Niuna sconsolataÆæda dolersi ha quant’io,Ææch’invan sospiro, lassa! innamorata.Ææ Colui che move il cielo ed ogni stellaÆæmi fece a suo dilettoÆævaga, leggiadra, graziosa e bella,Ææper dar qua giú ad ogni alto intellettoÆæalcun segno di quellaÆæbiltá che sempre a lui sta nel cospetto;Ææed il mortal difettoÆæcome mal conosciutaÆænon mi gradisce, anzi m’ha dispregiata.Ææ Giá fu chi m’ebbe cara, e volentieriÆægiovanetta mi preseÆænelle sue braccia e dentro a’ suoi pensieri,Ææe de’ miei occhi tututto s’accese,Ææe ‘l tempo, che leggeriÆæsen vola, tutto in vagheggiarmi spese:Ææed io, come cortese,Æædi me il feci degno;Ææma or ne son, dolente a me! privata.Ææ Femmisi innanzi poi presuntuoso
un giovanetto fiero,Ææsé nobil reputando e valoroso,Ææe presa tienmi e con falso pensieroÆædivenuto è geloso:Æælaond’io, lassa! quasi mi dispero,Ææconoscendo per vero,Ææper ben di molti al mondoÆævenuta, da uno essere occupata.ÆæIo maladico quella mia sventura,Ææ quando, per mutar vesta,Ææsí dissi mai: sí bella nella oscuraÆæmi vidi giá e lieta, dove in questaÆæio meno vita dura,Æævie men che prima reputata onesta;Ææo dolorosa festa,Ææmorta foss’io avantiÆæche io t’avessi in tal caso provata!Ææ O caro amante, del qual prima fui,Ææpiú che altra contenta,Ææche or nel ciel se’ davanti a ColuiÆæche ne creò, dch! pietoso diventaÆædi me, che per altruiÆæte obliar non posso; fa’ ch’io sentaÆæche quella fiamma spentaÆænon sia che per me t’arse,Ææe costá sú m’impetra la tornata.
Qui fece fine la Lauretta alla sua canzone, nella quale notata da tutti, diversamente da diversi fu intesa: ed ebbevi di quegli che intender vollono alla melanese, che fosse meglio un buon porco che una bella tosa; altri furono di piú sublime e migliore e piú vero intelletto, del quale al presente recitar non accade. Il re, dopo questa, in su l’erba ed in sui fiori avendo fatti molti doppieri accendere, ne fece piú altre cantare infino che giá ogni stella a cader cominciò che salía; per che, ora parendogli da dormire, comandò che con la buona notte ciascuno alla sua camera si tornasse.
Quarta giornata
INTRODUZIONE
Novella PRIMA
Tancredi prenze di Salerno uccide l’amante della figliuola e mandale il cuore in una coppa d’oro; la quale, messa sopr’esso acqua avvelenata, quella si bee, e così muore.
Novella seconda
Frate Alberto dà a vedere ad una donna che l’Agnolo Gabriello è di lei innamorato, in forma del quale più volte si giace con lei; poi, per paura de’ parenti di lei della casa gittatosi, in casa d’uno povero uomo ricovera, il quale in forma d’uomo salvatico il dì seguente nella piazza il mena, dove, riconosciuto, è da’ suoi frati preso e incarcerato.
Novella terza
Tre giovani amano tre sorelle e con loro si fuggono in Creti. La maggiore per gelosia il suo amante uccide; la seconda, concedendosi al duca di Creti, scampa da morte la prima, l’amante della quale l’uccide e con la prima si fugge: ènne incolpato il terzo amante con la terza sirocchia; e presi il confessano e per tema di morire con moneta la guardia corrompono, e fuggonsi poveri a Rodi e in povertà quivi muoiono.
Novella quarta
Gerbino, contra la fede data dal re Guglielmo suo avolo, combatte una nave del re di Tunisi per torre una sua figliuola, la quale uccisa da quegli che su v’erano, loro uccide, e a lui è poi tagliata la testa.
Novella quinta
I fratelli dell’Isabetta uccidon l’amante di lei; egli l’apparisce in sogno e mostrale dove sia sotterrato. Ella occultamente disotterra la testa e mettela in un testo di bassilico; e quivi su piagnendo ogni dì per una grande ora, i fratelli gliele tolgono, ed ella se ne muore di dolore poco appresso.
Novella sesta
L’Andreuola ama Gabriotto; raccontagli un sogno veduto ed egli a lei un altro; muorsi di subito nelle sue braccia; mentre che ella con una sua fante alla casa di lui nel portano, son prese dalla signoria, ed ella dice come l’opera sta; il podestà la vuole sforzare; ella nol patisce; sentelo il padre di lei, e lei innocente trovata fa liberare; la quale, del tutto rifiutando di star più al mondo, si fa monaca.
Novella settima
La Simona ama Pasquino; sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a’ denti una foglia di salvia e muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come morisse Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a’ denti, similmente si muore.
Novella ottava
Girolamo ama la Salvestra; va, costretto da’ prieghi della madre, a Parigi; torna e truovala maritata; entrale di nascoso in casa e muorle allato; e portato in una chiesa, nuore la Salvestra allato a lui.
Novella nona
Messer Guiglielmo Rossiglione dà a mangiare alla moglie sua il cuore di messer Guiglielmo Guardastagno ucciso da lui e amato da lei; il che ella sappiendo, poi si gitta da una alta finestra in terra e muore e col suo amante è sepellita.
Novella decima
La moglie d’un medico per morto mette un suo amante adoppiato in una arca, la quale con tutto lui due usurai se ne portano in casa. Questi si sente, è preso per ladro; la fante della donna racconta alla signoria sé averlo esso nell’arca dagli usurieri imbolata, laond’egli scampa dalle forche e i prestatori d’avere l’arca furata sono condannati in denari.
Conclusione
Introduzione
FINISCE LA TERZA GIORNATA DEL DECAMERON; INCOMINCIA LA QUARTA,NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI FILOSTRATO, SI RAGIONA DI COLORO LI CUI AMORI EBBERO INFELICE FINE.
CARISSIME DONNE, SÌ per le parole de’ savi uomini udite e sì per le cose da me molte volte e vedute e lette estimava io che lo ‘mpetuoso vento ed ardente della ‘nvidia non dovesse percuotere se non l’alte torri o le piú levate cime degli alberi: ma io mi truovo della mia estimazione ingannato. Per ciò che, fuggendo io e sempre essendomi di fuggire ingegnato il fiero impeto di questo rabbioso spirito, non solamente pe’ piani, ma ancora per le profondissime valli mi sono ingegnato d’andare; il che assai manifesto può apparire a chi le presenti novellette riguarda, le quali non solamente in fiorentin volgare ed in prosa scritte per me sono e senza titolo, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il piú si possono: né per tutto ciò l’essere da cotal vento fieramente scrollato, anzi presso che diradicato, e tutto da’ morsi della ‘nvidia esser lacerato non ho potuto cessare, per che assai manifestamente posso comprendere, quello esser vero che sogliono i savi dire, che sola la miseria è senza invidia nelle cose presenti. Sono adunque, discrete donne, stati alcuni che, queste novellette leggendo, hanno detto che voi mi piacete troppo e che onesta cosa non è che io tanto diletto prenda di piacervi e di consolarvi, ed alcuni han detto peggio: di commendarvi, come io fo. Altri, piú maturamente mostrando di voler dire, hanno detto che alla mia etá non istá bene l’andare omai dietro a queste cose, cioè a ragionar di donne o a compiacer loro. E molti, molto teneri della mia fama mostrandosi, dicono che io farei piú saviamente a starmi con le Muse in Parnaso che con queste ciance mescolarmi tra voi. E son di quegli ancora che, piú dispettosamente che saviamente parlando, hanno detto che io farei piú discretamente a pensare donde io dovessi aver del pane che dietro a queste frasche andarmi pascendo di vento. E certi altri, in altra guisa essere state le cose da me raccontatevi che come io lo vi porgo, s’ingegnano in detrimento della mia fatica di dimostrare. Adunque, da cotanti e da cosí fatti soffiamenti, da cosí atroci denti, da cosí aguti strali, valorose donne, mentre io ne’ vostri servigi milito, sono sospinto, molestato ed infino nel vivo trafitto. Le quali cose io con piacevole animo, sallo Iddio, ascolto ed intendo; e quantunque a voi in ciò tutta appartenga la mia difesa, nondimeno io non intendo di risparmiar le mie forze: anzi, senza rispondere quanto si converrebbe, con alcuna leggera risposta tôrmegli dagli orecchi, e questo far senza indugio, per ciò che, se giá, non essendo io ancora al terzo della mia fatica venuto, essi sono molti e molto presummono, io avviso che avanti che io pervenissi alla fine essi potrebbono in guisa esser multiplicati, non avendo prima avuta alcuna repulsa, che con ogni piccola lor fatica mi metterebbono in fondo, né a ciò, quantunque elle sien grandi, resi
stere varrebbero le forze vostre. Ma avanti che io venga a far la risposta ad alcuno, mi piace in favor di me raccontare, non una novella intera, acciò che non paia che io voglia le mie novelle con quelle di così laudevole compagnia quale fu quella che dimostrata v’ho, mescolare, ma parte d’una, acciò che il suo difetto stesso sé mostri non esser di quelle; ed a’ miei assalitori favellando dico che
Nella nostra cittá, giá è buon tempo passato, fu un cittadino il quale fu nominato Filippo Balducci, uomo di condizione assai leggera, ma ricco e bene inviato ed esperto nelle cose quanto lo stato suo richiedea: ed aveva una sua donna la quale egli sommamente amava, ed ella lui, ed insieme in riposata vita si stavano, a niuna altra cosa tanto studio ponendo quanto in piacere interamente l’uno all’altro. Ora, avvenne, sí come di tutti avviene, che la buona donna passò di questa vita, né altro di sé a Filippo lasciò che un solo figliuolo di lui conceputo, il quale forse d’etá di due anni era. Costui per la morte della sua donna tanto sconsolato rimase quanto mai alcuno altro, amata cosa perdendo, rimanesse; e vergendosi di quella compagnia la quale egli piú amava rimaso solo, del tutto si dispose di non volere piú essere al mondo, ma di darsi al servigio di Dio, ed il simigliante fare del suo piccol figliuolo. Per che, data ogni sua cosa per Dio, senza indugio se n’andò sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta sé mise col suo figliuolo, col quale, di limosine in digiuni ed in orazioni vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, lá dove egli fosse, d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna vedere, acciò che esse da cosí fatto servigio nol traessero, ma sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de’ santi gli ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli: ed in questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo uscire né alcuna altra cosa che sé dimostrandogli. Era usato il valente uomo di venire alcuna volta a Firenze, e quivi secondo le sue opportunitá dagli amici di Dio sovvenuto, alla sua cella tornava. Ora, avvenne che, essendo giá il garzone d’etá di diciotto anni, e Filippo vecchio, un dí il domandò ove egli andava. Filippo gliele disse; al quale il garzon disse: — Padre mio, voi siete oggimai vecchio e potete male durar fatica; perché non mi menate voi una volta a Firenze, acciò che, faccendomi conoscere gli amici e divoti di Dio e vostri, io, che son giovane e posso meglio faticar di voi, possa poscia pe’ nostri bisogni a Firenze andare quando vi piacerá, e voi rimanervi qui? — Il valente uomo, pensando che giá questo suo figliuolo era grande, ed era si abituato al servigio di Dio, che malagevolmente le cose del mondo a sé il dovrebbono omai poter trarre, seco stesso disse: — Costui dice bene. — Per che, avendovi ad andare, seco il menò. Quivi il giovane, veggendo i palagi, le case, le chiese e tutte l’altre cose delle quali tutta la cittá piena si vede, sí come colui che mai piú per ricordanza vedute non n’avea, si cominciò forte a maravigliare, e di molte domandava il padre che fossero e come si chiamassero. Il padre gliele diceva, ed egli, avendolo udito, rimaneva contento e domandava d’un’altra. E cosí domandando il figliuolo ed il padre rispondendo, per ventura si scontrarono in una brigata di belle giovani donne ed ornate, che da un paio di nozze venieno; le quali come il giovane vide, cosí domandò il padre che cosa quelle fossero. A cui il padre disse: — Figliuol mio, bassa gli occhi in terra, non le guatare, ché elle son mala cosa. — Disse allora il figliuolo: — O come si chiamano? — Il padre, per non destare nel concupiscibile appetito del giovane alcuno inchinevole disidèro men che utile, non le volle nominare per lo proprio nome, cioè «femine», ma disse: — Elle si chiamano papere. — Maravigliosa cosa ad udire! Colui che mai piú alcuna veduta non n’avea, non curatosi de’ palagi, non del bue, non del cavallo, non dell’asino, non de’ denari né d’altra cosa che veduta avesse, subitamente disse: — Padre mio, io vi priego che voi facciate che io abbia una di quelle papere. — Oimè! figliuol mio, — disse il padre — taci: elle son mala cosa. — A cui il giovane domandando disse: — O son cosí fatte le male cose? — Sí — disse il padre. Ed egli allora disse: — Io non so che voi vi dite, né perché queste sieno mala cosa: quanto è a me, non m’è ancora paruta vedere alcuna cosí bella né cosí piacevole come queste sono. Elle son piú belle che gli agnoli dipinti che voi m’avete piú volte mostrati. Deh! se vi cal di me, fate che noi ce ne meniamo una colá sú, di queste papere, ed io le darò beccare. — Disse il padre: — Io non voglio; tu non sai donde elle s’imbeccano! — E sentì incontanente piú aver di forza la natura che il suo ingegno, e pentessi d’averlo menato a Firenze. Ma avere infino a qui detto della presente novella voglio che mi basti, ed a coloro rivolgermi alli quali l’ho raccontata.
Dicono adunque alquanti de’ miei riprensori che io fo male, o giovani donne, troppo ingegnandomi di piacervi, e che voi troppo piacete a me. Le quali cose io apertissimamente confesso, cioè che voi mi piacete e che io m’ingegno di piacere a voi; e domandogli se di questo essi si maravigliano, riguardando, lasciamo stare all’aver conosciuti gli amorosi basciari ed i piacevoli abbracciari ed i congiugnimenti dilettevoli che di voi, dolcissime donne, sovente si prendono, ma solamente ad aver veduto e veder continuamente gli ornati costumi e la vaga bellezza e l’ornata leggiadria ed oltre a ciò la vostra donnesca onestá: quando colui che, nudrito, allevato, accresciuto sopra un monte salvatico e solitario, infra li termini d’una piccola cella, senza altra compagnia che del padre, come vi vide, sole da lui disiderate foste, sole addomandate, sole con l’affezion seguitate. Riprenderannomi, morderannomi, lacererannomi costoro se io, il corpo del quale il cielo produsse tutto atto ad amarvi, ed io dalla mia puerizia l’anima vi disposi sentendo la vertú della luce degli occhi vostri, la soavitá delle parole melliflue e la fiamma accesa da’ pietosi sospiri, se voi mi piacete o se io di piacervi m’ingegno: e spezialmente guardando che voi prima che altro piaceste ad un romitello, ad un giovanetto senza sentimento, anzi ad uno animal salvatico? Per certo chi non v’ama e da voi non disidera d’essere amato, sí come persona che i piaceri né la vertú della naturale affezione né sente né conosce, cosí mi ripiglia: ed io poco me ne curo. E quegli che contro alla mia etá parlando vanno, mostra mal che conoscano che, perché il porro abbia il capo bianco, che la coda sia verde; a’ quali, lasciando il motteggiar dall’un de’ lati, rispondo che io mai a me vergogna non reputerò infino nello stremo della mia vita di dover compiacere a quelle cose alle quali Guido Cavalcanti e Dante Alighieri giá vecchi e messer Cino da Pistoia vecchissimo onor si tennero, e fu lor caro il piacer loro. E se non fosse che uscir sarebbe del modo usato del ragionare, io producerei le istorie in mezzo, e quelle tutte piene mostrerei d’antichi uomini e valorosi, ne’ loro piú maturi anni sommamente avere studiato di compiacere alle donne; il che se essi non sanno, vadano e si l’apparino. Che io con le Muse in Parnaso mi debba stare, affermo che è buon consiglio: ma tuttavia né noi possiamo dimorar con le Muse né esse con essonoi. E quando avviene che l’uomo da lor si parte, dilettarsi di veder cosa che le somigli, questo non è cosa da biasimare: le Muse son donne, e benché le donne quel che le Muse vagliono non vagliano, pure esse hanno nel primo aspetto simiglianza di quelle, sí che, quando per altro non mi piacessero, per quello mi dovrebber piacere; senza che, le donne giá mi fûr cagione di comporre mille versi, dove le Muse mai non mi furono di farne alcun cagione. Aiutaronmi elle bene e mostraronmi comporre que’ mille: e forse a queste cose scrivere, quantunque sieno umilissime, si sono elle venute parecchie volte a starsi meco, in servigio forse ed in onore della simiglianza che le donne hanno ad esse; per che, queste cose tessendo, né dal monte Parnaso né dalle Muse non mi allontano quanto molti per avventura s’avvisano. Ma che direm noi a coloro che della mia fame hanno tanta compassione, che mi consigliano che io procuri del pane? Certo io non so, se non che, volendo meco pensare quale sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne domandassi, m’avviso che direbbono: — Va’ cercane tra le favole. — E giá piú ne trovarono tra le loro favole i poeti, che molti ricchi tra’ loro tesori, ed assai giá, dietro alle loro favole andando, fecero la loro etá fiorire, dove in contrario molti nel cercar d’aver piú pane che bisogno non era loro, perirono acerbi. Che piú
? Caccinmi via questi cotali qualora io ne domando loro: se non che, la Dio mercé, ancora non mi bisogna; e quando pur sopravvenisse il bisogno, io so, secondo l’Apostolo, abbondare e necessitá sofferire: e per ciò a niun caglia piú di me che a me. Quegli che queste cose cosí non essere state dicono, avrei molto caro che essi recassero gli originali, li quali se a quel che io scrivo discordanti fossero, giusta direi la lor riprensione e d’ammendar me stesso m’ingegnerei: ma infino che altro che parole non apparisce, io gli lascerò con la loro oppinione, seguitando la mia, di loro dicendo quello che essi di me dicono. E volendo per questa volta assai aver risposto, dico che dell’aiuto di Dio e del vostro, gentilissime donne, nel quale io spero, armato, e di buona pazienza, con esso procederò avanti, dando le spalle a questo vento e lasciandol soffiar, per ciò che io non veggio che di me altro possa avvenire che quello che della minuta polvere avviene, la quale, spirante turbo, o egli di terra non la muove, o se la muove, la porta in alto e spesse volte sopra le teste degli uomini, sopra le corone dei re e degl’imperadori, e talvolta sopra gli alti palagi e sopra le eccelse torri la lascia; delle quali se ella cade, piú giú andar non può che il luogo onde levata fu. E se mai con tutta la mia forza a dovervi in cosa alcuna compiacere mi disposi, ora piú che mai mi vi disporrò, per ciò che io conosco che altra cosa dir non potrá alcuno con ragione, se non che gli altri ed io, che v’amiamo, naturalmente operiamo; alle cui leggi voler contrastare troppo gran forze bisognano, e spesse volte non solamente invano, ma con grandissimo danno del faticante s’adoperano. Le quali forze io confesso che io non l’ho né d’averle disidero in questo, e se io l’avessi, piú tosto ad altrui le presterei che io per me l’adoperassi. Per che tacciansi i morditori, e se essi riscaldar non si possono, assiderati si vivano, e ne’ lor diletti, anzi appetiti corrotti, standosi, me nel mio questa brieve vita che posta n’è lascino stare. Ma da ritornare è, per ciò che assai vagati siamo, o belle donne, lá onde ci dipartimmo, e l’ordine cominciato seguire.
Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 299