Al quale poi che egli fu davanti, ed ogni cosa per ordine déttagli, porse prieghi che in luogo di somma grazia via il lasciasse andare, per ciò che infino che in Firenze non fosse sempre gli parrebbe il capestro aver nella gola. Il signore fece grandissime risa di cosí fatto accidente, e fatta donare una roba per uomo, oltre alla speranza di tutti e tre di cosí gran pericolo usciti, sani e salvi se ne tornarono a casa loro.
Novella seconda
II
RINALDO D’ASTI, RUBATO, capita a Castel Guiglielmo ed è albergato da una donna vedova; e de’ suoi danni ristorato, sano e salvo si torna a casa sua.
Degli accidenti di Martellino da Neifile raccontati senza modo risero le donne, e massimamente tra’ giovani Filostrato, al quale, per ciò che appresso di Neifile sedea, comandò la reina che novellando la seguitasse; il quale senza indugio alcuno incominciò:
Belle donne, a raccontarsi mi tira una novella di cose catoliche e di sciagure e d’amore in parte mescolata, la quale per avventura non fia altro che utile avere udita, e spezialmente a coloro li quali per li dubbiosi paesi d’amore sono camminanti, ne’ quali chi non ha detto il paternostro di san Giuliano spesse volte, ancora che abbia buon letto, alberga male.
Era adunque, al tempo del marchese Azzo da Ferrara, un mercatante chiamato Rinaldo d’Asti per sue bisogne venuto a Bologna; le quali avendo fornite ed a casa tornandosi, avvenne che, uscito di Ferrara e cavalcando verso Verona, s’abbatté in alcuni li quali mercatanti parevano, ed erano masnadieri ed uomini di malvagia vita e condizione; con li quali ragionando incautamente s’accompagnò. Costoro, veggendol mercatante ed estimando lui dovere portar denari, seco diliberarono, come prima tempo si vedessero, di rubarlo: e per ciò, acciò che egli niuna suspizion prendesse, come uomini modesti e di buona condizione, pure d’oneste cose e di lealtá andavano con lui favellando, rendendosi in ciò che potevano e sapevano umili e benigni verso di lui; per che egli l’avergli trovati si reputava in gran ventura, per ciò che solo era con un suo fante a cavallo. E cosí camminando, d’una cosa in altra come ne’ ragionamenti addivien trapassando, caddero in sul ragionare dell’orazioni che gli uomini fanno a Dio, e l’uno de’ masnadieri, che eran tre, disse verso Rinaldo: — E voi, gentile uomo, che orazione usate di dir camminando? — Al quale Rinaldo rispose: — Nel vero io sono uomo di queste cose materiale e rozzo, e poche orazioni ho per le mani, sí come colui che mi vivo all’antica e lascio correr due soldi per ventiquattro denari: ma nondimeno ho sempre avuto in costume, camminando, di dir la mattina, quando esco dell’albergo, un paternostro ed un’avemaria per l’anima del padre e della madre di san Giuliano, dopo il quale io priego Iddio e lui che la seguente notte mi deano buono albergo. Ed assai volte giá de’ miei di sono stato, camminando, in gran pericoli, de’ quali tutti scampato, pur sono la notte poi stato in buon luogo e bene albergato; per che io porto ferma credenza che san Giuliano, a cui onore io il dico, m’abbia questa grazia impetrata da Dio: né mi parrebbe il di bene potere andare né dovere la notte vegnente bene arrivare, che io non l’avessi la mattina detto. — A cui colui che domandato l’avea, disse: — Ed istamane dicestel voi? — A cui Rinaldo rispose: — Sí bene. — Allora quegli, che giá sapeva come andar doveva il fatto, disse seco medesimo: — Al bisogno ti fia venuto, ché, se fallito non ci viene, per mio avviso, tu albergherai pur male. — E poi gli disse: — Io similemente ho giá molto camminato e mai nol dissi, quantunque io l’abbia a molti molto udito giá commendare, né giá mai non m’avvenne che io per ciò altro che bene albergassi; e questa sera per avventura ve ne potrete avvedere chi meglio albergherá, o voi che detto l’avete o io che non l’ho detto. Bene è il vero che io uso in luogo di quello il Dirupisti o la ‘ntemerata o il De profundis, che sono, secondo che una mia avola mi solea dire, di grandissima vertú. — E cosí di varie cose parlando ed al lor cammin procedendo, ed aspettando luogo e tempo al lor malvagio proponimento, avvenne che, essendo giá tardi, di lá da Castel Guiglielmo, al valicar d’un fiume questi tre, veggendo l’ora tarda ed il luogo solitario e chiuso, assalitolo, il rubarono, e lui a piè ed in camiscia lasciato, partendosi dissero: — Va’ e sappi se il tuo san Giuliano questa notte ti dará buono albergo, ché il nostro il dará bene a noi. — E valicato il fiume andaron via. Il fante di Rinaldo, veggendolo assalire, come cattivo, niuna cosa al suo aiuto adoperò, ma vòlto il cavallo sopra il quale era, non si ritenne di correre sí fu a Castel Guiglielmo, ed in quello, essendo giá sera, entrato, senza darsi altro impaccio albergò. Rinaldo, rimaso in camiscia e scalzo, essendo il freddo grande e nevicando tuttavia forte, non sappiendo che farsi, veggendo giá sopravvenuta la notte, tremando e battendo i denti, cominciò a riguardare se da torno alcun ricetto si vedesse dove la notte potesse stare che non si morisse di freddo: ma niun veggendone, per ciò che poco davanti, essendo stata guerra nella contrada, v’era ogni cosa arsa, sospinto dalla freddura, trottando si dirizzò verso Castel Guiglielmo, non sappiendo per ciò che il suo fante lá o altrove si fosse fuggito, pensando, se dentro entrarvi potesse, qualche soccorso gli manderebbe Iddio. Ma la notte oscura il soprapprese di lungi dal castello presso ad un miglio, per la qual cosa sí tardi vi giunse, che, essendo le porti serrate ed i ponti levati, entrar non vi poté dentro. Laonde, dolente ed isconsolato piagnendo, guardava dintorno dove porre si potesse che almeno addosso non gli nevicasse: e per ventura vide una casa sopra le mura del castello sportata alquanto in fuori, sotto il quale sporto diliberò d’andarsi a stare infino al giorno; e lá andatosene e sotto quello sporto trovato uno uscio, come che serrato fosse, a piè di quello ragunato alquanto di pagliericcio che vicin v’era, tristo e dolente si pose a stare, spesse volte dolendosi a san Giuliano, dicendo, questo non essere della fede che aveva in lui. Ma san Giuliano, avendo a lui riguardo, senza troppo indugio gli apparecchiò buono albergo. Egli era in questo castello una donna vedova, del corpo bellissima quanto alcuna altra, la quale il marchese Azzo amava quanto la vita sua, e quivi ad istanza di sé la facea stare: e dimorava la predetta donna in quella casa, sotto lo sporto della quale Rinaldo s’era andato a dimorare. Ed era il dí dinanzi per ventura il marchese quivi venuto per doversi la notte giacere con essolei, ed in casa di lei medesima tacitamente aveva fatto fare un bagno, e nobilmente da cena: ed essendo ogni cosa presta, e niuna altra cosa che la venuta del marchese era da lei aspettata, avvenne che un fante giunse alla porta, il quale recò novelle al marchese per le quali a lui subitamente cavalcar convenne; per la qual cosa, mandato a dire alla donna che non l’attendesse, prestamente andò via. Onde la donna, un poco sconsolata, non sappiendo che farsi, diliberò d’entrare nel bagno fatto per lo marchese e poi cenare ed andarsi a letto; e cosí nel bagno se n’entrò. Era questo bagno vicino all’uscio dove il meschino Rinaldo s’era accostato fuori della terra; per che, stando la donna nel bagno, sentì il pianto ed il triemito che Rinaldo faceva, il quale pareva diventato una cicogna. Laonde, chiamata la sua fante, le disse: - Va’ su e guarda fuori del muro a piè di questo uscio chi v’è, e chi egli è e quel ch’el vi fa. — La fante andò, ed aiutandola la chiaritá dell’aere, vide costui in camiscia e scalzo quivi sedersi, come detto è, tremando forte; per che ella il domandò chi el fosse. E Rinaldo, sí forte tremando, che appena poteva le parole formare, chi el fosse e come e perché quivi, quanto piú brieve poté le disse, e poi pietosamente la cominciò a pregare che, se esser potesse, quivi non lo lasciasse di freddo la notte morire. La fante, divenutane pietosa, tornò alla donna ed ogni cosa le disse; la qual similmente pietá avendone, ricordatasi che di quello uscio aveva la chiave, il quale alcuna volta serviva alle occulte entrate del marchese, disse: — Va’ e pianamente gli apri; qui è questa cena e non saria chi mangiarla, e da poterlo albergar c’è assai. — La fante, di questa umanitá avendo molto commendata la donna, andò e sí gli aperse; e dentro messolo, quasi assiderato veggendolo, gli disse la donna: — Tosto, buono uomo, entra in quel bagno, il quale ancora è caldo. — Ed egli questo, senza piú inviti aspettare, di voglia fece, e tutto dalla caldezza di quello riconfortato, da morte a vita gli parve esser tornato. La donna gli fece appres
tare panni stati del marito di lei, poco tempo davanti morto, li quali come vestiti s’ebbe, a suo dosso fatti parevano: ed aspettando quello che la donna gii comandasse, incominciò a ringraziare Iddio e san Giuliano che di sí malvagia notte, come egli aspettava, l’avevano liberato ed a buono albergo, per quello che gli pareva, condotto. Appresso questo, la donna alquanto riposatasi, avendo fatto fare un grandissimo fuoco in una sua camminata, in quella se ne venne e del buono uomo domandò che ne fosse. A cui la fante rispose: — Madonna, egli s’è rivestito, ed è un bello uomo e pare persona molto da bene e costumato. — Va’ dunque, — disse la donna — e chiamalo, e digli che qua se ne venga al fuoco si cenerá, ché so che cenato non ha. — Rinaldo nella camminata entrato, e veggendo la donna e da molto parendogli, reverentemente la salutò e quelle grazie le quali seppe maggiori del beneficio fattogli le rendè. La donna, vedutolo ed uditolo, e parendole quello che la fante dicea, lietamente il ricevette e seco al fuoco famigliarmente il fe’ sedere e dell’accidente che quivi condotto l’avea il domandò; alla quale Rinaldo per ordine ogni cosa narrò. Aveva la donna, nel venire del fante di Rinaldo nel castello, di questo alcuna cosa sentita; per che ella ciò che da lui era detto interamente credette, e sí gli disse ciò che del suo fante sapea e come leggermente la mattina appresso ritrovare il potrebbe. Ma poi che la tavola fu messa, come la donna volle, Rinaldo con lei insieme, le mani lavatesi, si pose a cenare. Egli era grande della persona, e bello e piacevole nel viso e di maniere assai laudevoli e graziose, e giovane di mezza etá; al quale la donna avendo piú volte posto l’occhio addosso e molto commendatolo, e giá, per lo marchese che con lei doveva venire a giacersi, il concupiscibile appetito avendo desto, nella niente ricevuto l’avea: e dopo la cena, da tavola levatasi, con la sua fante si consigliò se ben fatto le paresse che ella, poi che il marchese beffata l’avea, usasse quel bene che innanzi l’aveva la fortuna mandato. La fante, conoscendo il disidèro della sua donna, quanto poté e seppe a seguirlo la confortò; per che la donna, al fuoco tornatasi dove Rinaldo solo lasciato aveva, cominciatolo amorosamente a guardare, gli disse: — Deh! Rinaldo, perché state voi così pensoso? Non credete voi potere essere ristorato d’un cavallo e d’alquanti panni che voi abbiate perduti? Confortatevi, state lietamente; voi siete in casa vostra, anzi vi voglio dir piú avanti: che, veggendovi cotesti panni indosso, li quali del mio morto marito furono, parendomi voi pur desso, m’è venuta stasera forse cento volte voglia d’abbracciarvi e di basciarvi, e s’io non avessi temuto che dispiaciuto vi fosse, per certo io l’avrei fatto. — Rinaldo, queste parole udendo ed il lampeggiar degli occhi della donna veggendo, come colui che mentecatto non era, fattolesi incontro con le braccia aperte, disse: — Madonna, pensando che io per voi possa omai sempre dire che io sia vivo, a quello guardando donde tôrre mi faceste, gran villania sarebbe la mia se io ogni cosa che a grado vi fosse non m’ingegnassi di fare: e però contentate il piacer vostro d’abbracciarmi e di basciarmi, ché io abbraccerò e bascerò voi vie piú che volentieri. — Oltre a queste non bisognár piú parole: la donna, che tutta d’amoroso disio ardeva, prestamente gli si gittò nelle braccia; e poi che mille volte, disiderosamente strignendolo, basciato l’ebbe ed altrettante da lui fu basciata, levarsi di quindi, nella camera se n’andarono, e senza niuno indugio coricatisi, pienamente e molte volte, anzi che il giorno venisse, i lor disii adempierono. Ma poi che ad apparir cominciò l’aurora, sí come alla donna piacque, levatisi, acciò che questa cosa non si potesse presummere per alcuno, datigli alcuni panni assai cattivi ed empiutagli la borsa di denari, pregandolo che questo tenesse celato, avendogli prima mostrato che via tener dovesse a venir dentro a ritrovare il fante suo, per quello usciuolo onde era entrato il mise fuori. Egli, fatto dí chiaro, mostrando di venire di piú lontano, aperte le porti, entrò nel castello e ritrovò il suo fante; per che, rivestitosi de’ panni suoi che nella valigia erano, e volendo montare in sul cavallo del fante, quasi per divino miracolo addivenne che li tre masnadieri che la sera davanti rubato l’aveano, per altro maleficio da lor fatto poco poi appresso presi, furono in quel castel menati, e per confessione da loro medesimi fatta, gli fu restituito il suo cavallo, i panni ed i denari, né ne perdé altro che un paio di cintolini de’ quali non sapevano i masnadieri che fatto se n’avessero. Per la qual cosa Rinaldo, Iddio e san Giulian ringraziando, montò a cavallo, e sano e salvo ritornò a casa sua; ed i tre masnadieri il di seguente andarono a dare de’ calci a rovaio.
Novella terza
[III]
TRE GIOVANI, MALE il loro avere spendendo, impoveriscono; de’ quali un nepote con uno abate accontatosi, tornandosi a casa per disperato, lui truova essere la figliuola del re d’Inghilterra, la quale lui per marito prende e de’ suoi zii ogni danno ristora, tornandogli in buono stato.
Furono con ammirazione ascoltati i casi di Rinaldo d’Asti dalle donne e da’ giovani, e la sua divozion commendata, ed Iddio e san Giuliano ringraziati che al suo bisogno maggiore gli avevano prestato soccorso; né fu per ciò, quantunque cotal mezzo di nascoso si dicesse, la donna reputata sciocca, che saputo aveva pigliare il bene che Iddio a casa l’aveva mandato. E mentre che della buona notte che colei ebbe sogghignando si ragionava, Pampinea, che sé allato allato a Filostrato vedea, avvisando, sí come avvenne, che a lei la volta dovesse toccare, in se stessa recatasi, quel che dovesse dire cominciò a pensare, e dopo il comandamento della reina, non meno ardita che lieta, cosí cominciò a parlare:
Valorose donne, quanto piú si parla de’ fatti della fortuna, tanto piú, a chi vuole le sue cose ben riguardare, ne resta a poter dire; e di ciò niuno dèe aver maraviglia, se discretamente pensa che tutte le cose, le quali noi scioccamente nostre chiamiamo, sieno nelle sue mani, e per conseguente da lei secondo il suo occulto giudicio, senza alcuna posa, d’uno in altro e d’altro in uno successivamente, senza alcuno conosciuto ordine da noi, esser da lei permutate. Il che, quantunque con piena fede in ogni cosa e tutto il giorno si mostri, ed ancora in alcune novelle di sopra mostrato sia, nondimeno, piacendo alla nostra reina che sopra ciò si favelli, forse non senza utilitá degli ascoltanti aggiugnerò alle dette una mia novella, la quale avviso dovrá piacere.
Fu giá nella nostra cittá un cavaliere il cui nome fu messer Tebaldo, il quale, secondo che alcuni vogliono, fu de’ Lamberti, ed altri affermano lui essere stato degli Agolanti, forse piú dal mestier de’ figliuoli di lui poscia fatto, conforme a quello che sempre gli Agolanti hanno fatto e fanno, prendendo argomento che da altro. Ma lasciando stare di quale delle due case si fosse, dico che esso fu ne’ suoi tempi ricchissimo cavaliere, ed ebbe tre figliuoli, de’ quali il primo ebbe nome Lamberto, il secondo Tedaldo ed il terzo Agolante, giá belli e leggiadri giovani, quantunque il maggiore a diciotto anni non aggiugnesse, quando esso messer Tebaldo ricchissimo venne a morte, ed a loro sí come a legittimi suoi eredi ogni suo bene e mobile e stabile lasciò. Li quali, veggendosi rimasi ricchissimi e di contanti e di possessioni, senza alcuno altro governo che del loro medesimo piacere, senza alcun freno o ritegno cominciarono a spendere, tenendo grandissima famiglia e molti e buoni cavalli e cani ed uccelli e continuamente corte, donando ed armeggiando e faccendo ciò non solamente che a gentili uomini s’appartiene, ma ancor quello che nell’appetito loro giovenile cadeva di voler fare. Né lungamente fecero cotal vita, ché il tesoro lasciato loro dal padre venne meno: e non bastando alle cominciate spese solamente le loro rendite, cominciarono ad impegnare ed a vendere le possessioni; ed oggi l’una e doman l’altra vendendo, appena s’avvidero, che quasi niente venuti furono, ed aperse loro gli occhi la povertá, li quali la ricchezza aveva tenuti chiusi. Per la qual cosa Lamberto, chiamati un giorno gli altri due, disse loro qual fosse l’orrevolezza del padre stata e quanta la loro, e quale la loro ricchezza e chente la povertá nella quale per lo disordinato loro spendere eran venuti: e come seppe il meglio, avanti che piú della loro miseria apparisse, gli confortò con lui insieme a vendere quel poco che rimaso era loro ed andarsene via; e cosí fecero. E senza commiato chiedere o fare alcuna pompa, di Firenze usciti, non si ritennero sí furono in Inghilterra
, e quivi, presa in Londra una casetta, faccendo sottilissime spese, agramente cominciarono a prestare ad usura: e sí fu in questo loro favorevole la fortuna, che in pochi anni grandissima quantitá di denari avanzarono. Per la qual cosa con quegli, successivamente or l’uno or l’altro a Firenze tornandosi, gran parte delle loro possessioni ricomperarono e molte dell’altre comperar sopra quelle, e presero moglie; e continuamente in Inghilterra prestando, ad attendere a’ fatti loro un giovane lor nepote che avea nome Alessandro mandarono, ed essi tutti e tre a Firenze, avendo dimenticato a qual partito gli avesse lo sconcio spendere altra volta recati, nonostante che in famiglia tutti venuti fossero, piú che mai strabocchevolmente spendeano ed erano sommamente creduti da ogni mercatante e d’ogni gran quantitá di denari. Le quali spese alquanti anni aiutò lor sostenere la moneta da Alessandro lor mandata, il quale messo s’era in prestare a baroni sopra castella ed altre loro entrate, le quali da gran vantaggio bene gli rispondeano. E mentre cosí i tre fratelli largamente spendeano e mancando denari accattavano, avendo sempre la speranza ferma in Inghilterra, avvenne che, contra l’oppinion d’ogni uomo, nacque in Inghilterra una guerra tra il re ed un suo figliuolo, per la quale tutta l’isola si divise, e chi tenea con l’uno e chi con l’altro; per la qual cosa furono tutte le castella de’ baroni tolte ad Alessandro, né alcuna altra rendita era che di niente gli rispondesse. E sperandosi che di giorno in giorno tra ‘l figliuolo ed il padre dovesse esser pace, e per conseguente ogni cosa restituita ad Alessandro, e merito e capitale, Alessandro dell’isola non si partiva, ed i tre fratelli che in Firenze erano in niuna cosa le loro spese grandissime limitavano, ogni giorno piú accattando. Ma poi che in piú anni niuno effetto seguir si vide alla speranza avuta, li tre fratelli non solamente la credenza perderono, ma volendo coloro che aver doveano esser pagati, furono subitamente presi, e non bastando al pagamento le lor possessioni, per lo rimanente rimasono in prigione, e le lor donne ed i figliuoli piccoletti qual se n’andò in contado e qual qua e qual lá assai poveramente in arnese, piú non sappiendo che aspettarsi dovessono, se non misera vita sempre. Alessandro, il quale in Inghilterra la pace piú anni aspettata avea, veggendo che ella non venia e parendogli quivi non meno in dubbio della vita sua che invano dimorare, diliberato di tornarsi in Italia, tutto soletto si mise in cammino. E per ventura, di Bruggia uscendo, vide n’usciva similmente uno abate bianco con molti monaci accompagnato e con molta famiglia e con gran salmeria avanti, al quale appresso venieno due cavalieri antichi e parenti del re, co’ quali, sí come con conoscenti, Alessandro accontatosi, da loro in compagnia fu volentieri ricevuto. Camminando adunque Alessandro con costoro, dolcemente gli domandò chi fossero monaci che con tanta famiglia cavalcavano avanti e dove andassono. Al quale l’un de’ cavalieri rispose: — Questi che avanti cavalca è un giovanetto nostro parente, nuovamente eletto abate d’una delle maggiori badie d’Inghilterra; e per ciò che egli è piú giovane che per le leggi non è conceduto a sì fatta dignitá, andiam noi con essolui a Roma ad impetrare dal santo padre che nel difetto della troppo giovane etá dispensi con lui, ed appresso nella dignitá il confermi: ma ciò non si vuol con altrui ragionare. — Camminando adunque il novello abate ora avanti ed ora appresso alla sua famiglia, sí come noi tutto il giorno veggiamo per cammino avvenir de’ signori, gli venne nel cammino presso di sé veduto Alessandro, il quale era giovane assai, di persona e di viso bellissimo, e quanto alcuno altro esser potesse, costumato e piacevole e di bella maniera; il quale maravigliosamente nella prima vista gli piacque quanto mai alcuna altra cosa gli fosse piaciuta, e chiamatolo a sé, con lui cominciò piacevolmente a ragionare e domandare chi fosse, donde venisse e dove andasse. Al quale Alessandro ogni suo stato liberamente aperse e sodisfece alla sua domanda, e sé ad ogni suo servigio, quantunque poco potesse, offerse. L’abate, udendo il suo ragionare bello ed ordinato, e piú partitamente i suoi costumi considerando, e lui seco estimando, come che il suo mestiere fosse stato servile, esser gentile uomo, piú del piacere di lui s’accese: e giá pieno di compassion divenuto delle sue sciagure, assai famigliarmente il confortò e gli disse che a buona speranza stesse, per ciò che, se valente uom fosse, ancora Iddio il riporrebbe lá onde la fortuna l’aveva gittato e piú ad alto; e pregollo che, poi verso Toscana andava, gli piacesse d’essere in sua compagnia, con ciò fosse cosa che esso lá similmente andasse. Alessandro gli rendè grazie del conforto, e sé ad ogni suo comandamento disse esser presto. Camminando adunque l’abate, al quale nuove cose si volgean per lo petto del veduto Alessandro, avvenne che dopo piú giorni essi pervennero ad una villa la quale non era troppo riccamente fornita d’alberghi; e volendo quivi l’abate albergare, Alessandro in casa d’uno oste il quale assai suo dimestico era il fece smontare, e fecegli la sua camera fare nel meno disagiato luogo della casa: e quasi giá divenuto un siniscalco dell’abate, sí come colui che molto era pratico, come il meglio si potè per la villa allogata tutta la sua famiglia, chi qua e chi lá, avendo l’abate cenato e giá essendo buona pezza di notte, ed ogni uomo andato a dormire, Alessandro domandò l’oste lá dove esso potesse dormire. Al quale l’oste rispose: — In veritá io non so: tu vedi che ogni cosa è pieno, e puoi veder me e la mia famiglia dormire su per le panche; tuttavia nella camera dell’abate son certi granai a’ quali io ti posso menare, e porrovvi suso alcun letticello, e quivi, se ti piace, come meglio puoi questa notte ti giaci. — A cui Alessandro disse: — Come andrò io nella camera dell’abate, che sai che è piccola, e per istrettezza non v’è potuto giacere alcun de’ suoi monaci? Se io mi fossi di ciò accorto quando le cortine si tesero, io avrei fatto dormire sopra i granai i monaci suoi, ed io mi sarei stato dove i monaci dormono. — Al quale l’oste disse: — L’opera sta pur così, e tu puoi, se tu vuogli, quivi stare il meglio del mondo; l’abate dorme, e le cortine son dinanzi; io vi ti porrò chetamente una coltricetta, e dòrmiviti. — Alessandro, veggendo che questo si potea fare senza dare alcuna noia all’abate, vi s’accordò, e quanto piú chetamente potè vi s’acconciò. L’abate, il quale non dormiva, anzi alli suoi nuovi disii fieramente pensava, udiva ciò che l’oste ed Alessandro parlavano, e similmente avea sentito dove Alessandro s’era a giacer messo; per che seco stesso, forte contento, cominciò a dire: — Iddio ha mandato tempo a’ miei disiri; se io nol prendo, per avventura simile a pezza non mi tornerá. — E diliberatosi del tutto di prenderlo, parendogli ogni cosa cheta per l’albergo, con sommessa voce chiamò Alessandro e gli disse che appresso lui si coricasse; il quale, dopo molte disdette spogliatosi, vi si coricò. L’abate, postagli la mano sopra il petto, lo ‘ncominciò a toccare non altramenti che sogliano fare le vaghe giovani i loro amanti; di che Alessandro si maravigliò forte, e dubitò non forse l’abate, da disonesto amor preso, si movesse a così fattamente toccarlo. La qual dubitazione, o per presunzione o per alcuno atto che Alessandro facesse, subitamente l’abate conobbe, e sorrise: e prestamente di dosso una camiscia, che avea, cacciatasi, prese la mano d’Alessandro e quella sopra il petto si pose, dicendo: — Alessandro, caccia via il tuo sciocco pensiero, e cercando qui, conosci quello che io nascondo. — Alessandro, posta la mano sopra il petto dell’abate, trovò due poppelline tonde e sode e dilicate, non altramenti che se d’avorio fossono state, le quali egli trovate e conosciuto tantosto, costei esser femina, senza altro invito aspettare, prestamente abbracciatala, la voleva basciare; quando ella gli disse: — Avanti che tu piú mi t’avvicini, attendi quello che io ti voglio dire. Come tu puoi conoscere, io son femina e non uomo; e pulcella partitami da casa mia, al papa andava che mi maritasse: o tua ventura o mia sciagura che sia, come l’altro dì ti vidi, sí di te m’accese Amore, che donna non fu mai che tanto amasse uomo, e per questo io ho diliberato di volere te avanti che alcuno altro per marito. Dove tu me per moglie non vogli, tantosto di qui ti diparti e nel tuo luogo ritorna. — Alessandro, quantunque non la conoscesse, avendo riguardo alla compagnia che ella avea, lei estimò dovere essere nobile e ricca, e bellissima la vedea; per che, senza troppo lungo pensiero, rispose che, se questo a lei piacea, a lui era molto a grado. Essa allora, levatasi a sedere i
n sul letto, davanti ad una tavoletta dove nostro Signore era effigiato, postogli in mano uno anello, gli si fece sposare, ed appresso insieme abbracciatisi, con gran piacere di ciascuna delle parti quanto di quella notte restava si sollazzarono. E preso tra loro modo ed ordine alli lor fatti, come il giorno venne, Alessandro, levatosi e per quindi della camera uscendo donde era entrato, senza sapere alcuno ove la notte dormito si fosse, lieto oltre misura, con l’abate e con sua compagnia rientrò in cammino, e dopo molte giornate pervennero a Roma. E quivi, poi che alcun di dimorati furono, l’abate con li due cavalieri e con Alessandro senza piú entrarono al papa, e fatta la debita reverenza, cosí cominciò l’abate a favellare: — Santo padre, sí come voi meglio che alcuno altro dovete sapere, ciascun che bene ed onestamente vuol vivere dèe, in quanto può, fuggire ogni cagione la quale ad altramenti fare il potesse conducere; il che acciò che io, che onestamente viver disidero, potessi compiutamente fare, nell’abito nel qual mi vedete fuggita segretamente con grandissima parte de’ tesori del re d’Inghilterra mio padre, il quale al re di Scozia, vecchissimo signore, essendo io giovane come voi mi vedete, mi voleva per moglie dare, per qui venire acciò che la vostra santitá mi maritasse, mi misi in via. Né mi fece tanto la vecchiezza del re di Scozia fuggire, quanto la paura di non fare, per la fragilitá della mia giovanezza, se a lui maritata fossi, cosa che fosse contra le divine leggi e contra l’onore del real sangue del padre mio. E cosí disposta venendo, Iddio, il quale solo ottimamente conosce ciò che fa mestiere a ciascuno, credo per la sua misericordia, colui che a lui piacea che mio marito fosse mi pose avanti agli occhi: e quel fu questo giovane — e mostrò Alessandro — il quale voi qui appresso di me vedete, li cui costumi ed il cui valore son degni di qualunque gran donna, quantunque forse la nobiltá del suo sangue non sia cosí chiara come è la reale. Lui ho adunque preso e lui voglio, né mai alcuno altro n’avrò, che che se ne debba parere al padre mio o ad altrui; per che la principal cagione per la quale mi mossi è tolta via: ma piacquemi di fornire il mio cammino sì per visitare li santi luoghi e reverendi, de’ quali questa cittá è piena, e la vostra santitá, e sí acciò che per voi il contratto matrimonio tra Alessandro e me solamente nella presenza di Dio io facessi aperto nella vostra e per conseguente degli altri uomini. Per che umilmente vi priego che quello che a Dio ed a me è piaciuto sia a grado a voi, e la vostra benedizion ne doniate, acciò che con quella, sí come con piú certezza del piacere di Colui del quale voi siete vicario, noi possiamo insieme, all’onore di Dio ed al vostro, vivere ed ultimamente morire. — Maravigliossi Alessandro udendo la moglie esser figliuola del re d’Inghilterra, e di mirabile allegrezza occulta fu ripieno: ma piú si maravigliarono li due cavalieri e sì si turbarono, che, se in altra parte che davanti al papa stati fossero, avrebbono ad Alessandro e forse alla donna fatta villania. D’altra parte, il papa si maravigliò assai e dell’abito della donna e della sua elezione: ma conoscendo che indietro tornare non si potea, le volle del suo priego sodisfare, e primieramente racconsolati i cavalieri, li quali turbati conoscea, ed in buona pace con la donna e con Alessandro rimessigli, diede ordine a quello che da far fosse. Ed il giorno posto da lui essendo venuto, davanti a tutti i cardinali e dimoiti altri gran valenti uomini, li quali invitati ad una grandissima festa da lui apparecchiata eran venuti, fece venire la donna realmente vestita, la quale tanto bella e sì piacevol parea, che meritamente da tutti era commendata, e simigliantemente Alessandro splendidamente vestito, in apparenza ed in costumi non miga giovane che ad usura avesse prestato, ma piú tosto reale, e da’ due cavalieri molto onorato; e quivi da capo fece solennemente le sponsalizie celebrare, ed appresso, le nozze belle e magnifiche fatte, con la sua benedizione gli licenziò. Piacque ad Alessandro e similmente alla donna, di Roma partendosi, di venire a Firenze, dove giá la fama aveva la novella recata: e quivi da’ cittadini con sommo onore ricevuti, fece la donna li tre fratelli liberare, avendo prima fatto ogni uom pagare, e loro e le lor donne rimise nelle loro possessioni. Per la qual cosa, con buona grazia di tutti, Alessandro con la sua donna, menandone seco Agolante, si partí di Firenze, ed a Parigi venuti, onorevolmente dal re ricevuti furono. Quindi andarono i due cavalieri in Inghilterra, e tanto col re adoperarono, che egli le rendè la grazia sua e con grandissima festa lei ed il suo genero ricevette, il quale egli poco appresso con grandissimo onore fe’ cavaliere, e donògli la contea di Cornovaglia. Il quale fu da tanto, e tanto seppe fare, che egli paceficò il figliuolo col padre, di che seguí gran bene all’isola, ed egli n’acquistò l’amore e la grazia di tutti i paesani, ed Agolante ricoverò tutto ciò che aver vi doveano interamente, e ricco oltre modo si tornò a Firenze, avendol prima il conte Alessandro cavalier fatto. Il conte poi con la sua donna gloriosamente visse, e secondo che alcuni voglion dire, tra col suo senno e valore e l’aiuto del suocero, egli conquistò poi la Scozia e funne re coronato.
Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 282