Rune

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Rune Page 18

by Christopher Fowler


  — Qualcosa che non va? — chiese, vagamente minaccioso. — Che fine ha fatto l'affare?

  — È andato avanti senza di te. Che cosa ti aspettavi? — Brian cercò di divincolarsi, ma Harry gli strinse la manica ancor più forte.

  — E come hanno potuto farlo? La quota di mio padre...

  — La quota di tuo padre contava quanto quella di Beth Cleveland.

  — Come sarebbe a dire?

  — Le clausole stabilivano che per un'eventuale fusione era ne­cessario il voto favorevole della maggioranza dei soci.

  — Cioè, tu e Beth. Ma Beth ti aveva detto che aveva cambiato idea. Si è opposta a te e ai tuoi amici della odel, e adesso è mor­ta. Ti rendi conto della situazione? — Harry afferrò il risvolto della giacca di Brian e lo spinse contro il muro. — Non si è mai trattato di una fusione, in realtà... era un rilevamento con una bustarella d'incoraggiamento per indorare la pillola, vero? Un'i­niziativa molto più ostile di quanto non sembri.

  — Chiamala come vuoi — disse Brian, spaventato. — Volenti o nolenti, la odel sta concludendo l'affare di prepotenza a meno di un quarto dell'offerta iniziale.

  — Di prepotenza, Brian? Rimanevi solo tu da convincere, e tu non vedevi l'ora di accettare.

  — Non così. Non capisci. Adesso devo andare, Buckingham. Questa faccenda non ti riguarda più. — Lack sembrava un ani­male in trappola, trasudava paura da tutti i pori.

  — Voglio sapere perché gli hai permesso di farlo. Era solo una questione di soldi? O stanno facendo pressione su di te? Ci sono delle leggi contro l'intimidazione.

  — Proprio non ti rendi conto. — Brian era prossimo alle lacri­me. Inclinò il capo verso le nubi gonfie, vergognoso. Parte del ri­porto di capelli gli era scivolata sugli occhi. — Se ci vedono insie­me, sono finito.

  — Hanno ucciso Willie e Beth, tutti quelli che li intralciano muoiono — gli gridò in faccia Harry. — Ma questo lo sai già, ve­ro?

  — No, non è possibile. La polizia ha detto che Beth si è messa in mezzo alle rotaie...

  — Lascia perdere quel che ha detto la polizia. Qualcuno della odel li ha fatti uccidere, e se salterà fuori qualcosa di losco da­ranno la colpa a te, puoi scommetterci.

  — Devo andare. — Brian si divincolò, ma Harry non mollò la presa.

  — Allora incontriamoci da qualche parte più tardi. Aiutami, e io troverò il modo di aiutarti.

  Brian sembrò valutare la proposta per un attimo, poi scosse la testa energicamente. — No, lo scoprirebbero.

  — Mio padre è morto, Brian.

  — Credi che non lo sappia? — sbottò Lack rabbioso, coi linea­menti contratti. — Ero suo amico... probabilmente, ero più affe­zionato a lui di quanto non lo sia mai stato tu. Eri suo figlio, eppure non ti facevi mai vedere. So tutto di te.

  — Allora parlami — lo supplicò Harry. — Possiamo andare dove vuoi. Nessuno saprà del nostro incontro.

  — Devo pensarci.

  — D'accordo, ma se non mi contatterai entro ventiquattr'ore, mi occuperò di questa storia a modo mio. — Harry gli lasciò an­dare la giacca, e Brian Lack barcollò all'indietro.

  — Farò il possibile, ma le cose sono cambiate, adesso — disse, sistemandosi i capelli. — È una faccenda grossa, più grossa di quanto immagini. Ci sono dentro. Ho visto quello che possono fare.

  Harry osservò Brian che sgattaiolava dall'entrata del negozio e si allontanava svelto. Chissà se la fedeltà di Brian verso Willie si sarebbe rivelata più forte della sua fedeltà nei confronti dei nuo­vi proprietari della Instant Image? si domandò. Tornando alla macchina, cercò di collegare la serie di avvenimenti. Non sapeva perché alla odel interessasse tanto quella piccola azienda, però si erano dimostrati disposti a tutto pur di averla. Avevano ricat­tato Brian, assicurandosi la sua complicità, e con Brian dalla loro parte avevano offerto ai soci una fortuna perché vendessero. Willie e Beth avevano accettato in teoria. Gli avvocati avevano stilato i contratti. Tutto stava procedendo senza intoppi, quan­do...

  Cosa? Cos'era successo? Perché avevano cambiato idea, an­che a costo di mettere a repentaglio la propria vita? Harry sape­va che se non avesse trovato presto la risposta, forse non sarebbe più rimasto vivo nessuno in grado di fornirgliela.

  Un'occhiata ai lineamenti pallidi, severi della caposala, e John May si rese conto che non avrebbe ammesso ingerenze da parte della polizia. Dall'atteggiamento arcigno della mascella, si intui­va che gli avrebbe concesso lo stesso tempo che avrebbe conces­so a qualsiasi altro estraneo che avesse tentato di entrare. Il re­parto era stato preavvertito della visita di May, ma l'infermiera si era rifiutata di assumersi la responsabilità di un colloquio.

  — Non si tratta solo delle condizioni fisiche di Mark — spiegò a May. — Le ustioni sono molto traumatiche. Lo stato mentale del paziente può risentirne parecchio. Adesso Mark sta reagen­do abbastanza bene, ma io non voglio che quell'equilibrio venga turbato in alcun modo. E poi, non è ancora in grado di parlare. Le esalazioni che ha inspirato gli hanno provocato un grave ede­ma alle mucose dell'apparato respiratorio. Le sue vie respirato­rie secernono pus.

  — E le condizioni della pelle? — May sapeva che in presenza di ustioni di terzo grado, la perdita conseguente di liquido orga­nico avrebbe potuto causare uno shock circolatorio fatale.

  — Abbiamo deciso di asportare le vescicazioni più gravi, e in seguito dovremo eseguire degli autotrapianti, ma siamo riusciti a minimizzare il rischio di infezione. Senza anestetici, Mark soffrirebbe in modo atroce.

  — Non potrei vederlo solo un minuto? — May indicò la cartel­la che aveva in mano. — La sua testimonianza è essenziale per il proseguimento di questa indagine.

  — Temo proprio di no. Mark è in terapia intensiva. Lo stiamo curando con la neosporina. — Questo avrebbe permesso alle ustioni di coprirsi di croste e scomparire, ma il paziente sarebbe stato esposto al rischio di infezioni batteriche. Quindi May non avrebbe potuto chiedergli nulla finché quel pericolo non fosse cessato.

  — È ovvio che non intendo compromettere la guarigione del ragazzo, infermiera. — May le porse un bigliettino. — Se vuole essere così gentile da chiamarmi non appena sarà in grado, a suo avviso, di rispondere a qualche domanda...

  Come un uccello che difende il proprio nido, la caposala di­ventò più cordiale quando si rese conto di essere riuscita a pro­teggere il paziente. Accompagnando il detective in fondo al cor­ridoio, gli promise che avrebbe telefonato non appena le condi­zioni del ragazzo fossero migliorate abbastanza. May si girò ver­so di lei mentre spingeva la porta oscillante.

  — Voglio farle presente una cosa, prima di andarmene, infer­miera — disse. — È probabile che il giovane Mark abbia identifi­cato il suo aggressore. È stato trovato nello scantinato del nego­zio, dove è iniziato l'incendio. Deve avere assistito a tutto da vi­cino. Una parola di Mark, e potremmo catturare l'incendiario... una persona disposta a lasciarlo morire tra le fiamme. — S'inter­ruppe un istante, perché le sue parole sortissero appieno l'effetto desiderato. — Ora, parlando per esperienza, il dolore che si pro­va ricordando un evento traumatico a volte può essere compen­sato della soddisfazione di vedere assicurare alla giustizia un cri­minale. In questo caso, credo che valga la pena di correre questo rischio con il paziente. La prego, mi chiami.

  Nell'atrio del reparto ustionati si riunì al sergente Longbright, che aveva raccolto una deposizione ufficiale da uno dei dottori. Janice aveva ancora in mano il pacco che May le aveva affidato prima di entrare nel reparto.

  — Niente da fare — disse May. — Il nostro testimone non è ancora disponibile. Quello puoi darmelo, adesso. — E riprese il pacchetto colorato.

  Mentre lasciavano l'ospedale, ricominciò a piovere forte. La rotonda di Hammersmith, come prevedibile, era intasata.

  — Guarda che tempo — si lamentò May. — È come vivere sottacqua. Se è questo l'effetto serra, sono molto deluso. Com'è andata con gli stampatori di copertine?

  — È arrivata la maggior parte delle risposte — disse Janice. — Nessuno di loro ricorda un'ordinazione d
i Dell. Comunque, le copertine non sono commissionate dai punti di vendita. Proven­gono dal reparto videgcassette delle compagnie di distribuzione cinematografica, che appaltano il lavoro a piccoli laboratori.

  — Dunque, il pezzo di carta che Dell aveva in mano proveniva da una compagnia cinematografica — disse May, mentre si insi­nuavano tra i veicoli bloccati in King Street, diretti alla stazione del metro. — Continueremo a seguire questa pista dopo il weekend. Adesso abbiamo meno di mezz'ora per arrivare al Gog e Magog.

  — Cos'è quello?

  — Consegna espresso. — May battè con la mano sul pacco, al­zandolo. — Abbiamo un appuntamento con Arthur.

  Fitzrovia era il nome dato verso l'inizio della Seconda guerra mondiale all'area compresa tra Oxford Street e Euston Road, e delimitata dalle facciate vittoriane annerite di Gower Street a est, e dall'ampia Great Portland Street a ovest.

  Ospitava il fuso di vetro della Telecom Tower, una simpatica piazza pedonalizzata chiamata Fitzroy Square che portava il no­me del figlio di Carlo II, e abitata da decenni da parecchi artisti e scrittori squattrinati. A breve distanza dalla casa occupata un tempo da Bernard Shaw, c'era il curioso ristorante inglese Gog e Magog. Il nome derivava dalle statue dei giganti guerrieri che avevano adornato il palazzo municipale della City di Londra fino all'epoca del Bombardamento. Il ristorante era pieno di riprodu­zioni di antiche stampe che raffiguravano i suoi omonimi in bat­taglia. Il menu offriva una varietà sbalorditiva di vecchi piatti in­glesi. Nell'aria c'era un profumo di erbe aromatiche e di spezie usate di rado dopo il periodo edoardiano. Tutte cose molto gra­dite da Bryant, se non da May. Avevano deciso di incontrarsi lì in quel sabato piovoso all'ora di pranzo non per qualche motivo attinente alle indagini, bensì perché era il compleanno di Bryant.

  — Dovevo immaginarlo che avreste tardato. — Bryant alzò lo sguardo dal giornale mentre May e la Longbright varcavano la soglia. Sfoggiava una voluminosa giacca marrone che aveva tutta l'aria di essere stata indossata l'ultima volta durante il regno di Giorgio V. — Sembrate due pulcini bagnati. Io sto sfidando il tempo con un'abbondante dose di whisky di malto. Vi consiglio di fare altrettanto. — Chiamò il cameriere con un cenno, mentre i colleghi si sedevano.

  — Salute — disse May, alzando il bicchiere alcuni minuti do­po. — Brindiamo a questo tuo sessantaset...

  — Basta parlare dell'età — sbottò Bryant. — È un argomento troppo sopravvalutato. Cosa mi hai comprato? — Indicò il pac­chetto accanto alla sedia di Janice.

  — Meglio che gli passi il regalo, Janice. Può darsi che lo renda un po' meno intrattabile. — May osservò il collega che tagliava la carta con un coltello da carne ed estraeva la stampa incornicia­ta, attento come un archeologo che stesse sballando un prezioso reperto funerario.

  — Perbacco, amico mio, è una meraviglia — disse Bryant, sin­ceramente commosso. — Dove l'hai trovata? — Mostrò il regalo a Janice, che emise un'esclamazione e annuì ammirata. La stampa, un acquerello intitolato Over the Moon, raffigurava una pa­rata di personaggi delle opere di Gilbert e Sullivan.

  — Se te lo dicessi, andresti là e spenderesti una fortuna.

  — Meglio farlo adesso che aspettare il prossimo anno, quando sarò un modesto pensionato statale.

  — Sciocchezze, Arthur. Tra cinque anni farai ancora parte del corpo di polizia, e lo sai. — Ci fu una pausa imbarazzante nella conversazione. May rivolse a Janice un sorriso incerto e osservò il menu, incapace di alzare gli occhi verso il collega.

  — Purtroppo, ho già presentato la domanda, John.

  — Cosa? — Il sorriso svanì dal viso di May. — Quando?

  — Oggi. Mi ero ripromesso di inoltrare ufficialmente la richie­sta di pensionamento il giorno del mio compleanno.

  — Ma stiamo lavorando a un caso! — May alzò la voce. — Non puoi piantarmi in asso proprio adesso.

  — Calmati. Chi ha detto che ti pianterò in asso? Porterò a ter­mine l'indagine prima di ritirarmi. Non rovinarmi il compleanno. Ordina una bottiglia di vino decente e slacciati il colletto della camicia. Sei tutto rosso in faccia. — Bryant richiamò l'attenzione di Janice sul menu. — Devi assaggiare il pasticcio di selvaggina, e per dessert fanno delle cosette deliziose coi fichi. È tutta roba micidiale per le coronarie e squisita per il palato.

  Durante il pasto, May tentò di convincere l'amico a desistere dai suoi propositi di abbandono, e nella discussione ebbe l'ap­poggio del sergente. Janice Longbright era convinta che senza Bryant e May nel dipartimento la sua promozione al grado di ispettore sarebbe stata molto meno probabile. Anche se i colle­ghi non avevano dubbi sulle sue capacità, il loro rancore per la sua lunga relazione col capo l'avrebbe sicuramente danneggiata. Bryant, però, non si lasciò dissuadere.

  — Si arriva a un punto in cui tutti i delitti cominciano a sem­brare uguali, e non ci si occupa più del crimine con l'entusiasmo di un tempo — spiegò, agitando piano il brandy nel bicchiere. — La mentalità criminale ha perso la sua originalità, ma non la sua cattiveria. C'è un'uniformità deprimente che caratterizza il tra­sgressore moderno. Tanta crudeltà gratuita, quasi sempre identi­ca. Commettendo atti violenti e vandalici, i ragazzi credono di attaccare lo statu quo, invece così entrano a far parte proprio di quello. Non ci sono più delitti passionali, solo atti astiosi e igno­ranti. È ora che io me ne vada.

  — Arthur, da quando ti conosco, hai sempre avuto la massima ammirazione per l'individualità. Ci hai sempre fatto assegnare i casi strambi, i problemi bizzarri di cui nessun altro voleva occu­parsi. Ricordi il modo straordinario in cui tu e Hargreave avete risolto il caso degli omicidi del Savoy? Ricordi che per poco non sei rimasto ucciso?

  — Ah, il Savoy — disse Bryant, assaporando il brandy. — Il mio albergo preferito. Sai, mi lasciano ancora alloggiare là gratis, in segno di riconoscenza. È un'istituzione, è unico.

  — Come te, Arthur.

  — Hmmm, non so se posso considerarlo un complimento. — Bryant estrasse l'orologio dal taschino. — È più tardi di quel che pensavo. Ho un appuntamento a Londra sud tra un'ora. Altre ri­cerche relative all'indagine Dell, tanto per dimostrarti che non ho ancora gettato la spugna. — Prese la stampa e la infilò nel so­prabito. — Uno splendido regalo, e un pranzo molto piacevole.

  — Immagino che non porterai il tuo cercapersone durante il weekend, eh? — chiese May.

  — No, temo proprio di no — confermò allegro Bryant. — L'ho messo in qualche posto adatto e adesso non riesco a trovar­lo. Forse è nella lavatrice. Posso darvi un passaggio?

  — No, grazie. — May rabbrividì all'idea. — Posso andare al commissariato in autobus.

  — Torni là oggi pomeriggio? — domandò Janice, sorpresa. May non parlava mai della sua vita domestica. Forse perché, co­me molti detective attaccati al lavoro, non ne aveva una.

  — Allora, ciao — disse Bryant. — Se qualcuno ha bisogno di me, lunedì, sarò in biblioteca a scoprire come si evocano i de­moni. — Il cappello floscio che si era lasciato cadere in testa gli copriva quasi le orecchie.

  Il sergente lanciò un'occhiata perplessa a May. — Come pensi di riuscirci? — chiese a Bryant, aprendo la porta del ristorante e accingendosi a uscire sotto la pioggia fitta.

  — Valendomi dell'aiuto di una donna notevole — rispose lui, con uno scintillio enigmatico negli occhi. — Mentre i vostri pro­grammi computerizzati si occuperanno di minuzie, io entrerò nel regno del soprannaturale.

  May sospirò. — Via, Arthur, non c'è bisogno di essere così teatrale. Abbiamo già abbastanza problemi senza tirare in ballo il mondo degli spiriti.

  — La scienza medico-legale non ci sarà di grande aiuto questa volta, John. — Bryant si allontanò dal tendone del ristorante, abbassando la tesa del cappello. — Ho deciso di consultare un esperto di un campo molto meno rispettato.

  — Chi sarebbe?

  — Uno dei massimi esperti di psicologia paranormale del pae­se, anche se lei forse non se ne rende conto. Forse ti ricordi di lei. Una certa Dorothy Huxley. Be', vi saluto.

  — Non credi che stia uscend
o un po' troppo dal seminato? — chiese Janice, mentre osservavano Bryant che passava sotto i ra­mi gocciolanti delle querce sul lato opposto della piazza.

  May si grattò il mento, pensieroso. — Non so. Abbiamo sem­pre lavorato così, io a spulciare pile di scartoffie, e lui a seguire i presentimenti strampalati.

  — E funziona?

  — Ha sempre funzionato in passato. Le migliori scoperte si fanno nelle équipe dove i membri compensano a vicenda le ri­spettive deficienze. Io sono il realista — disse May, con una certa mestizia. — Lui è il sognatore.

  27

  Harry e Grace

  Il sabato sera iniziò con Grace che cercava invano di farsi riceve­re da Harry citofonandogli.

  Quando si rese conto che Grace, come aveva promesso, era disposta a passare la notte davanti alla sua porta, Harry la fece entrare, a patto che se ne andasse entro dieci minuti esatti. L'o­stilità di Harry nei confronti della ragazza era dettata dalla pau­ra. Hilary aveva accettato un incontro riconciliatorio, e sarebbe arrivata da lui alle sette e mezzo in punto. Adesso erano le sette e un minuto. Harry calcolò che dopo la partenza di Grace ci sa­rebbero voluti venti minuti per liberare le stanze dal suo profu­mo gradevole ma persistente, quindi potevano parlare per dieci minuti, anzi nove. Quando lui aprì la porta, Grace per poco non ruzzolò nell'appartamento, poi si spostò rapidamente da una stanza all'altra e si guardò attorno spalancando gli occhioni, con un'espressione sempre più inorridita.

  — È proprio casa tua, o ti hanno lasciato in custodia l'arreda­mento di un quiz televisivo? — gli chiese.

  — Non puoi fermarti — disse brusco Harry. — Sta arrivando Hilary, ed è la mia ultima occasione per aggiustare le cose con lei.

  — E l'altra sera al ristorante... quello che è successo in un an­golino romantico della toilette delle signore, non conta nulla? — Grace gli lanciò uno sguardo di sfida e si diresse verso la cucina.

  — Ah, hai una Gaggia, c'era da aspettarselo.

 

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