Fu in Pistoia nella famiglia de’ Vergellesi un cavaliere nominato messer Francesco, uomo molto ricco e savio ed avveduto per altro, ma avarissimo senza modo; il quale, dovendo andar podestá di Melano, d’ogni cosa opportuna a dovere onorevolmente andare fornito s’era, se non d’un pallafreno solamente che bello fosse per lui: né trovandone alcuno che gli piacesse, ne stava in pensiero. Era allora un giovane in Pistoia il cui nome era Ricciardo, di piccola nazione ma ricco molto, il quale sì ornato e sì pulito della persona andava, che generalmente da tutti era chiamato il Zima: ed avea lungo tempo amata e vagheggiata infelicemente la donna di messer Francesco, la quale era bellissima ed onesta molto. Ora, aveva costui un de’ piú belli pallafren di Toscana, ed avevalo molto caro per la sua bellezza; ed essendo ad ogni uom publico, lui vagheggiare la moglie di messer Francesco, fu chi gli disse che, se egli quello addomandasse, che egli l’avrebbe per l’amore il quale il Zima alla sua donna portava. Messer Francesco, da avarizia tirato, fattosi chiamare il Zima, in vendita gli domandò il suo pallafreno, acciò che il Zima gliele profferesse in dono. Il Zima, udendo ciò, gli piacque, e rispose al cavaliere: — Messer, se voi mi donaste ciò che voi avete al mondo, voi non potreste per via di vendita avere il mio pallafreno: ma in dono il potreste voi bene avere, quando vi piacesse, con questa condizione, che io, prima che voi il prendiate, possa, con la grazia vostra ed in vostra presenza, parlare alquante parole alla donna vostra tanto da ogni uom separato, che io da altrui che da lei udito non sia. — Il cavaliere, da avarizia tirato e sperando di dover beffar costui, rispose che gli piaceva, e quantunque egli volesse; e lui nella sala del suo palagio lasciato, andò nella camera alla donna, e quando detto l’ebbé come agevolmente poteva il pallafren guadagnare, le ‘mpose che ad udire il Zima venisse, ma ben si guardasse che a niuna cosa che egli dicesse rispondesse né poco né molto. La donna biasimò molto questa cosa, ma pure, convenendole seguire i piaceri del marito, disse di farlo, ed appresso al marito andò nella sala ad udire ciò che il Zima volesse dire. Il quale, avendo col cavaliere i patti rifermati, da una parte della sala assai lontano da ogni uomo con la donna si pose a sedere e cosí cominciò a dire: — Valorosa donna, egli mi pare esser certo che voi siete sì savia, che assai bene, giá è gran tempo, avete potuto comprendere a quanto amor portarvi m’abbia condotto la vostra bellezza, la quale senza alcun fallo trapassa ciascuna altra che veder mi paresse giá mai. Lascio stare de’ costumi laudevoli e delle vertù singulari che in voi sono, le quali avrebbon forza di pigliare ciascuno alto animo di qualunque uomo: e per ciò non bisogna che io vi dimostri con parole, quello essere stato il maggiore ed il piú fervente che mai uomo ad alcuna donna portasse, e cosí sará mentre la mia misera vita sosterrá questi membri, ed ancor piú, ché, se di lá come di qua s’ama, in perpetuo v’amerò; e per questo vi potete render sicura che niuna cosa avete, qual che ella si sia o cara o vile, che tanto vostra possiate tenere e cosí in ogni atto farne conto come di me, da quantò che io mi sia: ed il simigliante delle mie cose. Ed acciò che voi di questo prendiate certissimo argomento, vi dico che io mi reputerei maggior grazia che voi cosa che io far potessi, che vi piacesse, mi comandaste, che io non terrei che, comandando io, tutto il mondo prestissimo m’ubidisse. Adunque, se cosí son vostro come udite, che sono, non immeritamente ardirò di porgere i prieghi miei alla vostra altezza dalla qual sola ogni mia pace, ogni mio bene e la mia salute venir mi puote, e non altronde: e sí come umilissimo servidor vi priego, caro mio bene e sola speranza dell’anima mia, che nell’amoroso fuoco, sperando in voi, si nutrica, che la vostra benignitá sia tanta, e sí ammollita la vostra passata durezza verso di me dimostrata che vostro sono, che io, dalla vostra pietá riconfortato, possa dire che, come per la vostra bellezza innamorato sono, cosí per quella aver la vita; la quale, se a’ miei prieghi l’altiero vostro animo non s’inchina, senza alcun fallo verrá meno, e morrommi, e potrete esser detta di me micidiale. E lasciamo stare che la mia morte non vi fosse onore, nondimeno credo che, rimordendovene alcuna volta la coscienza, ve ne dorrebbe d’averlo fatto, e talvolta, meglio disposta, con voi medesima direste: — Deh! quanto mal feci a non aver misericordia del Zima mio! — E questo pentere non avendo luogo, vi sarebbe di maggior noia cagione; per che, acciò che ciò non avvenga, ora che sovvenire mi potete, di ciò v’incresca, ed anzi che io muoia a misericordia di me vi movete, per ciò che in voi sola il farmi il piú lieto ed il piú dolente uomo che viva dimora. Spero tanta essere la vostra cortesia, che non sofferrete che io per tanto e tale amore morte riceva per guiderdone, ma con lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli spiriti miei, li quali spaventati tutti trieman nel vostro cospetto. — E quinci tacendo, alquante lagrime dietro a profondissimi sospiri mandate per gli occhi fuori, cominciò ad attender quello che la gentil donna gli rispondesse. La donna, la quale il lungo vagheggiare, l’armeggiare, le mattinate e l’altre cose simili a queste per amor di lei fatte dal Zima muovere non avean potuto, mossero l’affettuose parole dette dal ferventissimo amante, e cominciò a sentire ciò che prima mai non aveva sentito, cioè che amor si fosse. E quantunque, per seguire il comandamento fattole dal marito, tacesse, non potè per ciò alcun sospiretto nascondere quello che volentieri, rispondendo al Zima, avrebbe fatto manifesto. Il Zima, avendo alquanto atteso e veggendo che niuna risposta seguiva, si maravigliò, e poscia s’incominciò ad accorgere dell’arte usata dal cavaliere: ma pur, lei riguardando nel viso e veggendo alcun lampeggiar d’occhi di lei verso di lui alcuna volta, ed oltre a ciò raccogliendo i sospiri li quali essa non con tutta la forza loro del petto lasciava uscire, alcuna buona speranza prese, e da quella aiutato, prese nuovo consiglio: e cominciò in forma della donna, udendolo ella, a rispondere a se medesimo in cotal guisa: — Zima mio, senza dubbio gran tempo ha che io m’accorsi, il tuo amor verso me esser grandissimo e perfetto, ed ora per le tue parole molto maggiormente il conosco, e sonne contenta, sí come io debbo. Tuttafiata, se dura e crudele paruta ti sono, non voglio che tu creda che io nell’animo stata sia quel che nel viso mi son dimostrata; anzi t’ho sempre amato ed avuto caro innanzi ad ogni altro uomo, ma cosí m’è convenuto fare e per paura d’altrui e per servare la fama della mia onestá. Ma ora ne viene quel tempo nel quale io ti potrò chiaramente mostrare se io t’amo, e renderti guiderdone dell’amore il quale portato m’hai e mi porti: e perciò confortati e sta’ a buona speranza, per ciò che messer Francesco è per andare infra pochi di a Melano per podestá, sí come tu sai, che per mio amore donato gli hai il bel pallafreno; il quale come andato sará, senza alcun fallo ti prometto sopra la mia fé, e per lo buono amore il quale io ti porto, che infra pochi di tu ti troverai meco, ed al nostro amore daremo piacevole ed intero compimento. Ed acciò che io non t’abbia altra volta a far parlar di questa materia, infino da ora quel giorno il quale tu vedrai due asciugatoi tesi alla finestra della camera mia, la quale è sopra il nostro giardino, quella sera di notte, guardando ben che veduto non sii, fa’ che per l’uscio del giardino a me te ne venghi: tu mi troverai ivi che t’aspetterò, ed insieme avren tutta la notte festa e piacere l’un dell’altro, sí come disideriamo. — Come il Zima in persona della donna ebbe cosí parlato, ed egli incominciò per sé a parlare, e cosí rispose: — Carissima donna, egli è per soperchia letizia della vostra buona risposta sí ogni mia vertú occupata, che appena posso a rendervi debite grazie formar la risposta; e se io pur potessí come io disidero favellare, niun termine è sí lungo, che mi bastasse a pienamente potervi ringraziare come io vorrei e come a me di far si conviene: e per ciò nella vostra discreta considerazion si rimanga a conoscer quello che io, disiderando, fornir con parole non posso. Soltanto vi dico che, come imposto m’avete, cosi penserò di far senza fallo, ed allora forse, piú rassicurato di tanto dono quanto conceduto m’avete, m’ingegnerò a mio poter di rendervi grazie quali per me si potranno maggiori. Or qui non resta a dire al presente altro; e però, carissima mia donna, Dio vi dèa quella allegrezza e quel bene che voi disiderate il maggiore, ed a Dio v’accomando. — Per tutto questo non disse la donna una sola parola; laonde il Zima si levò suso e verso i
l cavaliere cominciò a tornare, il quale veggendolo levato gli si fece incontro, e ridendo disse: — Che ti pare? Hott’io bene la promessa servata? — Messer no, — rispose il Zima — ché voi mi prometteste di farmi parlar con la donna vostra, e voi m’avete fatto parlar con una statua di marmo. — Questa parola piacque molto al cavaliere, il quale, come che buona oppinione avesse della donna, ancora ne la prese migliore; e disse: — Omai è ben mio il pallafren che fu tuo. — A cui il Zima rispose: — Messer si, ma se io avessi creduto trarre di questa grazia ricevuta da voi tal frutto chente tratto n’ho, senza domandarlavi ve l’avrei donato; ed or volesse Iddio che io fatto l’avessi, per ciò che voi avete comperato il pallafreno ed io non l’ho venduto. — Il cavaliere di questo si rise, ed essendo fornito di pallafreno, ivi a pochi di entrò in cammino e verso Melano se n’andò in podesteria. La donna, rimara libera nella sua casa, ripensando alle parole del Zima ed all’amore il quale le portava ed al pallafreno per l’amor di lei donato, e veggendol da casa sua molto spesso passare, disse seco medesima: — Che fo io? perché perdo io la mia giovanezza? Questi se n’è andato a Melano e non tornerá di questi sei mesi; e quando me gli ristorerá egli giá mai? quando io sarò vecchia? Ed oltre a questo, quando troverò io mai un cosí fatto amante come è il Zima? Io son sola, né ho d’alcuna persona paura: io non so perché io non mi prendo questo buon tempo mentre che io posso; io non avrò sempre spazio come io ho al presente: questa cosa non saprá mai persona, e se egli pur si dovesse risapere, si è egli meglio fare e pentere che starsi e pentersi. — E cosí seco medesima consigliata, un dí pose due asciugatoi alla finestra del giardino, come il Zima aveva detto; il quali il Zima veggendo, lietissimo, come la notte fu venuta, segretamente e solo se n’andò all’uscio del giardino della donna, e quello trovò aperto: e quindi n’andò ad uno altro uscio che nella casa entrava, dove trovò la gentil donna che l’aspettava. La qual veggendol venire, levataglisi incontro, con grandissima festa il ricevette, ed egli abbracciandola e basciandola centomilia volte, su per le scale la seguitò; e senza alcuno indugio coricatisi, gli ultimi termini conobber d’amore. Né questa volta, come che la prima fosse, fu però l’ultima: per ciò che mentre il cavaliere fu a Melano, ed ancor dopo la sua tornata, vi tornò con grandissimo piacere di ciascuna delle parti il Zima molte dell’altre volte.
Novella sesta
[VI]
RICCIARDO MINUTOLO AMA la moglie di Filippello Sighinolfo; la quale sentendo gelosa, col mostrare Filippello il dì seguente con la moglie di lui dovere essere ad un bagno, fa che ella vi va, e credendosi col marito essere stata, si truova che con Ricciardo è dimorata.
Niente restava piú avanti a dire ad Elissa, quando, commendata la sagacitá del Zima, la reina impose alla Fiammetta che procedesse con una; la qual tutta ridente rispose: — Madonna, volentieri — e cominciò:
Alquanto è da uscire della nostra cittá, la quale come d’ogni altra cosa è copiosa, cosí è d’esempli ad ogni materia, e come Elissa ha fatto, alquanto delle cose che per l’altro mondo avvenute son raccontare: e per ciò, a Napoli trapassando, dirò come una di queste santesi, che cosí d’amore schife si mostrano, fosse dallo ‘ngegno d’un suo amante prima a sentir d’amore il frutto condotta che i fiori avesse conosciuti; il che ad una ora a voi presterá cautela nelle cose che possono avvenire e daravvi diletto dell’avvenute.
In Napoli, cittá antichissima e forse cosí dilettevole, o piú, come ne sia alcuna altra in Italia, fu giá un giovane per nobiltá di sangue chiaro e splendido per molte ricchezze, il cui nome fu Ricciardo Minutolo, il quale, nonostante che una bellissima giovane e vaga per moglie avesse, s’innamorò d’una la quale, secondo l’oppinion di tutti, di gran lunga passava di bellezza tutte l’altre donne napoletane, e fu chiamata Catella, moglie d’un giovane similmente gentile uomo chiamato Filippel Sighinolfo, il quale ella, onestissima, piú che altra cosa amava ed avea caro. Amando adunque Ricciardo Minutolo questa Catella e tutte quelle cose operando per le quali la grazia e l’amor d’una donna si dèe potere acquistare, e per tutto ciò a niuna cosa potendo del suo disidèro pervenire, quasi si disperava; e da amore o non sappiendo o non potendo disciogliersi, né morir sapeva né gli giovava di vivere. Ed in cotal disposizion dimorando, avvenne che da donne che sue parenti erano fu un dí assai confortato che di tale amore si dovesse rimanere, per ciò che invano faticava, con ciò fosse cosa che Catella niuno altro bene avesse che Filippello, del quale ella in tanta gelosia vivea, che ogni uccel che per l’aere volava credeva gliele togliesse. Ricciardo, udito della gelosia di Catella, subitamente prese consiglio a’ suoi piaceri e cominciò a mostrarsi dell’amor di Catella disperato, e per ciò in un’altra gentil donna averlo posto: e per amor di lei cominciò a mostrar d’armeggiare e di giostrare e di far tutte quelle cose le quali per Catella soleva fare. Né guari di tempo ciò fece, che quasi a tutti i napoletani, ed a Catella altressi, era nell’animo che non piú Catella, ma questa seconda donna sommamente amasse: e tanto in questo perseverò, che sí per fermo da tutti si teneva, che, non che altri, ma Catella lasciò una salvatichezza che con lui avea dell’amor che portarle solea, e dimesticamente, come vicino, andando e venendo il salutava come faceva gli altri. Ora, avvenne che, essendo il tempo caldo e molte brigate di donne e di cavalieri, secondo l’usanza de’ napoletani, andassero a diportarsi a’ liti del mare ed a desinarvi ed a cenarvi, e Ricciardo sappiendo Catella con sua brigata esservi andata, similmente con sua compagnia v’andò, e nella brigata delle donne di Catella fu ricevuto, faccendosi prima molto invitare, quasi non fosse molto vago di rimanervi. Quivi le donne, e Catella insieme con loro, incominciarono con lui a motteggiare del suo novello amore, del quale egli mostrandosi acceso forte, piú loro di ragionare dava materia. A lungo andare, essendo l’una donna andata in qua e l’altra in lá, come si fa in quei luoghi, essendo Catella con poche rimasa quivi dove Ricciardo era, gittò Ricciardo verso lei un motto d’un certo amore di Filippello suo marito, per lo quale ella entrò in subita gelosia, e dentro cominciò ad arder tutta di disidèro di sapere ciò che Ricciardo volesse dire. E poi che alquanto tenuta si fu, non potendo piú tenersi, pregò Ricciardo che, per amor di quella donna la quale egli piú amava, gli dovesse piacere di farla chiara di ciò che detto aveva di Filippello. Il quale le disse: — Voi m’avete scongiurato per persona, che io non v’oso negar cosa che voi mi domandiate, e per ciò io son presto a dirlovi, sol che voi mi promettiate che niuna parola ne farete mai né con lui né con altrui, se non quando per effetto vedrete esser vero quello che io vi conterò, ché, quando vogliate, v’insegnerò come vedere il potrete. — Alla donna piacque questo che gli addomandava, e piú il credette esser vero, e giurògli di mai non dirlo. Tirati adunque da una parte, ché da altrui uditi non fossero, Ricciardo cominciò cosí a dire: — Madonna, se io v’amassí come io giá amai, io non avrei ardire di dirvi cosa che io credessi che noiar vi dovesse; ma per ciò che quello amore è passato, me ne curerò meno d’aprirvi il vero d’ogni cosa. Io non so se Filippello si prese giá mai onta dell’amore il quale io vi portai, o se avuto ha credenza che io mai da voi amato fossi: ma come che questo sia stato o no, nella mia persona niuna cosa ne mostrò mai; ma ora, forse aspettando tempo quando ha creduto che io abbia men di sospetto, mostra di volere fare a me quello che io dubito che egli non tema che io facessi a lui, cioè di volere al suo piacere avere la donna mia: e per quello che io truovo, egli l’ha da non troppo tempo in qua segretissimamente con piú ambasciate sollecitata, le quali io ho tutte da lei risapute, ed ella ha fatte le risposte secondo che io l’ho imposto. Ma pure stamane, anzi che io qui venissi, io trovai con la donna mia in casa una femina a stretto consiglio, la quale io credetti incontanente che fosse ciò che ella era; per che io chiamai la donna mia e la domandai quello che colei domandasse. Ella mi disse: — Egli è lo stimol di Filippello, il qual tu con fargli risposte e dargli speranza m’hai fatto recare addosso; e dice che del tutto vuol sapere quello che io intendo di fare, e che egli, quando io volessi, farebbe che io potrei essere segretamente ad un bagno in questa terra, e di questo mi priega e grava: e se non fosse
che tu m’hai fatti, non so perché, tener questi mercati, io me l’avrei per maniera levato di dosso, che egli mai non avrebbe guatato lá dove io fossi stata. — Allora mi parve che questi procedesse troppo innanzi e che piú non fosse da sofferire, e di dirlovi, acciò che voi conosceste che merito riceva la vostra intera fede per la quale io fui giá presso alla morte. Ed acciò che voi non credeste, queste esser parole e favole, ma il poteste, quando voglia ve ne venisse, apertamente e vedere e toccare, io feci fare alla donna mia a colei che l’aspettava questa risposta, che ella era presta d’esser domane in su la nona, quando la gente dorme, a questo bagno; di che la femina contentissima si partì da lei. Ora, non credo io che voi crediate che io la vi mandassi: ma se io fossi in vostro luogo, io farei che egli vi troverebbe me in luogo di colei cui trovarvi si crede, e quando alquanto con lui dimorata fossi, io il farei avvedere con cui stato fosse, e quello onore che a lui se ne convenisse ne gli farei; e questo faccendo, credo si fatta vergogna gli fia, che ad una ora la ‘ngiuria che a voi ed a me far vuole vendicata sarebbe. — Catella, udendo questo, senza avere alcuna considerazione a chi era colui che gliele dicea o a’ suoi inganni, secondo il costume de’ gelosi, subitamente diede fede alle parole, e certe cose state davanti cominciò ad attare a questo fatto: e di subita ira accesa, rispose che questo fará ella certamente, non era egli sí gran fatica a fare, e che fermamente, se egli vi venisse, ella gli farebbe sí fatta vergogna, che sempre che egli alcuna donna vedesse gli si girerebbe per lo capo. Ricciardo, contento di questo e parendogli che il suo consiglio fosse stato buono e procedesse, con molte altre parole la vi confermò sú e fece la fede maggiore, pregandola nondimeno che dir non dovesse giá mai d’averlo udito da lui; il che ella sopra la sua fé gliel promise. La mattina seguente Ricciardo se n’andò ad una buona femina che quel bagno che egli aveva a Catella detto teneva, e le disse ciò che egli intendeva di fare, e pregolla che in ciò fosse favorevole quanto potesse. La buona femina, che molto gli era tenuta, disse di farlo volentieri, e con lui ordinò quello che a fare o a dire avesse. Aveva costei, nella casa ove il bagno era, una camera oscura molto, sí come quella nella quale niuna finestra, che lume rendesse, rispondea. Questa, secondo l’ammaestramento di Ricciardo, acconciò la buona femina, e fecevi entro un letto, secondo che poté il migliore, nel quale Ricciardo, come desinato ebbe, si mise, e cominciò ad aspettar Catella. La donna, udite le parole di Ricciardo ed a quelle data piú fede che non le bisognava, piena di sdegno tornò la sera a casa, dove per avventura Filippello pieno d’altro pensiero similmente tornò, né le fece forse quella dimestichezza che era usato di fare. Il che ella veggendo, entrò in troppo maggior sospetto che ella non era, seco medesima dicendo: — Veramente costui ha l’animo a quella donna con la qual domane si crede aver piacere e diletto, ma fermamente questo non avverrá. — E sopra cotal pensiero, ed imaginando come dirgli dovesse quando con lui stata fosse, quasi tutta la notte dimorò. Ma che piú? Venuta la nona, Catella prese sua compagnia e senza mutare altramenti consiglio se n’andò a quel bagno il quale Ricciardo l’aveva insegnato: e quivi trovata la buona femina, la domandò se Filippello stato vi fosse quel dí. A cui la buona femina, ammaestrata da Ricciardo, disse: — Siete voi quella donna che gli dovete venire a parlare? — Catella rispose: — Sì sono. — Adunque, — disse la buona femina — andatevene da lui. — Catella, che cercando andava quello che ella non avrebbe voluto trovare, fattasi alla camera menare dove Ricciardo era, col capo coperto in quella entrò e dentro serrossi. Ricciardo, veggendola venire, lieto si levò in piè, ed in braccio ricevutala disse pianamente: — Ben venga l’anima mia! — Catella, per mostrarsi bene d’essere altra che ella non era, abbracciò e basciò lui, e fecegli la festa grande senza dire alcuna parola, temendo, se parlasse, non fosse da lui conosciuta. La camera era oscurissima, di che ciascuna delle parti era contenta: né per lungamente dimorarvi riprendevan gli occhi piú di potere. Ricciardo la condusse in sul letto, e quivi, senza favellare in guisa che scorgersi potesse la voce, per grandissimo spazio con maggior diletto e piacere dell’una parte che dell’altra stettero; ma poi che a Catella parve tempo di dovere il conceputo sdegno mandar fuori, così, di fervente ira accesa, cominciò a parlare: — Ahi! quanto è misera la fortuna delle donne e come è male impiegato l’amor di molte ne’ mariti! Io, misera me, giá sono otto anni t’ho piú che la mia vita amato, e tu, come io sentito ho, tutto ardi e consumiti nell’amore d’una donna strana, reo e malvagio uom che tu se’! Or con cui ti credi tu essere stato? Tu se’ stato con colei la quale con false lusinghe tu hai, giá è assai, ingannata mostrandole amore ed essendo altrove innamorato. Io son Catella, non son la moglie di Ricciardo, traditor disleal che tu se’: ascolta se tu riconosci la voce mia, io son ben dessa; e panni mille anni che noi siamo al lume, ché io ti possa svergognare come tu se’ degno, sozzo cane vituperato che tu se’. Oimè, misera me! a cui ho io cotanti anni portato cotanto amore? A questo can disleale che, credendosi in braccio avere una donna strana, m’ha piú di carezze e d’amorevolezze fatte in questo poco tempo che qui stata son con lui, che in tutto l’altro rimanente che stata son sua. Tu se’ bene oggi, can rinnegato, stato gagliardo, che a casa ti suogli mostrare cosí debole e vinto e senza possa! Ma lodato sia Iddio, che il tuo campo, non l’altrui, hai lavorato, come tu ti credevi. Non maraviglia che stanotte tu non mi t’appressasti: tu aspettavi di scaricare le some altrove, e volevi giugnere molto fresco cavaliere alla battaglia: ma lodato sia Iddio ed il mio avvedimento, l’acqua è pur corsa alla ‘ngiú come ella doveva! Ché non rispondi, reo uomo? ché non di’ qualche cosa? Se’ tu divenuto mutolo udendomi? In fé di Dio, io non so a che io mi tengo che io non ti ficco le mani negli occhi e traggogliti! Credesti molto celatamente saper fare questo tradimento! Per Dio, tanto sa altri quanto altri; non t’è venuto fatto: io t’ho avuti miglior bracchi alla coda che tu non credevi. — Ricciardo in se medesimo godeva di queste parole, e senza rispondere alcuna cosa l’abbracciava e basciava, e piú che mai le facea le carezze grandi. Per che ella seguendo il suo parlar diceva: — Sí, tu mi credi ora con tue carezze infinte lusingare, can fastidioso che tu se’, e rappaceficare e racconsolare; tu se’ errato: io non sarò mai di questa cosa consolata infino a tanto che io non te ne vitupero in presenza di quanti parenti ed amici e vicini noi abbiamo. Or non sono io, malvagio uomo, cosí bella come sia la moglie di Ricciardo Minutolo? non sono io cosí gentil donna? Ché non rispondi, sozzo cane? Che ha colei piú di me? Fatti in costá, non mi toccare: ché tu hai troppo fatto d’arme per oggi. Io so bene che oggimai, poscia che tu conosci chi io sono, che tu ciò che tu facessi faresti a forza: ma se Dio mi dèa la grazia sua, io te ne farò ancora patir voglia, e non so a che io mi tengo che io non mando per Ricciardo, il quale piú che sé m’ha amata e mai non potè vantarsi che io il guatassi pure una volta: e non so che male si fosse a farlo. Tu hai creduto avere la moglie qui, ed è come se avuta l’avessi, in quanto per te non è rimaso: adunque, se io avessi lui, non mi potresti con ragione biasimare. — Ora, le parole furono assai ed il ramarichio della donna grande; pure alla fine Ricciardo, pensando che, se andare ne la lasciasse con questa credenza, molto di male ne potrebbe seguire, diliberò di palesarsi e di trarla dello ‘nganno nel quale era: e recatalasi in braccio e presala bene, sí che partire non si poteva, disse: — Anima mia dolce, non vi turbate; quello che io semplicemente amando aver non potei, Amor con inganno m’ha insegnato avere: e sono il vostro Ricciardo. — Il che Catella udendo, e conoscendolo alla voce, subitamente si volle gittar del letto, ma non potè; onde ella volle gridare, ma Ricciardo le chiuse con l’una delle mani la bocca, e disse: — Madonna, egli non può oggimai essere che quello che è stato non sia pure stato, se voi gridaste tutto il tempo della vita vostra: e se voi griderete o in alcuna maniera farete che questo si senta mai per alcuna persona, due cose n’avverranno. L’una fia, di che non poco vi dèe calere, che il vostro onore e la vostra buona fama fia guasta, per ciò che, come che voi diciate che io qui ad inganno v’abbia fatta venire, io dirò che non sia vero, anzi vi ci abbia fatta venire per denari e per doni che io v’abbia pro
messi, li quali per ciò che cosí compiutamente dati non v’ho come speravate, vi siete turbata, e queste parole e questo romor ne fate: e voi sapete che la gente è piú acconcia a credere il male che il bene, e per ciò non fia men tosto creduto a me che a voi. Appresso questo, ne seguirá tra vostro marito e me mortai nimistá, e potrebbe si andare la cosa, che io ucciderei altressi tosto lui, come egli me; di che mai voi non dovreste esser poi né lieta né contenta. E per ciò, cuor del corpo mio, non vogliate ad una ora vituperar voi e mettere in pericolo ed in briga il vostro marito e me. Voi non siete la prima né sarete l’ultima la quale è ingannata, né io non v’ho ingannata per tôrvi il vostro, ma per soperchio amore che io vi porto e son disposto sempre a portarvi, e ad essere vostro umilissimo servidore. E come che sia gran tempo che io e le mie cose e ciò che io posso e vaglio vostre state sieno ed al vostro servigio, io intendo che da quinci innanzi sieno piú che mai. Ora, voi siete savia nell’altre cose, e cosí son certo che sarete in questa. — Catella, mentre che Ricciardo diceva queste parole, piagneva forte: e come che molto turbata fosse e molto si ramaricasse, nondimeno diede tanto luogo la ragione alle vere parole di Ricciardo, che ella conobbe esser possibile ad avvenire ciò che Ricciardo diceva; e per ciò disse: — Ricciardo, io non so come Domenedio mi si concederá che io possa comportare la ‘ngiuria e lo ‘nganno che fatto m’hai; non voglio gridar qui, dove la mia simplicitá e soperchia gelosia mi condusse, ma di questo vivi sicuro, che io non sarò mai lieta se in un modo o in uno altro io non mi veggio vendicata di ciò che fatto m’hai; e per ciò lasciami, non mi tener piú: tu hai avuto ciò che disiderato hai ed ha mi straziata quanto t’è piaciuto; tempo è di lasciarmi; lasciami, io te ne priego. — Ricciardo, che conoscea l’animo suo ancora troppo turbato, s’avea posto in cuore di non lasciarla mai se la sua pace non riavesse; per che, cominciando con dolcissime parole a raumiliarla, tanto disse e tanto pregò e tanto scongiurò, che ella, vinta, con lui si paceficò, e di pari volontá di ciascuno gran pezza appresso in grandissimo diletto dimorarono insieme. E conoscendo allora la donna quanto piú saporiti fossero i basci dell’amante che quegli del marito, voltata la sua durezza in dolce amore verso Ricciardo, tenerissimamente da quel giorno innanzi l’amò, e savissimamente operando molte volte goderono del loro amore. Iddio faccia noi goder del nostro.
Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 294