece l'unica cosa che le venne in mente. Si avvicinò al microfono, si alzò in punta di piedi e si mise a urlare con quanto fiato aveva in gola nel sistema di diffusione sonora.
Il suo strillo era notevole: senza alcun aiuto esterno poteva attraversare il cervello come un trapano superpotente con segaossi incorporato. E amplificato...
Una cameriera lasciò cadere il vassoio con i bicchieri. Teste che si voltavano. Mani che coprivano le orecchie. Interruzione di ogni conversazione. La gente fissava il palco sconcertata e inorridita.
E Richard ne approfittò per liberarsi con uno strattone e scappare via, dicendo alla guardia sbigottita, «Mi dispiace, ho sbagliato Londra.»
Raggiunse il palco e afferrò la mano sinistra di Porta, tesa verso di lui. Con la mano destra la ragazza toccò l'Angelus, l'enorme portone di cattedrale. Lo toccò e lo aprì.
Questa volta nessuno lasciò cadere il bicchiere. Erano pietrificati, lo sguardo fisso, del tutto sopraffatti - e, momentaneamente, accecati. L'Angelus si era aperto, e da dietro il portale la luce aveva invaso la stanza di fulgore. Gli invitati si erano coperti gli occhi, poi, esitanti, avevano provato a riaprirli ed erano semplicemente rimasti attoniti a fissare. Era come se in quella sala fossero stati sparati dei fuochi d'artificio. Non fuochi da interno, quegli strani bastoncini su cui i lampi di luce scoppiettanti si arrampicano lentamente per lasciare un cattivo odore una volta spenti; e neppure quelli che si accendono in giardino, ma veri e propri fuochi da professionisti, quelli che vengono sparati cosi in alto da creare problemi agli aeroplani: quelli che chiudono una giornata a Disneyland o fanno venire l'emicrania ai vigili del fuoco ai concerti dei Pink Floyd. Era un momento di magia pura.
Il pubblico guardava, estasiato e stupito. L'unico rumore che si sentiva era il lieve, ansimante mormorio di meraviglia che la gente fa quando guarda i fuochi artificiali: il suono della soggezione.
Poi un giovane sudicio e una ragazza con il viso imbrattato di fuliggine che indossava una giacca di pelle troppo grande entrarono in quello spettacolo di luce e scomparvero. Il portale si richiuse dietro di loro. I giochi di luce erano terminati.
E tutto era di nuovo normale. Gli ospiti, le guardie, i camerieri strizzarono gli occhi, scossero le rispettive teste e, avendo avuto a che fare con qualcosa del tutto al di fuori della loro esperienza, si ritrovarono in qualche modo d'accordo, senza aver detto una parola, che in realtà non era accaduto nulla.
Il quartetto d'archi riprese a suonare.
Il signor Stockton se ne andò, dopo aver salutato con un brusco cenno del capo i vari conoscenti che stavano tra lui e l'us
cita.
Jessica si avvicinò a Clarence. «Cosa ci fanno qui» chiese gentilmente «quegli uomini della sicurezza?»
Le guardie in questione se ne stavano in mezzo agli ospiti, e si guardavano attorno come se fossero altrettanto incerte sul da farsi.
Clarence cominciò a spiegare il motivo per cui le guardie si trovavano là, ma si rese conto di non averne la benché minima idea. «Me ne occupo io» disse, sempre efficente.
Jessica annui. Diede un'occhiata alla sua festa e sorrise benignamente. Stava andando tutto decisamente bene.
Richard e Porta entrarono nella luce. Poi, all'improvviso, diventò buio, e fresco, e Richard socchiuse gli occhi per l'immagine residua della luce sulla retina, che lo aveva lasciato quasi cieco: un evanescente alone verde-arancio che scompariva piano piano mentre gli occhi si abituavano all'oscurità che li circondava.
Si trovavano in un salone molto ampio, scavato nella roccia. I piloni di ferro che reggevano il soffitto, neri e coperti di ruggine, proseguivano fino nel buio più lontano, forse per chilometri. Scaturito da un angolo non meglio identificato poteva sentire un dolce rumore di acqua corrente: una fontana, forse, o una piccola cascata. Porta gli stava ancora tenendo la mano, stretta.
In lontananza, una fiammella tremolò e si accese. Poi un'altra. E un'altra ancora. Era una miriade di candele, e verso di loro, camminando in mezzo alle candele, veniva una figura alta, vestita di un semplice abito bianco.
La figura sembrava muoversi lentamente, ma doveva invece camminare con grande rapidità, dato che dopo pochi secondi era già al loro fianco. Aveva i capelli dorati e il viso pallido. Non era molto più alto di Richard ma lo faceva sentire come un bambino piccolo. Non era un uomo. Non era una donna. Era molto bello.
Aveva una voce pacata, e disse, «Lady Porta, vero?»
Porta rispose «Si.»
Un sorriso gentile. Un cenno del capo verso di lei, con aria quasi umile. «È un onore incontrare finalmente te e il tuo compagno. Sono l'Angelo Islington.»
Aveva occhi grandi e limpidi. Il suo abito non era bianco come Richard aveva inizialmente pensato: sembrava intessuto di luce.