Nessun Dove

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Nessun Dove Page 21

by Neil Gaiman


  Il tono rassicurante nella sua voce aveva un che di agghiaccian­te, e riusciva a spaventarlo molto più di qualunque tentativo diretto.

  «Mi ucciderete?»

  L'Abate guardava avanti, con occhi di un azzurro lattiginoso, e rispose con un lieve accenno di biasimo. «Siamo uomini santi» dis­se. «No, è la prova a ucciderti.»

  Scesero una rampa di scale e entrarono in una stanza dal soffit­to basso, simile a una cripta, con le pareti decorate in maniera biz­zarra.

  «Adesso» disse l'Abate «sorridi!»

  Si udì il sibilo elettronico del flash di una macchina fotografica che per un attimo accecò Richard. Quando riacquistò l'uso della vista, fratello Caliginoso aveva già abbassato una Polaroid vecchia e malconcia e stava estraendo la fotografia.

  Il frate attese che fosse sviluppata, poi la fissò al muro con una puntina.

  «Questo è il muro di coloro che hanno fallito» sospirò l'Abate. «Vogliamo essere certi che nessuno venga dimenticato. Portiamo anche questo peso: la memoria.»

  Richard fissò i volti. Alcune Polaroid; venti o trenta altre foto­grafie, alcune stampe seppiate e dagherrotipi; quindi seguivano disegni a matita, acquarelli e miniature. Correvano lungo tutto un muro. I frati ci si dedicavano da molto, molto tempo.

  Porta rabbrividì. «Sono cosi stupida» borbottò. «Avrei dovuto pensarci. Siamo in tre. Non sarei mai dovuta venire subito qui.» La testa di Hunter si muoveva da una parte all'altra. Aveva preso nota della posizione di ogni frate, di ogni balestra; aveva calco­lato le probabilità di far arrivare Porta dall'altra parte del ponte, prima incolume, poi con qualche lesione di poco conto, e infine con una ferita grave a lei stessa ma solo una piccola a Porta. Ora stava ricalcolando. «E cosa avresti fatto di diverso se avessi sapu­to?» chiese.

  «Tanto per cominciare, non l'avrei portato qui» rispose Porta. «Avrei cercato il Marchese.»

  Hunter piegò la testa da un lato. «Ti fidi di lui?» domandò, di­retta, e Porta sapeva che si riferiva a de Carabas, non a Richard.

  «Si» disse Porta. «Più o meno mi fido.»

  Porta aveva compiuto cinque anni solo due giorni prima. Quel­la volta il mercato si teneva nei giardini di Kew, e suo padre l'ave­va portata con sé come regalo di compleanno. Era il suo primo mercato.

  Erano nella casa delle farfalle, circondati da ali dai colori sgargianti, cose iridescenti e impalpabili che l'avevano incantata e affascinata, quando suo padre si era accovacciato accanto a lei.

  «Porta?» disse. «Voltati piano e guarda laggiù, vicino alla porta.

  Si era voltata e aveva guardato. Un uomo di pelle scura che indossava un ampio soprabito, i lunghi capelli neri legati a coda di cavallo, era in piedi nei pressi della porta e parlava con due gemelli dalla pelle dorata, un ragazzo e una ragazza. La giovane donna stava piangendo, nella maniera in cui piangono i grandi, trattenendo le lacrime il più possibile e odiando il momento in cui, non riuscendo a frenarsi, diventano allo stesso tempo brutti e buf­fi a vedere.

  Porta tornò a occuparsi delle farfalle.

  «L'hai visto?» le chiese il padre.

  Annui.

  «Quello è il Marchese de Carabas» disse. «È un impostore e un imbroglione e probabilmente in parte anche un mostro. Se mai dovessi trovarti nei guai, va' da lui. Ti proteggerà, ragazza mia. Deve farlo.»

  E Porta lo guardò di nuovo. Teneva una mano sulla spalla di ognuno dei gemelli e li conduceva fuori dalla stanza; tuttavia, mentre se ne stava andando lanciò un 'occhiata al di sopra della propria spalla e le fece l'occhiolino.

  I frati che le circondavano erano fantasmi scuri nella nebbia. Porta alzò la voce. «Scusa, fratello» gridò a fratello Fosco. «Il no­stro amico, quello che è andato a prendere la chiave... se fallisce, a noi cosa succede?»

  Il frate avanzò verso di loro.

  «Vi scortiamo lontano da qui e vi lasciamo andare.»

  «E Richard?» domandò.

  Sotto il cappuccio poteva scorgerlo scuotere il capo con aria triste e definitiva.

  «Avrei dovuto portare il Marchese» disse Porta, domandandosi dove fosse e cosa stesse facendo.

  Il Marchese de Carabas stava per essere crocifisso su un'impo­nente struttura in legno a forma di X che mister Vandemar aveva messo insieme alla svelta utilizzando numerosi vecchi pallet, pez­zi di sedia, un cancello di legno e quella che sembrava una ruota di carro. Aveva usato anche una grossa scatola di chiodi arruggini­ti. Mister Vandemar, da una scala a pioli, si trascinava in giro l'in­tera costruzione.

  «Un po' più su» strillò mister Croup, che era rimasto a terra. «Più a sinistra. Si. Cosi. Incantevole.»

  Era da molto tempo che non crocifiggevano qualcuno.

  Braccia e gambe del Marchese de Carabas erano aperte a for­mare una grande X. Dei chiodi gli attraversavano le mani e i piedi, ed era anche legato con una fune intorno alla vita. Era, a tutti gli effetti, privo di conoscenza.

  L'intera struttura ondeggiava nell'aria, appesa a grosse funi, in quella che un tempo era stata la caffetteria del personale ospeda­liere.

  Sul pavimento, mister Croup aveva raccolto una gran quantità di oggetti taglienti, che spaziavano da rasoi e coltelli da cucina a lancette e bisturi abbandonati, oltre a numerosissime cosette inte­ressanti che mister Vandemar aveva trovato nell'ex reparto odon­toiatrico. C'era persino un attizzatoio, proveniente dalla stanza del­la caldaia.

  «Perché non vede come sta, mister Vandemar?» chiese.

  Mister Vandemar allungò il martello che teneva in mano e ne piazzò la testa sotto al mento del Marchese, quindi glielo sollevò.

  Gli occhi del Marchese tremolarono e si aprirono. Fece un bel respiro profondo e sputò un purpureo grumo di sangue in faccia a mister Vandemar.

  «Cattivaccio» disse severamente mister Croup. In realtà, era piuttosto compiaciuto.

  Il tiro a segno è molto più divertente quando il bersaglio è sveglio.

  Il bollitore fumava con grande ardimento. Richard guardava l'acqua bollente e si domandava cosa avessero intenzione di farne. La sua immaginazione era in grado di fornire un numero infinito di risposte.

  Nessuna delle quali risultò esatta.

  L'acqua bollente venne riversata in una teiera, in cui fratello Caliginoso aggiunse tre cucchiai di foglie di tè. Attraverso un coli­no, il liquido che ne risultò fu versato dalla teiera in tre tazze di porcellana.

  L'Abate sollevò la testa cieca, annusò l'aria, sorrise. «La prima parte della Prova della Chiave» disse «è una buona tazza di tè. Metti lo zucchero?»

  «No, grazie» rispose Richard, circospetto.

  Fratello Caliginoso aggiunse al té un po' di latte e passò a Ri­chard tazza e piattino.

  «È avvelenato?» chiese.

  L'Abate pareva quasi offeso. «Buon Dio, no.»

  Richard sorseggiò il té, che sapeva più o meno esattamente di té. «Ma questo fa davvero parte della prova?»

  Fratello Caliginoso prese le mani dell'Abate e vi depose una tazza colma.

  «Per modo di dire. Ci piace offrire ai cercatori una tazza di té, prima che comincino. Per noi, fa parte della prova. Non per te.» L'Abate sorseggiò il liquido caldo e sul suo viso antico si allargò un sorriso beato. «Proprio un buon té, tutto considerato.»

  Richard appoggiò la sua tazza. «Allora,» chiese «vi dispiace­rebbe se procedessimo con la prova?»

  «No di certo» disse l'Abate. «No di certo.»

  Si alzò. Si diressero tutti e tre verso una porta, all'estremità opposta della stanza.

  «C'è...» Richard indugiava, cercando di decidere cosa stava cercando di chiedere. Poi disse, «C'è qualcosa che potete dirmi ri­guardo alla prova?»

  L'Abate scosse il capo.

  Non c'era proprio niente da dire: accompagnava i cercatori alla porta, quindi aspettava, per un'ora o due. Poi rientrava e rimuove­va i resti del cercatore dal santuario e li interrava nelle cripte. A volte non erano morti, anche se ciò che rimaneva di loro non pote­va essere definito vivo. E di quegli sfortunati, i Frati Neri si occu­pavano meglio che potevano.

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sp; «Bene» disse Richard, e sorrise. «Allora, forza, Macduff!.»

  Fratello Caliginoso tirò i chiavistelli, che si aprirono con uno schianto, come colpi di fucile in contemporanea. Apri la porta e Richard la oltrepassò.

  Fratello Caliginoso chiuse la porta dietro di lui e rimise a posto i chiavistelli.

  Ricondusse l'Abate alla sua sedia e gli sistemò di nuovo la taz­za in mano. L'Abate sorseggiò il tè in silenzio. Poi disse, «Vera­mente è 'vivi, Macduff'. Ma non ho avuto il cuore di correggerlo. Sembrava un cosi bravo giovane.»

  DODICI

  Richard Mayhew camminava lungo la banchina della metropo­litana.

  Non aveva riconosciuto la stazione. Era una stazione della District Line: il cartello diceva blackfriars.

  La banchina era vuota. Da qualche parte un treno passò rom­bando e mandò un vento spettrale a sparpagliare le pagine di una copia del Sun, che dalla banchina disseminarono seni e invettive fin sulle rotaie.

  Richard guardò da una parte e dall'altra.

  Quindi si sedette su una panchina in attesa che accadesse qual­cosa.

  Non accadde nulla.

  Si massaggiò la testa e provò un po' di nausea.

  Sulla banchina si udirono dei passi. Alzò lo sguardo: gli stava passando accanto una bambina dall'aria molto linda e inamidata che teneva per mano una donna che pareva una versione più gran­de e più vecchia della bimba stessa. Lo videro, quindi, ovviamen­te, guardarono da un'altra parte.

  «Non avvicinarti troppo, Melanie» raccomandò la donna in un sussurro anche troppo udibile.

  Melanie guardò Richard, fissandolo come fissano i bambini, senza imbarazzo né disagio. Poi tornò a guardare la madre. «Per­ché persone cosi continuano a vivere?» chiese, curiosa.

  «Non hanno il fegato di farla finita» spiegò la mamma.

  Melanie arrischiò un'altra occhiata a Richard. «Patetico» disse.

  Lo scalpiccio dei loro piedi si allontanò lungo la banchina, e ben presto erano scomparse.

  Si chiese se fosse stato frutto della sua immaginazione. Cercò di ricordare il motivo per cui si trovava su quella banchina. Aspet­tava un treno della metropolitana? E dove stava andando?

  Non lo sapeva.

  Rimase seduto dov'era. Stava forse sognando? Provò a toccare il duro sedile di plastica sotto di lui, battè i piedi sul pavimento con le scarpe incrostate di fango (da dove proveniva quel fango?), si toccò il viso... No. Non era un sogno. Qualunque cosa fosse, era reale.

  Si sentiva strano: indifferente e depresso, e orribilmente, stra­namente triste.

  Qualcuno si sedette accanto a lui. Richard non sollevò lo sguar­do, non voltò la testa.

  «Ciao» disse una voce familiare. «Come stai, Dick? Va tutto bene?»

  Richard alzò gli occhi. Senti che il volto gli si increspava in un sorriso, e la speranza lo colpiva come un colpo al petto. «Garry?» domandò, impaurito. Poi, «Puoi vedermi?»

  Garry sorrise. «Sei sempre stato un gran burlone» disse. «Di­vertente, ragazzo, divertente.»

  Garry era in giacca e cravatta. Era ben rasato e non aveva un capello fuori posto. Di colpo Richard si rese conto di quale dove­va essere il suo aspetto: infangato, non sbarbato, arruffato...

  «Garry? Io... senti, so cosa devo sembrare. Posso spiegarti.» Ci pensò sopra un istante. «No... in realtà non posso.»

  «Va tutto bene» disse Garry. La sua voce era consolante, equi­librata. «Non so come dirtelo. È un po' imbarazzante.» Esitò. «Guar­da,» spiegò «io non sono davvero qui.»

  «Oh, si che ci sei» disse Richard.

  Garry scosse il capo, con aria comprensiva. «No» disse. «Non ci sono. Io sono te. Stai parlando a te stesso.»

  Richard si chiese vagamente se fosse uno degli scherzi di Garry.

  «Forse questo ti...» disse Garry. Si portò le mani sul viso, pre­mette, plasmò, modellò. La sua faccia pareva di pongo.

  «Va meglio cosi?» disse la persona che era stata Garry, con una voce che gli era sgradevolmente familiare. Richard conosceva quel viso. L'aveva rasato quasi tutte le mattine dei giorni feriali da quando aveva finito la scuola. Gli aveva lavato i denti, strizzato i brufoli e, qualche volta, aveva desiderato somigliasse a quello di Tom Cruise o di John Lennon o...

  Era la sua faccia.

  «Sei seduto alla stazione di Blackfriars all'ora di punta» disse l'altro Richard. «Stai parlano da solo. E sai cosa dicono di chi par­la da solo. Il fatto è che in questo momento stai semplicemente cominciando a riaccostarti alla sanità mentale.»

  E il bagnato e inzaccherato Richard fissò il volto del Richard pulito e ben vestito e disse: «Non so chi tu sia o cosa stai cercando di fare. Ma non sei neppure molto convincente: neanche mi somigli.»

  Sapeva di mentire.

  L'altro se stesso fece un sorriso triste e scosse il capo.

  «Sono te, Richard. Sono quel poco che rimane della tua sanità mentale...» L'altro Richard lo fissò intensamente. «Concentrati! Guarda questo posto, cerca di vedere le persone, cerca di vedere la verità... sei già più vicino alla realtà di quanto tu sia mai stato in quest'ultima settimana...»

  «Tutte balle» replicò Richard in tono spento e disperato.

  Scosse il capo, ma guardò la banchina. Al limite estremo della sua visione periferica c'era qualcosa che tremolava.

  Provò a seguire l'immagine voltando la testa, ma era scomparsa.

  «Guarda» bisbigliò il suo doppio, con una voce che conosceva anche troppo bene.

  Si trovava in piedi su una banchina di stazione di metropolitana vuota e scarsamente illuminata, il solitario mausoleo di un luogo.

  Poi...

  Il rumore e la luce lo colpirono come un fulmine.

  Era alla stazione di Blackfriars, nel bel mezzo dell'ora di pun­ta. Intorno a lui un gran via vai di gente: un'orgia di luce e di ru­more, di umanità in movimento.

  In attesa alla stazione c'era un treno, e Richard si vide riflesso nel finestrino.

  Ecco come appariva:

  Sembrava pazzo. Aveva la barba di una settimana. Intorno alla bocca e sulla barba c'erano sedimenti di cibo. Aveva un livido re­cente intorno all'occhio, diventato nero, e su un lato del naso stava spuntando un foruncolo, una pustola scarlatta e rabbiosa. Era sudi­cio, ricoperto di uno sporco nero e incrostato che gli riempiva i pori e abitava sotto le unghie. Gli occhi erano rossi e velati, i ca­pelli opachi e aggrovigliati.

  Era un pazzo senza fissa dimora, che se ne stava in piedi sulla banchina di un'affollata stazione del metrò all'ora di punta.

  Affondò il volto nelle mani.

  Quando rialzò il viso, la gente se ne era andata. La banchina era di nuovo buia ed era solo.

  Una mano trovò la sua, l'afferrò e la strinse. Una mano femmi­nile. Sentiva un profumo familiare.

  L'altro Richard era seduto alla sua sinistra, mentre Jessica sta­va alla sua destra e gli teneva la mano, guardandolo negli occhi. Non le aveva mai visto quell'espressione.

  «Jess?» disse.

  Jessica scosse il capo. Gli lasciò la mano. «Mi dispiace, ma non è cosi» disse. «Sono ancora te. Però mi devi ascoltare, caro. Sei più vicino alla realtà di quanto tu sia mai stato...»

  «Voi due continuate a dire più vicino alla realtà, più vicino alla sanità mentale, non so proprio cosa...» Esitò. In quel momento ri­cordò qualcosa. Guardò l'altra versione di se stesso e la donna che aveva amato e chiese, «Fa parte della prova?»

  «Prova?» domandò Jessica. Scambiò un'occhiata inquieta con 1'altro-Richard-che-non-era-lui.

  «Si. La prova. Con i Frati Neri che vivono sotto Londra» spie­gò Richard. E mentre lo diceva, diventava più reale. «C'è una chia­ve che devo trovare per un angelo che si chiama Islington. Se gli porto la chiave, lui mi rimanda a casa...» gli si era inaridita la boc­ca, quindi si fermò.

  «Ascolta ciò che dici!» lo apostrofò l'altro Richard. «Non ti accorgi di quanto suona ridicolo?»

  Jessica sembrava una che si sforza di non piangere. Aveva gli occhi lucidi. «Non stai affrontando nessuna prova, Richard. Tu - tu hai a
vuto una specie di esaurimento nervoso. Un paio di setti­mane fa. Probabilmente sei crollato perché ho rotto il fidanzamen­to. Il fatto è che ti comportavi in modo tanto strano, sembravi un'altra persona e io - io non riuscivo a sopportarlo... Poi sei spa­rito...» Le lacrime cominciavano a solcarle le guance, e smise di parlare per soffiarsi il naso con un fazzolettino di carta.

  Prese a parlare l'altro Richard. «Mi aggiravo per le vie di Lon­dra, impazzito e solo, dormivo sotto i ponti e mangiavo cibo tro­vato nei bidoni e nei contenitori della spazzatura. Perso, tremante e solo. Borbottavo tra me e parlavo con persone inesistenti...»

  «Mi dispiace cosi tanto, Richard» disse Jessica. Stava piangen­do, il viso contorto privo di attrattiva. Il mascara iniziava a colare e aveva il naso rosso.

  Non l'aveva mai vista ferita, e si accorse di quanto desiderava fare in modo che non soffrisse.

  Richard allungò la mano verso di lei, per cercare di abbracciarla, confortarla, rassicurarla, ma il mondo scivolò, si distorse e mutò...

  Qualcuno inciampò su di lui.

  Era sdraiato sulla banchina nella vivida luce dell'ora di punta. Un lato del suo viso era freddo e appiccicoso. Sollevò la testa da terra. Si era straiato in una pozzanghera di vomito, che sperava almeno fosse suo.

  I passanti lo fissavano disgustati o, dopo un'occhiata di sfuggi­ta, cercavano di non guardarlo affatto.

  Si ripulì il viso e cercò di alzarsi, ma non si ricordava come si fa. Richard cominciò a piagnucolare. Chiuse gli occhi stretti stret­ti, e continuò a tenerli chiusi.

  Quando li riapri, trenta secondi, un'ora o un giorno più tardi, la banchina era nella semi oscurità.

  Si alzò in piedi. Non c'era nessuno.

  «Ehi!» gridò. «Per favore, aiutatemi.»

  Garry era seduto sulla panchina e lo osservava.

  «Ma come, c'è ancora bisogno che qualcuno ti dica cosa devi fare?» Garry si alzò e si diresse verso il punto in cui si trovava Richard. «Richard» disse in tono pressante. «Sono te. L'unico consiglio che posso darti è quello che ti stai dando da solo. Anche se forse sei troppo impaurito per ascoltare.»

  «Tu non sei me» disse Richard, anche se ormai non ci credeva più.

 

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