Conclusione
Se le prime novelle li petti delle vaghe donne avevano contristati, questa ultima di Dioneo le fece ben tanto ridere, e spezialmente quando disse, lo stradicò aver l’uncino attaccato, che essi si poterono della compassione avuta dell’altre ristorare. Ma veggendo il re che il sole cominciava a farsi giallo ed il termine della sua signoria era venuto, con assai piacevoli parole alle belle donne si scusò di ciò che fatto avea, cioè d’aver fatto ragionare di materia cosí fiera come è quella della ‘nfelicitá degli amanti; e fatta la scusa, in piè si levò e della testa si tolse la laurea, ed aspettando le donne a cui porre la dovesse, piacevolemente sopra il capo biondissimo della Fiammetta la pose, dicendo: — Io pongo a te questa corona sí come a colei la quale meglio, dell’aspra giornata d’oggi, che alcuna altra con quella di domane queste nostre compagne racconsolar saprai. — La Fiammetta, li cui capelli eran crespi, lunghi e d’oro e sopra li candidi e dilicati omeri ricadenti, ed il viso ritondetto con un color vero di bianchi gigli e di vermiglie rose mescolati tutto splendido, con due occhi in testa che parean d’un falcon pellegrino e con una boccuccia piccolina li cui labbri parevan due rubinetti, sorridendo rispose: — Filostrato, ed io la prendo volentieri; ed acciò che meglio t’avveggi di quel che fatto hai, infino da ora voglio e comando che ciascun s’apparecchi di de ver doman ragionare di ciò che ad alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse. — La qual proposizione a tutti piacque: ed essa, fattosi il siniscalco venire e delle cose opportune con lui insieme avendo disposto, tutta la brigata, da seder levandosi, per infino all’ora della cena lietamente licenziò.
Costoro adunque, parte per lo giardino, la cui bellezza non era da dover troppo tosto rincrescere, e parte verso le mulina che fuor di quel macinavano, e chi qua e chi lá, a prender secondo i diversi appetiti diversi diletti si diedono infino all’ora della cena. La qual venuta, tutti raccolti, come usati erano, appresso della bella fonte, con grandissimo piacere e ben serviti cenarono; e da quella levatisi, sí come usati erano, al danzare ed al cantar si diedono, e menando Filomena la danza, disse la reina: — Filostrato, io non intendo deviare da’ miei passati, ma sí come essi hanno fatto, cosí intendo che per lo mio comandamento si canti una canzone: e per ciò che io son certa che tali sono le tue canzoni clienti sono le tue novelle, acciò che piú giorni che questo non sien turbati da’ tuoi infortuni, vogliamo che una ne dichi qual piú ti piace. — Filostrato rispose che volentieri, e senza indugio in cotal guisa cominciò a cantare:
Lagrimando dimostroÆæquanto si dolga con ragione il coreÆæd’esser tradito sotto fede Amore.ÆæAmore, allora che primieramenteÆæponesti in lui colei per cui sospiroÆæsenza sperar salute,Ææsì piena la mostrasti di vertute,Ææche lieve reputava ogni martiroÆæche per te nella mente,Ææch’è rimasa dolente,Ææfosse venuto: ma lo mio erroreÆæora conosco, e non senza dolore.Ææ Fatto m’ha conoscente dello ‘ngannoÆævedermi abbandonato da coleiÆæn cui sola sperava:Ææch’allora ch’io piú esser mi pensavaÆænella sua grazia e servidore a lei,Ææsenza mirare al dannoÆædel mio futuro affanno,Ææm’accorsi lei aver l’altrui valoreÆædentro raccolto, e me cacciato fore.Ææ Com’io conobbi me di fuor cacciato,Æænacque nel core un pianto dolorosoÆæche ancor vi dimora:Ææe spesso maladico il giorno e l’oraÆæche pria m’apparve il suo viso amorosoÆæd’alta biltate ornatoÆæe piú che mai infiammato;Ææla fede mia, la speranza e l’ardoreÆæva bestemmiando l’anima che more.Ææ Quanto ‘l mio duol senza conforto sia,Ææsignor, tu ‘l puoi sentir, tanto ti chiamoÆæcon dolorosa voce;
e dicoti che tanto e si mi cuoce,Ææche per minor martir la morte bramo:Æævenga adunque, e la miaÆævita crudele e riaÆætermini col suo colpo, e ‘l mio furore,Ææch’ove ch’io vada il sentirò minore.Ææ Nulla altra via, niuno altro confortoÆæmi resta piú che morte alla mia doglia:Æædállami adunque omai,Ææpon’ fine, Amor, con essa alli miei guai,Ææe ‘l cuor di vita sì misera spoglia;Æædeh! fallo, poi ch’a tortoÆæm’è gioi tolta e diporto;Ææfa’ costei lieta morend’io, signore,Ææcome l’hai fatta di nuovo amadore.Ææ Ballata mia, se alcun non t’apparaÆæio non men curo, per ciò che nessuno,Ææcom’io, ti può cantare;Ææuna fatica sola ti vo’ dare:Ææche tu ritruovi Amore, e a lui solo uno,Ææquanto mi sia discaraÆæla trista vita amaraÆædimostri appien, pregandol che ‘n miglioreÆæporto ne ponga per lo suo onore.
Dimostrarono le parole di questa canzone assai chiaro qual fosse l’animo di Filostrato, e la cagione: e forse piú dichiarato l’avrebbe l’aspetto di tal donna nella danza era, se le tenebre della sopravvenuta notte il rossore nel viso di lei venuto non avesser nascoso. Ma poi che egli ebbe a quella posta fine, molte altre cantate ne furono infino a tanto che l’ora dell’andare a dormir sopravvenne; per che, comandandolo la reina, ciascuno alla sua camera si raccolse.
Quinta giornata
INTRODUZIONE
Novella PRIMA
Cimone amando divien savio, ed Efigenia sua donna rapisce in mare; è messo in Rodi in prigione, onde Lisimaco il trae, e da capo con lui rapisce Efigenia e Cassandra nelle lor nozze, fuggendosi con esse in Creti; e quindi, divenute lor mogli, con esse a casa loro son richiamati.
Novella seconda
Gostanza ama Martuccio Gomito, la quale, udendo che morto era, per disperata sola si mette in una barca, la quale dal vento fu trasportata a Susa; ritruoval vivo in Tunisi, palesaglisi, ed egli grande essendo col re per consigli dati, sposatala, ricco con lei in Lipari se ne torna.
Novella terza
Pietro Boccamazza si fugge con l’Agnolella; truova ladroni; la giovane fugge per una selva, ed è condotta ad un castello; Pietro è preso e delle mani de’ ladroni fugge, e dopo alcuno accidente, capita a quel castello dove l’Agnolella era, e sposatala con lei se ne torna a Roma.
Novella quarta
Ricciardo Manardi è trovato da messer Lizio da Valbona con la figliuola, la quale egli sposa, e col padre di lei rimane in buona pace.
Novella quinta
Guidotto da Cremona lascia a Giacomin da Pavia una fanciulla, e muorsi; la quale Giannol di Severino e Minghino di Mingole amano in Faenza; azzuffansi insieme; riconoscesi la fanciulla esser sirocchia di Giannole, e dassi per moglie a Minghino.
Novella sesta
Gian di Procida trovato con una giovane amata da lui, e stata data al re Federigo, per dovere essere arso con lei è legato ad un palo; riconosciuto da Ruggieri de Loria, campa e divien marito di lei.
Novella settima
Teodoro, innamorato della Violante figliuola di messere Amerigo suo signore, la ‘ngravida ed è alle forche condannato; alle quali frustandosi essendo menato, dal padre riconosciuto e prosciolto, prende per moglie la Violante.
Novella ottava
Nastagio degli Onesti, amando una de’ Traversari, spende le sue ricchezze senza essere amato. Vassene, pregato da’ suoi, a Chiassi; quivi vede cacciare ad un cavaliere una giovane e ucciderla e divorarla da due cani. Invita i parenti suoi e quella donna amata da lui ad un desinare, la quale vede questa medesima giovane sbranare; e temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio.
Novella nona
Federigo degli Alberighi ama e non è amato e in cortesia spendendo si consuma e rimangli un sol falcone, il quale, non avendo altro dà a mangiare alla sua donna venutagli a casa; la quale, ciò sappiendo, mutata d’animo, il prende per marito e fallo ricco.
Novella decima
Pietro di Vinciolo va a cenare altrove; la donna sua si fa venire un garzone; torna Pietro; ella il nasconde sotto una cesta da polli; Pietro dice essere stato trovato in casa d’Ercolano, con cui cenava, un giovane messovi dalla moglie; la donna biasima la moglie d’Ercolano; uno asino per isciagura pon piede in su le dita di colui che era sotto la cesta; egli grida; Pietro corre là, vedelo cognosce lo ‘nganno della moglie con la quale ultimamente rimane in concordia per la sua tristezza.
Conclusione
Introduzione
FINISCE LA QUARTA GIORNATA DEL DECAMERON; INCOMINCIA LA QUINTA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI FIAMMETTA, SI RAGI
ONA DI CIÒ CHE AD ALCUNO AMANTE, DOPO ALCUNI FIERI O SVENTURATI ACCIDENTI, FELICEMENTE AVVENISSE.
ERA GIÁ L’ORIENTE tutto bianco e li surgenti raggi per tutto il nostro emisperio avevan fatto chiaro, quando Fiammetta, da’ dolci canti degli uccelli li quali la prima ora del giorno su per gii albuscelli tutti lieti cantavano, incitata, sú si levò, e tutte l’altre ed i tre giovani fece chiamare: e con soave passo a’ campi discesa, per l’ampia pianura su per le rugiadose erbe, infino a tanto che alquanto il sol fu alzato, con la sua compagnia, d’una cosa e d’altra con lor ragionando, diportando s’andò. Ma sentendo che giá i solar raggi si riscaldavano, verso la loro stanza volse i passi; alla qual pervenuti, con ottimi vini e con confetti il leggero affanno avuto fe’ ristorare, e per lo dilettevole giardino infino all’ora del mangiare si diportarono. La qual venuta, essendo ogni cosa dal discretissimo siniscalco apparecchiata, poi che alcuna stampita ed una ballatetta o due furon cantate, lietamente, secondo che alla reina piacque, si misero a mangiare: e quello ordinatamente e con letizia fatto, non dimenticato il preso ordine del danzare, e con gli strumenti e con le canzoni alquante danzette fecero. Appresso alle quali, infino a passata l’ora del dormire la reina licenziò ciascuno; de’ quali alcuni a dormire andarono ed altri al lor sollazzo per lo bel giardino si rimasero. Ma tutti, un poco passata la nona, quivi, come alla reina piacque, vicini alla fonte secondo l’usato modo si ragunarono: ed essendosi la reina a seder posta prò tribunali, verso Panfilo riguardando, sorridendo a lui impose che principio desse alle felici novelle; il quale a ciò volentier si dispose, e cosí disse:
Novella prima
[I]
CIMONE AMANDO DIVIEN savio, ed Efigenia sua donna rapisce in mare; è messo in Rodi in prigione, onde Lisimaco il trae, e da capo con lui rapisce Efigenia e Cassandrea nelle lor nozze, fuggendosi con esse in Creti; e quindi, divenute lor mogli, con esse a casa loro son richiamati.
Molte novelle, dilettose donne, a dover dar principio a cosí lieta giornata come questa sará, per dovere essere da me raccontate mi si paran davanti; delle quali una piú nell’animo me ne piace, per ciò che per quella potrete comprendere non solamente il felice fine per lo quale a ragionare incominciamo, ma quanto sien sante, quanto poderose e di quanto ben piene le forze d’Amore, le quali molti, senza saper che si dicano, dannano e vituperano a gran torto; il che, se io non erro, per ciò che innamorate credo che siate, molto vi dovrá esser caro.
Adunque, sí come noi nell’antiche istorie de’ cipriani abbiam giá letto, nell’isola di Cipri fu un nobilissimo uomo il quale per nome fu chiamato Aristippo, oltre ad ogni altro paesano di tutte le temporali cose ricchissimo: e se d’una cosa sola non l’avesse la fortuna fatto dolente, piú che altro si potea contentare. E questo era, che egli, tra gli altri suoi figliuoli, n’aveva uno il quale di grandezza e di bellezza di corpo tutti gli altri giovani trapassava, ma quasi matto era e di perduta speranza, il cui vero nome era Galeso: ma per ciò che mai né per fatica di maestro né per lusinga o battitura del padre o ingegno d’alcuno altro gli s’era potuto metter nel capo né lettera né costume alcuno, anzi con la voce grossa e deforme e con modi piú convenienti a bestia che ad uomo, quasi per ischerno da tutti era chiamato Cimone, il che nella lor lingua sonava quanto nella nostra «bestione». La cui perduta vita il padre con gravissima noia portava; e giá essendosi ogni speranza a lui di lui fuggita, per non aver sempre davanti la cagione del suo dolore, gli comandò che alla villa n’andasse e quivi co’ suoi lavoratori si dimorasse; la qual cosa a Cimone fu carissima, per ciò che i costumi e l’usanze degli uomini grossi gli eran piú a grado che le cittadine. Andatosene adunque Cimone alla villa, e quivi nelle cose pertinenti a quella esercitandosi, avvenne che un giorno, passato giá il mezzodí, passando egli da una possessione ad un’altra con un suo bastone in collo, entrò in un boschetto il quale era in quella contrada bellissimo, e per ciò che del mese di maggio era, tutto era fronzuto; per lo quale andando, s’avvenne, sí come la sua fortuna il vi guidò, in un pratello d’altissimi alberi circuito, nell’un de’ canti del quale era una bellissima fontana e fredda, allato alla quale vide sopra il verde prato dormire una bellissima giovane con un vestimento indosso tanto sottile, che quasi niente delle candide carni nascondea: ed era solamente dalla cintura ingiú coperta d’una coltre bianchissima e sottile; ed a’ piè di lei similmente dormivano due femine ed uno uomo, servi di questa giovane. La quale come Cimon vide, non altramenti che se mai piú forma di femina veduta non avesse, fermatosi sopra il suo bastone, senza dire alcuna cosa, con ammirazion grandissima la ‘ncominciò intentissimo a riguardare: e nel rozzo petto, nel quale per mille ammaestramenti non era alcuna impressione di cittadinesco piacere potuta entrare, sentì destarsi un pensiero il quale nella materiale e grossa mente gli ragionava, costei essere la piú bella cosa che giá mai per alcun vivente veduta fosse. E quinci cominciò a distinguer le parti di lei, lodando i capelli, li quali d’oro estimava, la fronte, il naso e la bocca, la gola e le braccia, e sommamente il petto, poco ancora rilevato: e di lavoratore, di bellezza subitamente giudice divenuto, seco sommamente disiderava di veder gli occhi, li quali ella, da alto sonno gravati, teneva chiusi: e per vedergli, piú volte ebbe volontá di destarla. Ma parendogli oltre modo piú bella che l’altre femine per addietro da lui vedute, dubitava non fosse alcuna dea: e pur tanto di sentimento avea, che egli giudicava le divine cose essere di piú reverenza degne che le mondane, e per questo si riteneva, aspettando che da se medesima si svegliasse; e come che lo ‘ndugio gli paresse troppo, pur, da non usato piacer preso, non si sapeva partire. Avvenne adunque che dopo lungo spazio la giovane, il cui nome era Efigenia, prima che alcun de’ suoi si risentì, e levato il capo ed aperti gli occhi, e veggendosi sopra il suo bastone appoggiato star davanti Cimone, si maravigliò forte, e disse: — Cimone, che vai tu a questa ora per questo bosco cercando? — Era Cimone, sì per la sua forma e sì per la sua rozzezza e sì per la nobiltá e ricchezza del padre, quasi noto a ciascun del paese. Egli non rispose alle parole d’Efigenia alcuna cosa: ma come gli occhi di lei vide aperti, cosí in quegli fiso cominciò a guardare, seco stesso parendogli che da quegli una soavitá si movesse la quale il riempiesse di piacere mai da lui non provato. Il che la giovane veggendo, cominciò a dubitare non quel suo guardar così fiso movesse la sua rusticitá ad alcuna cosa che vergogna le potesse tornare; per che, chiamate le sue femine, si levò su dicendo: — Cimone, riman’ti con Dio. — A cui allora Cimon rispose: — Io ne verrò teco. — E quantunque la giovane sua compagnia rifiutasse, sempre di lui temendo, mai da sé partir noi potè infino a tanto che egli non l’ebbe infino alla casa di lei accompagnata: e di quindi n’andò a casa il padre, affermando sé in niuna guisa piú in villa voler ritornare; il che quantunque grave fosse al padre ed a’ suoi, pure il lasciarono stare, aspettando di vedere qual cagion fosse quella che fatto gli avesse mutar consiglio. Essendo adunque a Cimone nel cuore, nel quale niuna dottrina era potuta entrare, entrata la saetta d’Amore per la bellezza d’Efigenia, in brevissimo tempo, d’uno in altro pensier pervenendo, fece maravigliare il padre e tutti i suoi e ciascuno altro che il conoscea. Egli primieramente richiese il padre che il facesse andare di vestimenti e d’ogni altra cosa ornato come i fratelli di lui andavano, il che il padre contentissimo fece. Quindi, usando co’ giovani valorosi ed udendo i modi li quali a’ gentili uomini si convenieno, e massimamente agl’innamorati, prima, con grandissima ammirazione d’ognuno, in assai brieve spazio di tempo non solamente le prime lettere apparò, ma valorosissimo tra’ filosofanti divenne; ed appresso questo, essendo di tutto ciò cagione l’amore il quale ad Efigenia portava, non solamente la rozza voce e rustica in convenevole e cittadina ridusse, ma di canto divenne maestro e di suono, e nel cavalcare e nelle cose belliche, cosí marine come di terra, espertissimo e feroce divenne. Ed in brieve, acciò che io non vada ogni particular cosa delle sue vertú raccontando, egli non si compiè il quarto anno dal dí del suo primiero innamoramento, che egli riuscí il piú leggiadro ed il meglio costumato e con piú particulari vertú che altro giovane alcuno che nell’isola fosse d
i Cipri. Che adunque, piacevoli donne, diremo di Cimone? Certo niuna altra cosa se non che l’alte vertú dal cielo infuse nella valorosa anima fossono da invidiosa fortuna in piccolissima parte del suo cuore con legami fortissimi legate e racchiuse, li quali tutti amor ruppe e spezzò, sí come molto piú potente di lei; e come eccitatore degli addormentati ingegni, quelle da crudele obumbrazione offuscate con la sua forza sospinse in chiara luce, apertamente mostrando di che luogo tragga gli spiriti a lui suggetti ed in quale gli conduca co’ raggi suoi. Cimone adunque, quantunque, amando Efigenia, in alcune cose, sí come i giovani amanti molto spesso fanno, trasandasse, nondimeno Aristippo, considerando che amor l’avesse di montone fatto tornare uno uomo, non solo pazientemente il sostenea, ma in seguir ciò in tutti i suoi piaceri il confortava. Ma Cimone, che d’esser chiamato Galeso rifiutava, ricordandosi che cosí da Efigenia era stato chiamato, volendo onesto fine porre al suo disio, piú volte fece tentare Cipseo, padre d’Efigenia, che lei per moglie gli dovesse dare: ma Cipseo rispose sempre, sé averla promessa a Pasimunda, nobile giovane rodiano, al quale non intendeva venirne meno. Ed essendo delle pattovite nozze d’Efigenia venuto il tempo, ed il marito mandato per lei, disse seco Cimone: — Ora è tempo di mostrare, o Efigenia, quanto tu sii da me amata. Io son per te divenuto uomo, e se io ti posso avere, io non dubito di non divenire piú glorioso che alcuno iddio: e per certo io t’avrò o io morrò. — E cosí detto, tacitamente alquanti nobili giovani richesti che suoi amici erano, e fatto segretamente un legno armare con ogni cosa opportuna a battaglia navale, si mise in mare, attendendo il legno sopra il quale Efigenia trasportata doveva essere in Rodi al suo marito. La quale, dopo molto onore fatto dal padre di lei agli amici del marito, entrata in mare, verso Rodi dirizzaron la proda ed andâr via. Cimone, il quale non dormiva, il dì seguente col suo legno gli sopraggiunse, e d’in su la proda a quegli che sopra il legno d’Efigenia erano, forte gridò: — Arrestatevi, calate le vele, o voi aspettate d’esser vinti e sommersi in mare. — Gli avversari di Cimone avevano l’armi tratte sopra coverta e di difendersi s’apparecchiavano; per che Cimone, dopo le parole preso un rampicone di ferro, quello sopra la poppa de’ rodiani, che via andavan forte, gittò, e quella alla proda del suo legno per forza congiunse: e fiero come un leone, senza altro séguito d’alcuno aspettare, sopra la nave de’ rodian saltò, quasi tutti per niente gli avesse, e spronandolo amore, con maravigliosa forza tra’ nemici con un coltello in man si mise, ed or questo ed or quello fedendo, quasi pecore gli abbattea. Il che veggendo i rodiani, gittando in terra l’armi, quasi ad una voce tutti si confessaron prigioni. Alli quali Cimon disse: — Giovani uomini, né vaghezza di preda né odio che io abbia contra di voi mi fece partir di Cipri a dovervi in mezzo mare con armata mano assalire: quello che mi mosse è a me grandissima cosa ad avere acquistata ed a voi è assai leggera a concederlami con pace, e cioè Efigenia da me sopra ogni altra cosa amata, la quale non potendo io avere dal padre di lei come amico e con pace, da voi come nemico e con l’armi m’ha costretto amore ad acquistarla; e per ciò intendo io d’esserle quello che esserle dovea il vostro Pasimunda: datelami, ed andate con la grazia di Dio. — I giovani, li quali piú forza che liberalitá costrignea, piagnendo Efigenia a Cimon concedettono; il quale, veggendola piagnere, disse: — Nobile donna, non ti sconfortare; io sono il tuo Cimone, il quale per lungo amore t’ho molto meglio meritata d’avere che Pasimunda per promessa fede. — Tornossi adunque Cimone, lei giá avendo sopra la sua nave fatta portare, senza alcuna altra cosa toccare de’ rodiani, a’ suoi compagni, e loro lasciò andare. Cimone adunque, piú che altro uomo contento dell’acquisto di cosí cara preda, poi che alquanto di tempo ebbe posto in dover lei piagnente racconsolare, diliberò co’ suoi compagni non essere da tornare in Cipri al presente; per che, di pari diliberazion di tutti, verso Creti, dove quasi ciascuno, e massimamente Cimone, per antichi parentadi e novelli e per molta amistá si credevano insieme con Efigenia esser sicuri, dirizzaron la proda della lor nave. Ma la fortuna, la quale assai lietamente l’acquisto della donna avea conceduto a Cimone, non istabile, subitamente in tristo ed amaro pianto mutò l’inestimabile letizia dello ‘nnamorato giovane. Egli non erano ancora quattro ore compiute poi che Cimone li rodiani aveva lasciati, quando, sopravvegnente la notte, la quale Cimone piú piacevole che alcuna altra sentita giá mai aspettava, con essa insieme surse un tempo fierissimo e tempestoso, il quale il cielo di nuvoli ed il mare di pistilenziosi venti riempié; per la qual cosa né poteva alcun veder che si fare o dove andarsi, né ancora sopra la nave tenersi a dover fare alcun servigio. Quanto Cimone di ciò si dolesse, non è da domandare. Egli pareva che gl’iddii gli avessero conceduto il suo disio acciò che piú noia gli fosse il morire, del quale senza esso prima si sarebbe poco curato. Dolevansi similmente i suoi compagni, ma sopra tutti si doleva Efigenia, forte piagnendo ed ogni percossa dell’onda temendo: e nel suo pianto aspramente maladiceva l’amor di Cimone e biasimava il suo ardire, affermando, per niuna altra cosa quella tempestosa fortuna esser nata, se non perché gl’iddii non volevano che colui il quale lei contra li lor piaceri voleva aver per isposa, potesse del suo presuntuoso disidèro godere, ma veggendo lei prima morire, egli appresso miseramente morisse. Con cosí fatti lamenti e con maggiori, non sappiendo che farsi i marinari, divenendo ognora il vento piú forte, senza sapere o conoscere dove s’andassero, vicini all’isola di Rodi pervennero: né conoscendo per ciò che Rodi si fosse quella, con ogni ingegno, per campar le persone, si sforzarono di dovere in essa pigliar terra, se si potesse. Alla qual cosa la fortuna fu favorevole, e lor perdusse in un piccolo seno di mare nel quale poco avanti a loro li rodiani stati da Cimon lasciati erano con la lor nave pervenuti: né prima s’accorsero sé avere all’isola di Rodi afferrato, che, surgendo l’aurora ed alquanto rendendo il cielo piú chiaro, si videro forse per una tratta d’arco vicini alla nave il giorno davanti da lor lasciata; della qual cosa Cimone senza modo dolente, temendo non gli avvenisse quello che gli avvenne, comandò che ogni forza si mettesse ad uscir quindi, e poi dove alla fortuna piacesse, gli trasportasse, per ciò che in alcuna parte peggio che quivi esser non poteano. Le forze si misero grandi a dovere di quindi uscire, ma invano: il vento potentissimo poggiava in contrario, intanto che, non che essi del piccol seno uscir potessero, ma, o volessero o no, gli sospinse alla terra. Alla quale come pervennero, dalli marinari rodiani della lor nave discesi furono riconosciuti; de’ quali prestamente alcun corse ad una villa ivi vicina dove i nobili giovani rodiani n’erano andati, e loro narrò, quivi Cimone con Efigenia sopra la lor nave per fortuna, sí come loro, essere arrivati. Costoro, udendo questo lietissimi, presi molti degli uomini della villa, prestamente furono al mare: e Cimone che, giá co’ suoi disceso, aveva preso consiglio di fuggire in alcuna selva vicina, insieme tutti con Efigenia furon presi ed alla villa menati, e di quindi, venuto dalla cittá Lisimaco, appo il quale quello anno era il sommo maestrato de’ rodiani, con grandissima compagnia d’uomini d’arme, Cimone ed i suoi compagni tutti ne menò in prigione, sí come Pasimunda, al quale le novelle eran venute, aveva col senato di Rodi, dolendosi, ordinato. In cosí fatta guisa il misero ed innamorato Cimone perdé la sua Efigenia poco davanti da lui guadagnata, senza altro averle tolto che alcun bascio. Efigenia da molte nobili donne di Rodi fu ricevuta e riconfortata sí del dolore avuto della sua presura e sí della fatica sostenuta del turbato mare, ed appo quelle stette infino al giorno diterminato alle sue nozze. A Cimone ed a’ suoi compagni, per la libertá il dí davanti data a’ giovani rodiani, fu donata la vita, la qual Pasimunda a suo poter sollecitava di far lor tôrre, ed a prigion perpetua fûr dannati; nella quale, come si può credere, dolorosi stavano e senza speranza mai d’alcun piacere. Pasimunda quanto poteva l’apprestamento sollecitava delle future nozze: ma la fortuna, quasi pentuta della subita ingiuria fatta a Cimone, nuovo accidente produsse per la sua salute. Aveva Pasimunda un fratello, minor di tempo di lui ma non di vertú, il quale avea nome Ormisda, stato in lungo trattato di dover tôrre per moglie una nobile giovane e bella della cittá, ed era chiamata Cassandrea, la quale Lisimaco somm
amente amava: ed erasi il matrimonio per diversi accidenti piú volte frastornato. Ora, veggendosi Pasimunda per dovere con grandissima festa celebrare le sue nozze, pensò ottimamente esser fatto se in questa medesima festa, per non tornare piú alle spese ed al festeggiare, egli potesse fare che Ormisda similmente menasse moglie; per che co’ parenti di Cassandrea rincominciò le parole e perdussele ad effetto, ed insieme egli ed il fratello con loro diliberarono che quel medesimo di che Pasimunda menasse Efigenia, quello Ormisda menasse Cassandrea. La qual cosa sentendo Lisimaco, oltre modo gli dispiacque, per ciò che si vedeva della sua speranza privare, nella quale portava, se Ormisda non la prendesse, fermamente doverla avere egli: ma sí come savio, la noia sua dentro tenne nascosa, e cominciò a pensare in che maniera potesse impedire che ciò non avesse effetto, né alcuna via vide possibile se non il rapirla. Questo gli parve agevole per l’uficio il quale aveva, ma troppo piú disonesto il reputava che se l’uficio non avesse avuto: ma in brieve, dopo lunga diliberazione, l’onestá die’ luogo ad amore, e prese per partito, che che avvenirne dovesse, di rapir Cassandrea. E pensando della compagnia che a far questo dovesse avere e dell’ordine che tener dovesse, si ricordò di Cimone il quale co’ suoi compagni in prigione avea, ed imaginò, niuno altro compagno migliore né piú fido dover potere avere che Cimone in questa cosa; per che la seguente notte occultamente nella sua camera il fe’ venire e cominciògli in cotal guisa a favellare: — Cimone, cosí come gl’iddíi sono ottimi e liberali donatori delle cose agli uomini, cosí sono sagacissimi provatori delle lor vertú, e coloro li quali essi truovano fermi e costanti a tutti i casi, sí come piú valorosi, di piú alti meriti fanno degni. Essi hanno della tua vertú voluta piú certa esperienza che quella che per te si fosse potuta mostrare dentro a’ termini della casa del padre tuo, il quale io conosco abbondantissimo di ricchezze: e prima con le pugnenti sollecitudini d’amore da insensato animale, sí come io ho inteso, ti recarono ad essere uomo, poi con dura fortuna ed al presente con noiosa prigione voglion veder se l’animo tuo si muta da quello che era quando poco tempo lieto fosti della guadagnata preda; il quale se quel medesimo è che giá fu, niuna cosa tanto lieta ti prestarono quanto è quella che al presente s’apparecchiano a donarti, la quale, acciò che tu l’usate forze ripigli e divenghi animoso, io intendo di dimostrarti. Pasimunda, lieto della tua disavventura e sollecito procuratore della tua morte, quanto può s’affretta di celebrare le nozze della tua Efigenia, acciò che in quelle goda della preda la qual prima lieta fortuna t’avea conceduta e subitamente turbata ti tolse; la qual cosa quanto ti debba dolere se cosí ami come io credo, per me medesimo il conosco, al quale pari ingiuria alla tua in un medesimo giorno Ormisda suo fratello s’apparecchia di fare a me di Cassandrea, la quale io sopra tutte l’altre cose amo. Ed a fuggire tanta ingiuria e tanta noia della fortuna, niuna via ci veggio da lei essere stata lasciata aperta se non la vertú de’ nostri animi e delle nostre destre, nelle quali aver ci convien le spade e farci far via, a te alla seconda rapina ed a me alla prima delle due nostre donne; per che, se la tua, non vo’ dir libertá, la qual credo che poco senza la tua donna curi, ma la tua donna t’è cara di riavere, nelle tue mani, volendo me alla mia impresa seguire, l’hanno posta gl’iddii. — Queste parole tutto feciono lo smarrito animo ritornare in Cimone, e senza troppo rispitto prendere alla risposta, disse: — Lisimaco, né piú forte né piú fido compagno di me puoi avere a cosí fatta cosa, se quel me ne dèe seguire che tu ragioni: e per ciò quello che a te pare che per me s’abbia a fare, impon’lomi, e vedera’ti con maravigliosa forza seguire. — Al quale Lisimaco disse: — Oggi al terzo dì le novelle spose entreranno primieramente nelle case de’ lor mariti, nelle quali tu co’ tuoi compagni armato ed io con alquanti miei ne’ quali io mi fido assai, in sul far della sera entreremo, e quelle del mezzo de’ conviti rapite, ad una nave la quale io ho fatta segretamente apprestare, ne meneremo, uccidendo chiunque ciò contrastar presummesse. — Piacque l’ordine a Cimone, e tacito infino al tempo posto si stette in prigione. Venuto il giorno delle nozze, la pompa fu grande e magnifica, ed ogni parte della casa de’ due fratelli fu di lieta festa ripiena. Lisimaco, ogni cosa opportuna avendo apprestata, Cimone ed i suoi compagni e similmente i suoi amici, tutti sotto i vestimenti armati, quando tempo gli parve, avendogli prima con molte parole al suo proponimento accesi, in tre parti divise, delle quali cautamente l’una mandò al porto, acciò che niun potesse impedire il salire sopra la nave quando bisognasse: e con l’altre due alle case di Pasimunda venuti, una ne lasciò alla porta, acciò che alcun dentro non gli potesse rinchiudere o a loro l’uscita vietare, e col rimanente insieme con Cimone montò su per le scale. E pervenuti nella sala dove le nuove spose con molte altre donne giá a tavola erano per mangiare assettate ordinatamente, fattisi innanzi e gittate le tavole in terra, ciascun prese la sua e nelle braccia de’ compagni messala, comandarono che alla nave apprestata le menassero di presente. Le novelle spose cominciarono a piagnere ed a gridare, ed il simigliante l’altre donne ed i servidori: e subitamente fu ogni cosa di romore e di pianto ripieno. Ma Cimone e Lisimaco ed i lor compagni, tirate le spade fuori, senza alcun contrasto data loro da tutti la via, verso le scale se ne vennero: e quelle scendendo, occorse lor Pasimunda, il quale con un gran bastone in mano al romor traeva, cui animosamente Cimone sopra la testa fedì e ricisegliele ben mezza, e morto sel fece cadere a’piedi; all’aiuto del quale correndo il misero Ormisda, similmente da un de’ colpi di Cimone fu ucciso, ed alcuni altri che appressarsi vollero, da’ compagni di Lisimaco e di Cimone fediti e ributtati indietro furono. Essi, lasciata piena la casa di sangue e di romore e di pianto e di tristizia, senza alcuno impedimento, stretti insieme con la loro rapina alla nave pervennero; sopra la quale messe le donne e saliti essi e tutti i lor compagni, essendo giá il lito pieno di gente armata che alla riscossa delle donne venia, dato de’ remi in acqua, lieti andaron pe’ fatti loro. E pervenuti in Creti, quivi da molti ed amici e parenti lietamente ricevuti furono, e sposate le donne e fatta la festa grande, lieti della loro rapina goderono.
Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 307