Collected Works of Giovanni Boccaccio

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Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 304

by Giovanni Boccaccio


  Nella cittá di Brescia fu giá un gentile uomo chiamato messer Negro da Pontecarraro, il quale, tra piú altri figliuoli, una figliuola aveva, nominata Andreuola, giovane e bella assai e senza marito, la qual per ventura d’un suo vicino che avea nome Gabriotto s’innamorò, uomo di bassa condizione ma di laudevoli costumi pieno e della persona bello e piacevole; e con l’opera ed aiuto della fante della casa operò tanto la giovane, che Gabriotto non solamente seppe, sé essere dall’Andreuola amato, ma ancora in un bel giardino del padre di lei piú e piú volte a diletto dell’una parte e dell’altra fu menato: ed acciò che niuna cagione mai, se non morte, potesse questo lor dilettevole amor separare, marito e moglie segretamente divennero. E cosí furtivamente li lor congiugnimenti continuando, avvenne che alla giovane una notte, dormendo, parve in sogno vedere, sé essere nel suo giardino con Gabriotto, e lui con grandissimo piacer di ciascuno tener nelle sue braccia: e mentre che cosí dimoravan, le pareva vedere del corpo di lui uscire una cosa oscura e terribile, la forma della quale essa non poteva conoscere, e parevale che questa cosa prendesse Gabriotto e malgrado di lei con maravigliosa forza gliele strappasse di braccio e con esso ricoverasse sotterra, né mai piú riveder potesse né l’un né l’altro; di che assai dolore ed inestimabile sentiva, e per quello si destò, e desta, come che lieta fosse veggendo che non cosí era come sognato avea, nondimeno l’entrò del sogno veduto paura. E per questo, volendo poi Gabriotto la seguente notte venir da lei, quanto potè s’ingegnò di fare che la sera non vi venisse: ma pure, il suo voler veggendo, acciò che egli d’altro non sospettasse, la seguente notte nel suo giardino il ricevette. Ed avendo molte rose bianche e vermiglie colte, per ciò che la stagione era, con lui a piè d’una bellissima fontana e chiara che nel giardino era a starsi se n’andò, e quivi, dopo grande ed assai lunga festa insieme avuta, Gabriotto la domandò qual fosse la cagione per che la venuta gli avea il dì davanti vietata. La giovane, raccontandogli il sogno da lei la notte davanti veduto e la suspizion presa di quello, gliele contò. Gabriotto, udendo questo, se ne rise, e disse che grande sciocchezza era porre ne’ sogni alcuna fede, per ciò che o per soperchio di cibo o per mancamento di quello avvenieno, ed esser tutti vani si vedeano ogni giorno; ed appresso disse: — Se io fossi voluto andar dietro a’ sogni, io non ci sarei venuto, non tanto per lo tuo quanto per uno che io altressi questa notte passata ne feci, il qual fu, che a me pareva essere in una bella e dilettevole selva ed in quella andar cacciando, ed aver presa una cavriuola tanto bella e tanto piacevole quanto alcuna altra se ne vedesse giá mai: e pareami che ella fosse piú che la neve bianca ed in brieve spazio divenisse sì mia dimestica, che punto da me non si partiva tuttavia. A me pareva averla sì cara, che, acciò che da me non si partisse, le mi pareva nella gola aver messo un collar d’oro, e quella con una catena d’oro tener con le mani. Ed appresso questo, mi pareva che, riposandosi questa cavriuola una volta e tenendomi il capo in seno, uscisse non so di che parte una veltra nera come carbone, affamata e spaventevole molto nell’apparenza, e verso me se ne venisse, alla quale niuna resistenza mi parea fare; per che egli mi pareva che ella mi mettesse il muso in seno nel sinistro lato, e quello tanto rodesse, che al cuor perveniva, il quale pareva che ella mi strappasse per portarsel via. Di che io sentiva si fatto dolore, che il mio sonno si ruppe, e desto, con la mano subitamente corsi a cercarmi il lato se niente v’avessi: ma mal non trovandomivi, mi feci beffe di me stesso che cercato v’avea. Ma che vuol questo per ciò dire? De’ cosí fatti e de’ piú spaventevoli assai n’ho giá veduti, né per ciò cosa del mondo né piú né meno me n’è intervenuto: e per ciò lasciángli andare e pensiamo di darci buon tempo. — La giovane, per lo suo sogno assai spaventata, udendo questo, divenne troppo piú: ma per non esser cagione d’alcuno sconforto a Gabriotto, quanto piú poté la sua paura nascose; e come che con lui abbracciandolo e basciandolo alcuna volta e da lui essendo abbracciata e basciata si sollazzasse, sospettando e non sappiendo che, piú che l’usato spesse volte il riguardava nel volto, e talvolta per lo giardin riguardava se alcuna cosa nera vedesse venir d’alcuna parte. Ed in tal maniera dimorando, Gabriotto, gittato un gran sospiro, l’abbracciò e disse: — Oimè! anima mia, aiutami, che io muoio — e cosí detto, ricadde in terra sopra l’erba del pratello. Il che veggendo la giovane e lui caduto ritirandosi in grembo, quasi piagnendo disse: — O signor mio dolce, o che ti senti tu? — Gabriotto non rispose, ma ansando forte e sudando tutto, dopo non guari di spazio passò della presente vita. Quanto questo fosse grave e noioso alla giovane che piú che sé l’amava, ciascuna sel dèe poter pensare. Ella il pianse assai, ed assai volte invano il chiamò: ma poi che pur s’accorse lui del tutto esser morto, avendolo per ogni parte del corpo cercato ed in ciascuna trovandolo freddo, non sappiendo che far né che dirsi, cosí lagrimosa come era e piena d’angoscia andò la sua fante a chiamare, la quale di questo amor consapevole era, e la sua miseria ed il suo dolore le dimostrò. E poi che miseramente insieme alquanto ebber pianto sopra il morto viso di Gabriotto, disse la giovane alla fante: — Poi che Iddio m’ha tolto costui, io non intendo di piú stare in vita; ma prima che io ad uccidermi venga, vorrei io che noi prendessimo modo convenevole a servare il mio onore ed il segreto amore tra noi stato, e che il corpo, del quale la graziosa anima s’è partita, fosse sepellito. — A cui la fante disse: — Figliuola mia, non dir di volerti uccidere, per ciò che, se tu l’hai qui perduto, uccidendoti, anche nell’altro mondo il perderesti, perciò che tu n’andresti in inferno, lá dove io son certa che la sua anima non è andata, per ciò che buon giovane fu: ma molto meglio è a confortarti e pensare d’aiutare con orazioni o con altro bene l’anima sua, se forse per alcun peccato commesso n’ha bisogno. Del sepellirlo è il modo presto qui in questo giardino, il che niuna persona saprá giá mai, per ciò che niun sa che egli mai ci venisse; e se cosí non vuogli, mettiánlo qui fuori del giardino e lasciatilo stare: egli sará domattina trovato e portatone a casa sua e fatto sepellire da’ suoi parenti. — La giovane, quantunque piena fosse d’amaritudine e continuamente piagnesse, pure ascoltava i consigli della sua fante, ed alla prima parte non accordatasi, rispose alla seconda dicendo: — Giá Iddio non voglia che cosí caro giovane e cotanto da me amato, e mio marito, io sofferi che a guisa d’un cane sia sepellito o nella strada in terra lasciato. Egli ha avute le mie lagrime, ed in quanto io potrò egli avrá quelle de’ suoi parenti, e giá per l’animo mi va quello che noi abbiamo in ciò a fare. — E prestamente per una pezza di drappo di seta la quale aveva in un suo forziere la mandò: e venuta quella ed in terra distesala, sú il corpo di Gabriotto vi posero, e postagli la testa sopra uno origliere e con molte lagrime chiusigli gli occhi e la bocca, e fattagli una ghirlanda di rose e tutto da torno delle rose che colte avevano empiutolo, disse alla fante: — Di qui alla porta della sua casa ha poca via, e per ciò tu ed io, cosí come acconcio l’abbiamo, quivi il porteremo e dinanzi ad essa il porremo. Egli non andrá guari di tempo che giorno fía, e sará ricolto; e come che questo a’ suoi niuna consolazion sia, pure a me, nelle cui braccia egli è morto, sará un piacere. — E così detto, da capo con abbondantissime lagrime sopra il viso gli si gittò e per lungo spazio pianse; la qual molto dalla fante sollecitata, per ciò che il giorno se ne veniva, dirizzatasi, quello anello medesimo col quale da Gabriotto era stata sposata del dito suo trattosi, il mise nel dito di lui, con pianto dicendo: — Caro mio signore, se la tua anima ora le mie lagrime vede, e niuno conoscimento o sentimento dopo la partita di quella rimane a’ corpi, ricevi benignamente l’ultimo dono di colei la qual tu vivendo cotanto amasti. — E questo detto, tramortita, addosso gli ricadde; e dopo alquanto risentita e levatasi, con la fante insieme preso il drappo sopra il quale il corpo giaceva, con quello del giardino uscirono e verso la casa di lui si dirizzaro. E cosí andando, per caso avvenne che dalla famiglia del podestá, che per caso andava a quella ora per alcuno accidente, furon trovate e prese col morto corpo. L’Andreuola, piú di morte che di vita disiderosa, conosciuta la famiglia della signoria, francamente disse: — Io conosco chi voi siete e so che il volermi fuggire niente mont
erebbe; io son presta di venir con voi davanti alla signoria, e che ciò sia di raccontarle: ma niun di voi sia ardito di toccarmi, se io obediente vi sono, né da questo corpo alcuna cosa rimuovere, se da me non vuole essere accusato. — Per che, senza essere da alcun tócca, con tutto il corpo di Gabriotto n’andò in palagio; la qual cosa il podestá sentendo, si levò, e lei nella camera avendo, di ciò che intervenuto era s’informò: e fatto da certi medici riguardare se con veleno o altramenti fosse stato il buono uomo ucciso, tutti affermarono del no, ma che alcuna posta vicina al cuore gli s’era rotta, che affogato l’avea. Il quale, ciò udendo e sentendo costei in piccola cosa esser nocente, s’ingegnò di mostrar di donarle quello che vender non le potea, e disse, dove ella a’ suoi piaceri acconsentirsi volesse, la libererebbe. Ma non valendo quelle parole, oltre ad ogni convenevolezza volle usar la forza: ma l’Andreuola, da sdegno accesa e divenuta fortissima, virilmente si difese, lui con villane parole ed altiere ributtando indietro. Ma venuto il dí chiaro e queste cose essendo a messer Negro contate, dolente a morte, con molti de’ suoi amici a palagio n’andò, e quivi, d’ogni cosa dal podestá informato, dolendosi domandò che la figliuola gli fosse renduta. Il podestá, volendosi prima accusare egli della forza che fare l’avea voluta, che egli da lei accusato fosse, lodando prima la giovane e la sua costanza, per approvar quella venne a dir ciò che fatto avea; per la qual cosa, veggendola di tanta buona fermezza, sommo amore l’avea posto, e dove a grado a lui, che suo padre era, ed a lei fosse, nonostante che marito avesse avuto di bassa condizione, volentieri per sua donna la sposerebbe. In questo tempo che costoro cosí parlavano, l’Andreuola venne in cospetto del padre e piagnendo gli si gittò innanzi, e disse: — Padre mio, io non credo che bisogni che io l’istoria del mio ardire e della mia sciagura vi racconti, ché son certa che udita l’avete e sapetela; e per ciò quanto piú posso, umilmente perdono vi domando del fallo mio, cioè d’avere senza vostra saputa chi piú mi piacque marito preso: e questo perdono non vi domando perché la vita mi sia perdonata, ma per morire vostra figliuola e non vostra nemica. — E cosí detto, piagnendo gli cadde a’piedi. Messer Negro, che antico era oramai ed uomo di natura benigno ed amorevole, queste parole udendo cominciò a piagnere, e piagnendo levò la figliuola teneramente in piè, e disse: — Figliuola mia, io avrei avuto molto caro che tu avessi avuto tal marito quale a te secondo il parer mio si convenia; e se tu l’avevi tal preso quale egli ti piacea, questo doveva anche a me piacere: ma l’averlo occultato, della tua poca fidanza mi fa dolere, e piú ancora, veggendotel prima aver perduto che io l’abbia saputo. Ma pur, poi che cosí è, quello che io per contentarti, vivendo egli, volentieri gli avrei fatto, cioè onore sí come a mio genero, facciaglisi alla morte. — E vòlto a’ figliuoli ed a’ suoi parenti, comandò loro che l’esequie s’apparecchiassero a Gabriotto grandi ed onorevoli. Eranvi in questo mezzo concorsi i parenti e le parenti del giovane, che saputa avevano la novella, e quasi donne ed uomini quanti nella cittá v’erano; per che, posto nel mezzo della corte il corpo sopra il drappo dell’Andreuola e con tutte le sue rose, quivi non solamente da lei e dalle parenti di lui fu pianto, ma publicamente quasi da tutte le donne della cittá e da assai uomini, e non a guisa di plebeio ma di signore, tratto della corte publica, sopra gli omeri de’ piú nobili cittadini con grandissimo onore fu portato alla sepoltura. Quindi dopo alquanti dì, seguitando il podestá quello che addomandato avea, ragionandolo messer Negro alla figliuola, niuna cosa ne volle udire: ma volendole in ciò compiacere il padre, in un monistero assai famoso di santitá essa e la sua fante monache si renderono, ed onestamente poi in quello per molto tempo vissero.

  Novella settima

  [VII]

  LA SIMONA AMA Pasquino; sono insieme in uno orto; Pasquino si frega a’ denti una foglia di salvia, e muorsi; è presa la Simona, la quale, volendo mostrare al giudice come morisse Pasquino, fregatasi una di quelle foglie a’ denti, similmente si muore.

  Panfilo era della sua novella diliberato, quando il re, nulla compassion mostrando all’Andreuola, riguardando Emilia, sembianti le fe’ che a grado gli fosse che essa a coloro che detto aveano, dicendo, si continuasse; la quale senza alcuna dimora fare incominciò:

  Care compagne, la novella detta da Panfilo mi tira a doverne dire una in niuna altra cosa alla sua simile, se non che, come l’Andreuola nel giardino perdé l’amante, e cosí colei di cui dir debbo: e similmente presa, come l’Andreuola fu, non con forza né con vertú, ma con morte inoppinata si diliberò dalla corte. E come altra volta tra noi è stato detto, quantunque Amor volentieri le case de’ nobili uomini abiti, esso per ciò non rifiuta lo ‘mperio di quelle de’ poveri, anzi in quelle si alcuna volta le sue forze dimostra, che come potentissimo signore da’ piú ricchi si fa temere. Il che, ancora che non in tutto, in gran parte apparirá nella mia novella, con la qual mi piace nella nostra cittá rientrare, della quale questo dí, diverse cose diversamente parlando, per diverse parti del mondo avvolgendoci, cotanto allontanati ci siamo.

  Fu adunque, non è ancora gran tempo, in Firenze una giovane assai bella e leggiadra secondo la sua condizione, e di povero padre figliuola, la quale ebbe nome Simona: e quantunque le convenisse con le proprie braccia il pan che mangiar volea guadagnare, e filando lana sua vita reggesse, non fu per ciò di sí povero animo, che ella non ardisse a ricevere Amore nella sua mente, il quale con gli atti e con le parole piacevoli d’un giovanetto di non maggior peso di lei, che dando andava per un suo maestro lanaiuolo lana a filare, buona pezza mostrato aveva di volervi entrare. Ricevutolo adunque in sé col piacevole aspetto del giovane che l’amava, il cui nome era Pasquino, forte disiderando e non attentando di far piú avanti, filando, ad ogni passo di lana filata che al fuso avvolgeva mille sospiri piú cocenti che fuoco gittava, di colui ricordandosi che a filar gliele aveva data. Quegli, dall’altra parte, molto sollecito divenuto che ben si filasse la lana del suo maestro, quasi quella sola che la Simona filava, e non alcuna altra, tutta la tela dovesse compiere, lei piú spesso che l’altre sollecitava. Per che, l’un sollecitando ed all’altra giovando d’esser sollecitata, avvenne che, l’un piú d’ardir prendendo che aver non solea e l’altra molta della paura e della vergogna cacciando che d’avere era usata, insieme a’ piacer comuni si congiunsono; li quali tanto all’una parte ed all’altra aggradirono, che, non che l’un dall’altro aspettasse d’essere invitato a ciò, anzi a dovervi essere si faceva incontro l’uno all’altro invitando. E cosí questo lor piacer continuando d’un giorno in uno altro e sempre piú nel continuare accendendosi, avvenne che Pasquino disse alla Simona che del tutto egli voleva che ella trovasse modo di poter venire ad un giardino lá dove egli menarla voleva, acciò che quivi piú ad agio e con men sospetto potessero essere insieme. La Simona disse che le piaceva, e dato a vedere al padre, una domenica dopo mangiare, che andar voleva alla perdonanza a San Gallo, con una sua compagna chiamata la Lagina al giardino statole da Pasquino insegnato se n’andò, dove lui insieme con un suo compagno che Puccino avea nome, ma era chiamato lo Stramba, trovò: e quivi, fatto uno amorazzo nuovo tra lo Stramba e la Lagina, essi a far de’ lor piaceri in una parte del giardin si raccolsero, e lo Stramba e la Lagina lasciarono in un’altra. Era in quella parte del giardino dove Pasquino e la Simona andati se n’erano, un grandissimo e bel cesto di salvia; a piè della quale postisi a sedere e gran pezza sollazzatisi insieme, e molto avendo ragionato d’una merenda che in quello orto ad animo riposato intendevan di fare, Pasquino, al gran cesto della salvia rivolto, di quella colse una foglia e con essa s’incominciò a stropicciare i denti e le gengie, dicendo che la salvia molto bene gli nettava d’ogni cosa che sopra essi rimasa fosse dopo l’aver mangiato. E poi che cosí alquanto fregati gli ebbe, ritornò in sul ragionamento della merenda della qual prima diceva: né guari di spazio persegui ragionando, che egli s’incominciò tutto nel viso a cambiare, ed appresso il cambiamento non istette guari che egli perdé la vista e la parola, ed in brieve egli si morí. Le quali cose la Simona veggendo, cominciò a piagnere ed a gridare ed a chiamar lo Stramba e la Lagina; li quali prestamente lá corsi, e ve
ggendo Pasquino non solamente morto, ma giá tutto enfiato e pieno d’oscure macchie per lo viso e per lo corpo divenuto, subitamente gridò lo Stramba: — Ahi! malvagia femina, tu l’hai avvelenato! — E fatto il romor grande, fu da molti che vicini al giardino abitavan sentito; li quali, corsi al romore e trovando costui morto ed enfiato, ed udendo lo Stramba dolersi ed accusar la Simona che con inganno avvelenato l’avesse, ed ella, per lo dolore del subito accidente che il suo amante tolto avesse, quasi di sé uscita non sappiendosi scusare, fu reputato da tutti che cosí fosse come lo Stramba diceva; per la qual cosa presala, piagnendo ella sempre forte, al palagio del podestá ne fu menata. Quivi, prontando lo Stramba e l’Atticciato ed il Malagevole, compagni di Pasquino, che sopravvenuti erano, un giudice senza dare indugio alla cosa si mise ad esaminarla del fatto, e non potendo comprendere costei in questa cosa avere operata malizia né esser colpevole, volle, lei presente, vedere il morto corpo ed il luogo ed il modo da lei raccontatogli, per ciò che per le parole di lei nol comprendeva assai bene. Fattola adunque senza alcun tumulto colá menare dove ancora il corpo di Pasquino giaceva, gonfiato come una botte, ed egli appresso andatovi, maravigliatosi del morto, lei domandò come stato era. Costei, al cesto della salvia accostatasi ed ogni precedente istoria avendo raccontata, per pienamente dargli ad intendere il caso sopravvenuto, cosí fece come Pasquino avea fatto, una di quelle foglie di salvia fregatasi a’ denti. Le quali cose mentre che per lo Stramba e per l’Atticciato e per gli altri amici e compagni di Pasquino sí come frivole e vane, in presenza del giudice, erano schernite, e con piú istanza la sua malvagitá accusata, niuna altra cosa per lor domandandosi se non che il fuoco fosse di cosí fatta malvagitá punitore: la cattivella, che dal dolore del perduto amante e dalla paura della domandata pena dallo Stramba ristretta stava, per l’aversi la salvia fregata a’ denti, in quel medesimo accidente cadde che prima caduto era Pasquino, non senza gran maraviglia di quanti eran presenti. O felici anime, alle quali in un medesimo di addivenne il fervente amore e la mortal vita terminare; e piú felici, se insieme ad un medesimo luogo n’andaste; e felicissime, se nell’altra vita s’ama, e voi v’amate come di qua faceste! Ma molto piú felice l’anima della Simona innanzi tratto, quanto è al nostro giudicio che vivi dietro a lei rimasi siamo, la cui innocenza non patì la fortuna che sotto la testimonianza cadesse dello Stramba e dell’Atticciato e del Malagevole, forse scardassieri o piú vili uomini, piú onesta via trovandole, con pari sorte di morte al suo amante, a svilupparsi dalla loro infamia ed a seguitar l’anima tanto da lei amata del suo Pasquino. Il giudice, quasi tutto stupefatto dell’accidente insieme con quanti ve n’erano, non sappiendo che dirsi, lungamente soprastette, poi, in miglior senno rivenuto, disse: — Mostra che questa salvia sia velenosa, il che della salvia non suole avvenire. Ma acciò che ella alcuno altro offender non possa in simil modo, taglisi infino alle radici e mettasi nel fuoco. — La qual cosa colui che del giardino era guardiano in presenza del giudice faccendo, non prima abbattuto ebbe il gran cesto in terra, che la cagione della morte de’ due miseri amanti apparve. Era sotto il cesto di quella salvia una botta di maravigliosa grandezza, dal cui venenifero fiato avvisarono quella salvia esser velenosa divenuta. Alla qual botta non avendo alcuno ardire d’appressarsi, fattale dintorno una stipa grandissima, quivi insieme con la salvia l’arsero, e fu finito il processo di messer lo giudice sopra la morte di Pasquin cattivello. Il quale insieme con la sua Simona, cosí enfiati come erano, dallo Stramba e dall’Atticciato e da Guccio Imbratta e dal Malagevole furono nella chiesa di San Paolo sepelliti, della quale per avventura erano popolani.

 

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