Rune

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Rune Page 2

by Christopher Fowler


  Un rumore acuto le fece alzare lo sguardo. Due ragazzini originari delle Indie Occidentali stavano correndo tra gli scaffali nel settore dei libri per bambini; le loro suole di gomma stridevano sul pavimento incerato. Fissando il più grandicello, Dorothy gli scoccò un'occhiata di disapprovazione, una specie di raggio laser che intimorì entrambi e li quietò. Le erano occorsi anni interi per coltivare quello sguardo micidiale, ma in genere non era molto efficace coi bambini d'oggi. Per la maggior parte di loro, andare nella sua biblioteca (Dorothy la considerava sua: non ne aveva forse il diritto?) equivaleva a una punizione. Era normale che preferissero giocare in strada piuttosto che essere confinati in quella penombra tetra. La curva imponente del cavalcavia escludeva il sole dai saloni, e la sala di lettura principale era im­mersa in un'oscurità umida. I, bambini d'oggi conoscevano i no­mi di tutti i personaggi dei serial televisivi, però non sapevano chi fosse Robinson Crusoe, né cosa ci fosse sull'Isola del Tesoro, né erano ansiosi di scoprirlo. L'apprendimento passivo era una cosa molto pericolosa.

  Dorothy guardò l'orologio. Ancora tre ore. Era entrata po­chissima gente quel giorno. Era difficile trovare qualcosa da fare per ingannare il tempo.

  — Eccone un altro. — Frank Drake le passò il ritaglio di gior­nale sulla scrivania. Dorothy lo guardò, sbirciando sopra gli oc­chiali. Evening Standard, seconda edizione, data odierna, notò. Il titolo diceva: pedone muore schiacciato in una via di londra. E sotto: Deputato chiede multe più salate per chi par­cheggia sul marciapiede.

  — Spiaccicato — disse allegro Drake. — Il migliore della setti­mana, per il momento. Naturalmente, è solo lunedì. — Nessun commento da parte di Dorothy. — Be' — concesse l'aiuto biblio­tecario — almeno va messo nel dossier. E fanno sei, dalla metà della scorsa settimana.

  — Mostrami gli altri. — Dorothy indicò il mucchietto di ritagli sparsi sull'altro lato della scrivania. Drake li spinse verso di lei.

  — UOMO FULMINATO DALLA LUCIDATRICE. Non è proprio un fatto insolito.

  — Per un uomo, sì.

  — DETENUTO TRAFITTO AL CUORE DA UNA STILOGRAFICA. Pensavo che gli omicidi non contassero.

  — Non è stato un omicidio. È scivolato ed è caduto sulla stilo.

  — Dicono sempre così in prigione. — Dorothy esaminò le al­tre notizie. — TURISTA BRITANNICA MUORE CADENDO DALLA statua della libertà. Oh, via, Frank. Questo non può con­tare! Una caduta è sempre una caduta, a prescindere da dove si cade.

  — Ti sbagli. — Drake si sporse in avanti, parlando col tipico tono sommesso che i bibliotecari imparavano ben presto ad adot­tare. — Leggi i particolari. Quella donna era grassissima. Se è morta, c'entra proprio la Statua della Libertà. Una ringhiera ha ceduto mentre lei si sporgeva per scattare una foto.

  — Così tu lo inseriresti nel dossier? Stai cambiando le regole. È morta per il suo peso eccessivo e per la sua stupidità. Esatta­mente come la donna sbalzata dalle montagne russe a Blackpool. Era così obesa che gli addetti non sono riusciti ad allacciarle la cintura di sicurezza. Se ben ricordo, il ritaglio diceva che è schiz­zata via in cima al primo arco come il tappo di una bottiglia di champagne.

  — E ho tenuto quel ritaglio?

  — No, hai detto che non contava.

  — D'accordo, hai vinto tu. — Drake strappò il pezzo di carta. — Ma se continui a criticare, non scriverò mai il mio libro, acci­denti.

  — Sì, invece, Frank. — Dorothy gli battè sulla mano, tranquillizzante. — Stai affrontando questa impresa con grande dedi­zione, ma hai qualcos'altro che ti favorisce: la tua ossessività, che per un progetto del genere è un fattore positivo.

  Drake le puntò contro un dito. — Devi capire che tutte le di­sgrazie naturali e provocate dall'uomo sono collegate dalle leggi della probabilità, e che quelle leggi sono determinate da decisio­ni politiche di base. Posso dimostrare la complicità del governo in ogni genere di...

  — Lo so, Frank — disse Dorothy, sospirando. — Mi hai già spiegato il grande complotto.

  — Basta raccogliere abbastanza prove e individuare con gran­de precisione gli elementi utili e le coordinate per dimostrare qualsiasi teoria. — Drake era deciso a proseguire, senza badare alla disattenzione di Dorothy. — Un mio amico conosce un de­putato laburista che è disposto a testimoniare sotto giuramento che il governo sta finanziando degli esperimenti scientifici sulle leggi della probabilità. Pensa a come sarebbe utile politicamente potere predire i disastri. Il Tunnel della Manica attraversa una ri­serva conservatrice. Dovranno coprire qualsiasi incidente perché gli elettori non sappiano...

  — Frank, a volte ho l'impressione che tu e io non viviamo nel­lo stesso mondo.

  Drake la stancava. Il suo entusiasmo era illimitato e perlopiù applicato malamente. Mentre rimetteva a posto una pila di libri nel settore narrativa, Dorothy si girò a guardare tra gli scaffali. Il suo aiutante era curvo sulla scrivania come un contabile vittoriano, scribacchiando furiosamente su un taccuino. Eppure, Do­rothy di tanto in tanto provava compassione per lui. Alcune per­sone non erano attrezzate per affrontare le asprezze e le respon­sabilità della vita moderna. Frank Drake apparteneva a quella schiera. Brillante accademicamente ma fisicamente inutile, era condannato a rimanere per sempre uno studioso, pieno di idee su come modificare il mondo, ma incapace di cambiare alcun­ché.

  Dorothy osservò mesta la sezione consultazione saccheggiata. I ragazzi continuavano a rubare i libri. Lavorare in una piccola biblioteca rionale non era certo un'occupazione molto impegna­tiva, eppure Dorothy sapeva di avere tutte le ragioni per licen­ziare Drake. Frank Drake aveva attitudine per un'infinità di co­se, ma la sua attenzione mutevolissima distruggeva qualsiasi pro­spettiva di carriera. La sua mente era un guazzabuglio di buone intenzioni, un ammasso caotico di progetti mal concepiti che in­terferivano di continuo col suo lavoro. Ventotto anni, esile e af­fetto da calvizie precoce, Frank sembrava destinato a raggiunge­re la mezza età con dieci anni d'anticipo. Dorothy sapeva che non avrebbe mai potuto cacciarlo. Dove poteva andare? Il siste­ma non era strutturato per accogliere i tipi come lui.

  Il suo ultimo progetto consisteva nell'utilizzare la propria abi­lità scientifica per scrivere un libro intitolato Politica, Paradosso e Probabilità, uno studio sulle probabilità matematiche che collegavano gli avvenimenti di tutti i giorni. Drake spiegava rego­larmente la sua teoria a Dorothy, con vari gradi di successo, e l'aveva anche incoraggiata ad aiutarlo a raccogliere informazio­ni, ritagliando dai quotidiani notizie di morti strane. Lei sapeva che Drake non avrebbe mai ultimato il progetto. Non appena avesse subodorato nuove congiure, le sue indagini avrebbero preso all'improvviso una direzione diversa, e il dossier sarebbe finito insieme a tutti gli altri nella malconcia scatola di cartone dietro la scrivania.

  Dorothy respirò a fondo e salì di nuovo sulla scaletta con una bracciata di libri logori di Stephen King, rimproverandosi per quei cattivi pensieri sul collega. In fin dei conti, per la maggior parte delle persone, la pazza lì dentro era lei. E se lo pensavano, rifletté Dorothy, ne avevano ben donde, vuoi per la faccenda della cantina, vuoi per quell'altra delle streghe.

  Be', sarebbero rimasti tutt'e due lì, lei e Frank, la vecchia stramba e lo studioso misantropo, finché il primo bulldozer non fosse riuscito a scacciare i fantasmi, facendo penetrare raggi di sole nei corridoi bui e deserti.

  4

  Grace

  Il sergente Longbright salì i gradini del commissariato di Bow Street con un paio di ampie falcate, distanziando Harry. Si aprì un varco nell'area d'attesa e aveva appena alzato la ribalta del bancone quando un agente la chiamò.

  — Il conducente se n'è andato una decina di minuti fa, sergen­te. — Indicò una delle salette interrogatori lungo il corridoio. — Non ha voluto rimanere più del necessario. Non era in stato di fermo, quindi non abbiamo potuto...

  — Va bene — disse la Longbright. — L'importante è che ab­biamo la sua deposizione. — Si girò verso Harry. — Temo che ab­bia fatto un viaggio a vuoto, signor Buckingham. Venga nel mio ufficio. Le darò il numero del medico
che si è occupato di suo pa­dre. Quanto al resto, può aspettare un momento più adatto.

  Mentre il sergente lo precedeva lungo il corridoio, Harry si ac­corse di essere sempre più contrariato. Assurdo: un uomo aveva appena provocato un incidente mortale, e loro gli permettevano di allontanarsi tranquillamente, libero come l'aria!

  — Non capisco perché abbiate lasciato andare il conducente come se nulla fosse — si lamentò, mentre entravano nell'ufficio. — Non si tratta di un piccolo incidente d'auto. Potrebbe esserci un processo. È inconcepibile che uno possa cavarsela impunemente in un caso del genere.

  — Signor Buckingham, nessuno se la sta cavando impunemente. Abbiamo già raccolto una deposizione esauriente, e ab­biamo inoltre le dichiarazioni dei testimoni oculari che confer­mano la meccanica dell'incidente. Sarò felicissima di farle avere una copia del rapporto completo non appena sarà pronto.

  — Voglio l'indirizzo del conducente prima di andarmene. — Harry si accomodò sulla sedia. La sua voce era piatta, il viso ine­spressivo.

  Il sergente Longbright prese posto dietro la scrivania e cercò un foglio di carta vuoto.

  — Preferirei che il suo colloquio con la parte in causa si svol­gesse qui al commissariato. Riteniamo che in questo modo la gente riesca a controllarsi meglio.

  — Voglio sapere esattamente quel che è successo, prima che si dimentichino i particolari. Per mettermi il cuore in pace. — La Longbright osservò il professionista scontroso seduto di fronte a lei, intento a giocherellare col cinturino dell'orologio in un gesto abituale di inquietudine. Era il classico tipo che avrebbe piantato delle grane se non avesse ottenuto quel che voleva. Il sergente estrasse dal taschino una vecchia stilografica marezzata e comin­ciò a scrivere.

  — Posso fidarmi, signor Buckingham?

  — Voglio solo capire — disse Harry. — Nient'altro.

  — Non mi faccia pentire di questo. — La donna scrisse un in­dirizzo e glielo porse. Harry piegò il foglio e si alzò con uno sbuf­fo di impazienza. Lei lo fermò sulla soglia. — Se ha qualche problema, deve chiamarmi subito. È sposato?

  — No. E non vedo cosa...

  — È utile avere qualcuno con cui parlare in un momento del genere. Ci sono diverse organizzazioni umanitarie che possono aiutarla ad accettare la situazione. Se vuole, posso metterla in contatto.

  Dall'occhiataccia che Harry le lanciò lasciando l'ufficio si capi­va che accettare la situazione era l'ultima cosa che aveva in men­te.

  Forse avrebbe dovuto telefonare, prima. Ma aveva deciso di non farlo, senza sapere bene perché, come se una parte di lui pensasse di guadagnare qualcosa cogliendo il signor — Crispin, vero? — alla sprovvista. Harry studiò di nuovo la calligrafia niti­da e tondeggiante del sergente Longbright. Appartamento 3, Inkerman Road 27, NWS. Londra Nord. Venticinque minuti di macchina, al massimo.

  La strada in questione era un vicolo cieco che partiva da Kentish Town Road. Le tozze case a schiera di mattoni erano state edificate tra il 1860 e il 1870 per ospitare i lavoratori che costrui­vano il labirinto di linee ferroviarie dell'area settentrionale di Londra. La maggior parte delle vie portavano i nomi delle prin­cipali battaglie della guerra di Crimea. Nei recenti anni del boom dei professionisti rampanti, la zona era diventata un quartiere elegante, ma adesso il boom era terminato, e le case venivano suddivise di nuovo in appartamenti.

  Harry suonò il campanello e si scostò dal portico. Sembrava che non ci fosse nessuno in casa. Controllò l'orologio, e si rese conto che avrebbe dovuto telefonare in ufficio entro pochi minu­ti. Anche se la sua assenza dall'agenzia era dovuta a una disgra­zia personale, Sharpe se ne sarebbe infischiato. Dall'alto giunse il rumore di una finestra che si apriva.

  — Cerca me, amico? — gli chiese una ragazza. Un'ampia stri­scia di capelli scuri le attraversava il centro della testa. I lati era­no rasati a zero. Alle orecchie portava un'infinità di orecchini piumati. Sembrava arrabbiata, o almeno turbata per qualcosa.

  — Abita qui un certo signor G. Crispin? — domandò Harry, irritato per il fatto di dovere gridare.

  — Crispian. Grace Crispian. Sono io.

  Oh, mio Dio pensò Harry. Non può essere questa... apparizio­ne.

  — E lei chi è? — Questo detto abbastanza forte con un accen­to dialettale da far fermare e voltare la gente sull'altro lato della strada.

  — Mi chiamo Buckingham. Lei ha appena investito mio pa­dre.

  — Oh, merda. Aspetti. — La strana testa sparì, la finestra si chiuse. Alcuni attimi dopo, Grace apparve sulla soglia. Era bas­sa, un metro e sessantacinque al massimo, doveva avere circa venticinque anni, e indossava un maglione nero a collo alto e jeans. Sarebbe stata attraente, rifletté Harry, se non fosse stato per gli orecchini e quell'acconciatura impressionante.

  — Meglio che entri. Metto il bricco sul fuoco — disse la ragaz­za, mangiando qualche sillaba. — Non so che dire. È stata una cosa terribile. Non so come farò a dormire. — Lo condusse attra­verso l'atrio e su una ripida rampa di scale. Sentendo un odore intenso di vernice fresca, Harry tenne lontano dalle pareti il so­prabito.

  — La polizia le ha dato il mio indirizzo, immagino.

  — Sono venuto al commissariato ma lei era già andata via.

  — Mi spiace. Stavo per svenire, avevo bisogno di una boccata d'aria. Non avevo mai avuto un incidente, e oggi addirittura ho visto morire una persona sotto i miei occhi. Ho dovuto bere un bicchierino. — Gli indicò il soggiorno. — Entri. Porto il tè.

  Harry si sedette circospetto su un divano da due soldi coperto di peli di cane. La stanzetta era piena di poster cinematografici di ogni specie, dimensione e colore. Sul caminetto erano attaccati i manifesti di Cittadino dello spazio e Eraserhead. Sopra il tavolo, spiccavano Attack of the Fifty Foot Woman e Radiazioni BX di­struzione uomo. Sopra il divano erano affissi Barbarella e Il Grande Inquisitore. Praticamente addormentato sulla griglia ro­vente di una stufa elettrica c'era un vecchissimo cane spelacchia­to di razza imprecisata. Si stava sicuramente bruciacchiando il pelo, ma sembrava che non se ne rendesse conto. L'unica prova che era vivo si ebbe quando l'animale cominciò a emettere dei rumori a caso dalle due estremità del corpo. Harry decise di con­cludere il colloquio il più in fretta possibile e di filare via.

  — Oh, Dio, mi spiace per il cane. — Grace posò il vassoio su una pila di riviste e gli passò una tazza di liquido marrone bollen­te. — È molto vecchio. — Allontanò la bestia dalla stufetta, spingendola con la punta dello scarpone. — Ha visto il sergente? Quella donna grande e grossa, la Longbright?

  — È venuta nel mio ufficio.

  — Allora le avrà detto che non è stata colpa mia.

  — Sì, però mi piacerebbe sentire da lei quello che è successo. — Harry bevve un po' di tè e, con sua sorpresa, scoprì che era ottimo. Grace si guardò le stringhe degli scarponi, di colpo imba­razzata.

  — Vede, lavoro per uno studio artistico, faccio lavori occasio­nali, perlopiù — spiegò. — Mi piacerebbe occuparmi del mon­taggio grafico, ma mi manca ancora un po' di gavetta. Così mi arrangio come tappabuchi, e a volte devo guidare il camion dello studio. È molto grosso, fatto apposta per trasportare materiale scenico. — Bevve un sorso di tè e si girò verso il caminetto, evi­tando di guardarlo in faccia. — Oggi pomeriggio ho fatto la mia consegna e sono risalita in cabina. Ho controllato nello spec­chietto retrovisore, poi in quello laterale, e ho visto che non arri­vava nessuno. Mi sono perfino sporta dal finestrino e ho dato un'occhiata dietro. Giuro che la strada era sgombra. Ho acceso il motore e sono partita, piano. Allora si è sentito un suono ag­ghiacciante, come di... — S'interruppe e abbassò ancora la testa.

  — Il vecchio si era infilato di corsa tra il muro e il camion. Le persone che lavorano negli uffici di fronte hanno detto di averlo visto sfrecciare sul marciapiede dopo che avevo controllato negli specchietti. È sbucato dal nulla. E successo tutto così in fretta che non hanno fatto in tempo ad aprire le finestre e ad avvertirlo del pericolo.

  — Non capisco. Perché correva?

  — Non lo so. Fors
e aveva un appuntamento ed era in ritardo. Deve aver visto che stavo per partire, ma non si è fermato.

  — È assurdo. — La tazza gli stava scottando le mani, ma Har­ry non ci badò. — Mio padre non è mai corso da nessuna parte in vita sua. Era lento e metodico in tutto, e questo faceva impazzire mia madre. Non ha mai corso un rischio, non ha mai abbandonato una routine, non ha mai perso l'autobus o il treno. Piuttosto che arrivare in ritardo, avrebbe annullato un appuntamento.

  — Lo so che è stata una morte orribile, però almeno...

  — La prego, non dica che è stata una cosa istantanea. — Harry si girò verso di lei. — Senta, Grace, se devo essere sincero, io e mio padre non eravamo molto legati. Solo che detesto pensare che sia morto in un modo così stupido, evitabile. — Posò la taz­za e si alzò per andarsene. La ragazza era visibilmente turbata. Proseguire la conversazione sarebbe servito soltanto a peggiora­re le cose. Harry tolse dal soprabito i peli del cane, agitato.

  — Grazie per avermi dedicato il suo tempo, signorina Crispian. Voglio che sappia che non la ritengo responsabile di quan­to è successo.

  — Mi fa piacere sentirglielo dire.

  Harry aveva aperto la porta d'ingresso e stava per uscire quan­do Grace gli toccò piano il braccio.

  — Sono davvero desolata. Se ha bisogno di parlarne ancora...

 

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