Collected Works of Giovanni Boccaccio

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Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 320

by Giovanni Boccaccio


  Egli non è ancora guari che in Napoli un povero uomo prese per moglie una bella e vaga giovanetta chiamata Peronella: ed esso con l’arte sua, che era muratore, ed ella filando, guadagnando assai sottilmente, la lor vita reggevano come potevano il meglio. Avvenne che un giovane de’ leggiadri, veggendo un giorno questa Peronella e piacendogli molto, s’innamorò di lei, e tanto in un modo ed in uno altro la sollecitò, che con essolei si dimesticò. Ed a potere essere insieme presero tra sé questo ordine, che, con ciò fosse cosa che il marito di lei si levasse ogni mattina per tempo, per andare a lavorare o a trovar lavorio, che il giovane fosse in parte che uscir lo vedesse fuori: ed essendo la contrada, che Avorio si chiama, molto solitaria, dove stava, uscito lui, egli in casa di lei se n’entrasse; e cosí molte volte fecero. Ma pur tra l’altre avvenne una mattina che, essendo il buono uomo fuori uscito, e Giannello Scrignario, che cosí aveva nome il giovane, entratogli in casa e standosi con Peronella, dopo alquanto, dove in tutto il dí tornar non soleva, a casa se ne tornò, e trovato l’uscio serrato dentro, picchiò e dopo il picchiare cominciò seco a dire: — O Iddio, lodato sii tu sempre, che, benché tu m’abbi fatto povero, almeno m’hai tu consolato di buona ed onesta giovane di moglie! Vedi come ella tosto serrò l’uscio dentro, come io ci uscii, acciò che alcuna persona entrar non ci potesse, che noia le desse. — Peronella, sentito il marito, che al modo del picchiare il conobbe, disse: — Oimè! Giannel mio, io son morta, ché ecco il marito mio, che tristo il faccia Iddio, che ci tornò, e non so che questo si voglia dire: ché egli non ci tornò mai piú a questa otta; forse che ti vide egli quando tu c’entrasti! Ma per l’amore di Dio, come che il fatto sia, entra in cotesto doglio che tu vedi costi, ed io gli andrò ad aprire, e veggiamo quello che questo vuol dire, di tornare stamane cosí tosto a casa. — Giannello prestamente entrò nel doglio, e Peronella, andata all’uscio, apri al marito, e con un mal viso disse: — Ora questa che novella è, che tu cosí tosto torni a casa stamane? Per quello che mi paia vedere, tu non vuogli oggi far nulla, che io ti veggio tornare co’ ferri tuoi in mano: e se tu fai così, di che viveretn noi? onde avrem noi del pane? Credi tu che io sofferi che tu m’impegni la gonnelluccia e gli altri miei pannicelli, che non fo il dì e la notte altro che filare, tanto che la carne mi s’è spiccata dall’unghia, per potere almeno aver tanto olio, che n’arda la nostra lucerna? Marito marito, egli non ci ha vicina che non se ne maravigli e che non facci beffe di me di tanta fatica quanta è quella che io duro: e tu mi torni a casa con le mani spenzolate, quando tu dovresti essere a lavorare! — E cosí detto, incominciò a piagnere ed a dir da capo: — Oimè, lassa me, dolente me! in che malora nacqui! in che mal punto ci venni, che avrei potuto avere un giovane cosi da bene e nol volli, per venire a costui, che non pensa cui egli s’ha menata a casa! L’altre si danno buon tempo con gli amanti loro, e non ce n’ha niuna che non n’abbia chi due e chi tre, e godono, e mostrano a’ mariti la luna per lo sole: ed io, misera me! perché son buona e non attendo a cosí fatte novelle, ho male e mala ventura. Io non so perché io non mi pigli di questi amanti come fanno l’altre. Intendi sanamente, marito mio, che, se io volessi far male, io troverei ben con cui, ché egli ci son de’ ben leggiadri che m’amano e voglionmi bene ed hannomi mandato profferendo dimolti denari, o voglio io robe o gioie, né mai mel sofferse il cuore, per ciò che io non fui figliuola di donna da ciò: e tu mi torni a casa quando tu dèi essere a lavorare! — Disse il marito: — Deh! donna, non ti dar malinconia, per Dio; tu dèi credere che io conosco chi tu se’, e pure stamane me ne sono in parte avveduto. Egli è il vero che io andai per lavorare, ma egli mostra che tu nol sappi, come io medesimo noi sapeva: egli è oggi la festa di san Galeone e non si lavora, e per ciò mi sono tornato a questa ora a casa; ma io ho nondimeno provveduto e trovato modo che noi avremo del pane per piú d’un mese, ché io ho venduto a costui che tu vedi qui con meco il doglio, il quale tu sai che, giá è cotanto, ha tenuta la casa impacciata: e dammene cinque gigliati. — Disse allora Peronella: — E tutto questo è la cagione del dolor mio: tu che se’ uomo e vai attorno, e dovresti sapere delle cose del mondo, hai venduto un doglio cinque gigliati, il quale io feminella che non fu’ mai appena fuor dell’uscio, veggendo lo ‘mpaccio che in casa ci dava, l’ho venduto sette ad un buono uomo il quale, come tu qui tornasti, v’entrò dentro per vedere se saldo fosse. — Quando il marito udí questo, fu piú che contento, e disse a colui che venuto era per esso: — Buono uomo, vatti con Dio, ché tu odi che mia mogliere l’ha venduto sette, dove tu non me ne davi altro che cinque. — Il buono uom disse: — In buona ora sia! — ed andossene. E Peronella disse al marito: — Vien’ su tu, poscia che tu ci se’, e vedi con lui insieme i fatti nostri. — Giannello, il quale stava con gli orecchi levati per vedere se d’alcuna cosa gli bisognasse temere o provvedersi, udite le parole di Peronella, prestamente si gittò fuor del doglio: e quasi niente sentito avesse della tornata del marito, cominciò a dire: — Dove se’, buona donna? — Al quale il marito, che giá veniva, disse: — Eccomi; che domandi tu? — Disse Giannello: — Qual se’ tu? Io vorrei la donna con la quale io feci il mercato di questo doglio. — Disse il buono uomo: — Fate sicuramente meco, ché io son suo marito. — Disse allora Giannello: — Il doglio mi par ben saldo, ma egli mi pare che voi ci abbiate tenuta entro feccia, ché egli è tutto impiastricciato di non so che cosa si secca, che io non ne posso levar con l’unghie, e però noi torrei se io nol vedessi prima netto. — Disse allora Peronella: — No, per quello non rimarrá il mercato; mio marito il netterá tutto. — Ed il marito disse: — Sì bene — e posti giú i ferri suoi ed ispogliatosi in camiscione, si fece accendere un lume e dare una radimadia, e fuvvi entrato dentro e cominciò a radere. E Peronella, quasi veder volesse ciò che facesse, messo il capo per la bocca del doglio, che molto grande non era, ed oltre a questo, l’un de’ bracci con tutta la spalla, cominciò a dire: — Radi quivi, e quivi, ed anche colá — e — Vedine qui rimaso un micolino. — E mentre che cosí stava ed al marito insegnava e ricordava, Giannello, il quale appieno non aveva quella mattina il suo disidèro ancor fornito quando il marito venne, veggendo che come volea non potea, s’argomentò di fornirlo come potesse: ed a lei accostatosi che tutta chiusa teneva la bocca del doglio, ed in quella guisa che negli ampi campi gli sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle di Partia assaliscono, ad effetto recò il giovenil disidèro; il quale quasi in un medesimo punto ebbe perfezione, e fu raso il doglio, ed egli scostatosi, e la Peronella tratto il capo del doglio, ed il marito uscitone fuori. Per che Peronella disse a Giannello: — Te’ questo lume, buono uomo, e guata se egli è netto a tuo modo. — Giannello, guardatovi dentro, disse che stava bene e che egli era contento: e datigli sette gigliati, a casa sei fece portare.

  Novella terza

  [III]

  FRATE RINALDO SI giace con la comare; truovalo il marito in camera con lei, e fannogli credere che egli incantava i vermini al figlioccio.

  Non seppe sì Filostrato parlare oscuro delle cavalle partiche, che l’avvedute donne non ne ridessono, sembianti faccendo di rider d’altro. Ma poi che il re conobbe la sua novella finita, ad Elissa impose che ragionasse; la quale, disposta ad ubidire, incominciò: Piacevoli donne, lo ‘ncantar della fantasima d’Emilia m’ha fatto tornare alla memoria una novella d’un’altra incantagione, la quale quantunque cosí bella non sia come fu quella, per ciò che altra alla nostra materia non me n’occorre al presente, la racconterò.

  Voi dovete sapere che in Siena fu giá un giovane assai leggiadro e d’orrevole famiglia il quale ebbe nome Rinaldo; ed amando sommamente una sua vicina ed assai bella donna e moglie d’un ricco uomo, e sperando, se modo potesse avere di parlarle senza sospetto, dovere aver da lei ogni cosa che egli disiderasse, non veggendone alcuno ed essendo la donna gravida, pensossi di volere suo compar divenire: ed accontatosi col marito di lei, per quel modo che piú onesto gli parve gliele disse, e fu fatto. Essendo adunque Rinaldo di madonna Agnesa divenuto compare ed avendo alquanto d’arbitrio piú colorato di poterle parlare, assicuratosi, quello della sua intenzione, con parole, le fece conosce
re che ella molto davanti negli atti degli occhi suoi avea conosciuto: ma poco per ciò gli valse, quantunque d’averlo udito non dispiacesse alla donna. Addivenne non guari poi, che che si fosse la cagione, che Rinaldo si rendè frate, e chente che egli trovasse la pastura, egli perseverò in quello; ed avvegna che egli alquanto, di que’ tempi che frate si fece, avesse dall’un de’ lati posto l’amore che alla sua comar portava e certe altre sue vanitá, pure in processo di tempo, senza lasciar l’abito, le si riprese, e cominciò a dilettarsi d’apparere e di vestir di buon panni e d’essere in tutte le sue cose leggiadretto ed ornato, ed a fare delle canzoni e de’ sonetti e delle ballate, ed a cantare, e tutto pieno d’altre cose a queste simili. Ma che dico io di frate Rinaldo nostro di cui parliamo? Quali son quegli che cosí non facciano? Ahi vitupèro del guasto mondo! Essi non si vergognano d’apparir grassi, d’apparir coloriti nel viso, d’apparir morbidi ne’ vestimenti ed in tutte le cose loro, e non come colombi ma come galli tronfi con la cresta levata pettoruti procedono: e che è peggio; lasciamo stare l’aver le lor celle piene d’alberelli di lattovari e d’unguenti colmi, di scatole di vari confetti piene, d’ampolle e di guastadette con acque lavorate e con oli, di bottacci di malvagia e di greco e d’altri vini preziosissimi traboccanti, intanto che non celle di frati ma botteghe di speziali o d’unguentari appaiono piú tosto a’ riguardanti; essi non si vergognano che altri sappia, loro esser gottosi, e credonsi che altri non conosca e sappia che i digiuni assai, le vivande grosse e poche ed il viver sobriamente faccia gli uomini magri e sottili ed il piú sani: e se pure infermi ne fanno, non almeno di gotte gl’infermano, alle quali si suole per medicina dare la castitá ed ogni altra cosa a vita di modesto frate appartenente. E credonsi che altri non conosca, oltre la sottil vita, le vigilie lunghe, l’orare ed il disciplinarsi dover gli uomini pallidi ed afflitti rendere, e che né san Domenico né san Francesco, senza aver quattro cappe per uno, non di tintillani né d’altri panni gentili ma di lana grossa fatte e di natural colore, a cacciare il freddo e non ad apparere si vestissero. Alle quali cose Iddio provveggia come all’anime de’ semplici che gli nutricano fa bisogno! Così adunque ritornato frate Rinaldo ne’ primi appetiti, cominciò a visitare molto spesso la comare: e cresciutagli baldanza, con piú istanza che prima non faceva, la cominciò a sollecitare a quello che egli di lei disiderava. La buona donna, veggendosi molto sollecitare e parendole frate Rinaldo forse piú bello che non pareva prima, essendo un dì molto da lui infestata, a quel ricorse che fanno tutte quelle che voglia hanno di concedere quello che è addomandato, e disse: — Come, frate Rinaldo, o fanno cosí fatte cose i frati? — A cui frate Rinaldo rispose: — Madonna, qualora io avrò questa cappa fuor di dosso, che la mi traggo molto agevolmente, io vi parrò uno uomo fatto come gli altri, e non frate. — La donna fece bocca da ridere, e disse: — Oimè trista! voi siete mio compare; come si farebbe questo? Egli sarebbe troppo gran male, ed io ho molte volte udito che egli è troppo gran peccato: e per certo, se ciò non fosse, io farei ciò che voi voleste. — A cui frate Rinaldo disse: — Voi siete una sciocca se per questo lasciate. Io non dico che non sia peccato, ma de’ maggiori perdona Iddio a chi si pente. Ma ditemi: chi è piú parente del vostro figliuolo, o io che il tenni a battesimo o vostro marito che il generò? — La donna rispose: — È piú suo parente mio marito. — E voi dite il vero, — disse il frate — e vostro marito non si giace con voi? — Mai si — rispose la donna. — Adunque, — disse il frate — ed io, che son men parente di vostro figliuolo che non è vostro marito, così mi debbo poter giacere con voi come vostro marito. — La donna, che loica non sapeva e di piccola levatura aveva bisogno, o credette o fece vista di credere che il frate dicesse vero; e rispose: — Chi saprebbe rispondere alle vostre savie parole? — Ed appresso, nonostante il comparatico, si recò a dover fare i suoi piaceri; né incominciarono pure una volta, ma sotto la coverta del comparatico avendo piú agio, perché la suspizione era minore, piú e piú volte si ritrovarono insieme. Ma tra l’altre una avvenne che, essendo frate Rinaldo venuto a casa la donna e veggendo quivi niuna persona essere altri che una fanticella della donna, assai bella e piacevoletta, mandato il compagno suo con essolei nel palco de’ colombi ad insegnarle il paternostro, egli con la donna, che il fanciullin suo avea per mano, se n’entrarono nella camera, e dentro serratisi, sopra un lettuccio da sedere che in quella era s’incominciarono a trastullare: ed in questa guisa dimorando, avvenne che il compar tornò, e senza esser sentito da alcuno, fu all’uscio della camera, e picchiò e chiamò la donna. Madonna Agnesa, questo sentendo, disse: — Io son morta, ché ecco il marito mio: ora si pure avvedrá egli qual sia la cagione della nostra dimestichezza. — Era frate Rinaldo spogliato, cioè senza cappa e senza scapolare, in tonicella; il quale questo udendo, disse: — Voi dite vero; se io fossi pur vestito, qualche modo ci avrebbe: ma se voi gli aprite, ed egli mi truovi cosi, niuna scusa ci potrá essere. — La donna, da subito consiglio aiutata, disse: — Or vi vestite; e vestito che voi siete, recatevi in braccio vostro figlioccio, ed ascolterete bene ciò che io gli dirò, si che le vostre parole poi s’accordino con le mie: e lasciate fare a me. — Il buono uomo non era ancora ristato di picchiare, che la moglie rispose: — Io vengo a te — e levatasi, con un buon viso se n’andò all’uscio della camera ed aperselo, e disse: — Marito mio, ben ti dico che frate Rinaldo nostro compare ci si venne, ed Iddio il ci mandò: ché per certo, se venuto non ci fosse, noi avremmo oggi perduto il fanciul nostro. — Quando il bescio santoccio udí questo, tutto misvenne, e disse: — Come? — O marito mio, — disse la donna — e’ gli venne dianzi di subito uno sfinimento, che io mi credetti che fosse morto: e non sapeva né che mi far né che mi dire, se non che frate Rinaldo nostro compare ci venne in quella, e recatolsi in collo, disse: — Comare, questi son vermini che egli ha in corpo, li quali gli s’appressano al cuore ed ucciderebbonlo troppo bene: ma non abbiate paura, ché io gl’incanterò e farògli morir tutti, ed innanzi che io mi parta di qui voi vedrete il fanciul sano come voi vedeste mai. — E per ciò che tu ci bisognavi per dir certe orazioni, e non ti seppe trovar la fante, sì le fece dire al compagno suo nel piú alto luogo della nostra casa, ed egli ed io qua entro ce n’entrammo: e per ciò che altri che la madre del fanciullo non può essere a cosí fatto servigio, perché altri non c’impacciasse, qui ci serrammo; ed ancora l’ha egli in braccio, e credomi io che egli non aspetti se non che il compagno suo abbia compiuto di dire l’orazioni, e sarebbe fatto, per ciò che il fanciullo è giá tutto tornato in sé. — Il santoccio credendo queste cose, tanto l’affezion del figliuol lo strinse, che egli non pose l’animo allo ‘nganno fattogli dalla moglie, ma gittato un gran sospiro, disse: — Io il voglio andare a vedere. — Disse la donna: — Non andare, ché tu guasteresti ciò che s’è fatto; aspèttati, io voglio vedere se tu vi puoi andare, e chiamerotti. — Frate Rinaldo, che ogni cosa udito avea ed erasi rivestito a bello agio ed avevasi recato il fanciullo in braccio, come ebbe disposte le cose a suo modo, chiamò: — O comare, non sento io di costá il compare? — Rispose il santoccio: — Messer sì. — Adunque, — disse frate Rinaldo — venite qua. — Il santoccio andò lá, al quale frate Rinaldo disse: — Tenete il vostro figliuolo per la grazia di Dio sano, dove io credetti, ora fu, che voi noi vedeste vivo a vespro: e farete di far porre una statua di cera della sua grandezza a laude di Dio dinanzi alla figura di messer santo Ambruogio, per li meriti del quale Iddio ve n’ha fatta grazia. — Il fanciullo, veggendo il padre, corse a lui e fecegli festa come i fanciulli piccoli fanno; il quale, recatolsi in braccio, lagrimando non altramenti che della fossa il traesse, il cominciò a basciare ed a render grazie al suo compare che guerito gliele avea. Il compagno di frate Rinaldo, che non un paternostro ma forse piú di quattro n’aveva insegnati alla fanticella, e donatale una borsetta di refe bianco la quale a lui aveva donata una monaca, e fattala sua divota, avendo udito il santoccio alla camera della moglie chiamare, pianamente era venuto in parte della quale e vedere ed udire ciò che vi si facesse poteva: e veggendo la cosa in buoni termini, se ne venne giuso, ed entrato nella camera, disse: �
�� Frate Rinaldo, quelle quattro orazioni che m’imponeste, io l’ho dette tutte. — A cui frate Rinaldo disse: — Fratel mio, tu hai buona lena, ed hai fatto bene. Io per me, quando mio compar venne, non n’aveva dette che due, ma Domenedio tra per la tua fatica e per la mia ci ha fatta grazia che il fanciullo è guerito. — Il santoccio fece venire di buon vini e di confetti, e fece onore al suo compare ed al compagno di ciò che essi avevano maggior bisogno che d’altro; poi con loro insieme uscito di casa, gli accomandò a Dio, e senza alcuno indugio fatta fare l’imagine di cera, la mandò ad appiccare con l’altre dinanzi alla figura di santo Ambruogio, ma non a quel di Melano.

  Novella quarta

  [IV]

  TOFANO CHIUDE UNA notte fuor di casa la moglie, la quale, non potendo per prieghi rientrare, fa vista di gittarsi in un pozzo e gittavi una gran pietra; Tofano esce di casa e corre lá, ed ella in casa se n’entra e serra lui di fuori, e sgridandolo il vitupera.

  Il re, come la novella d’Elissa sentí aver fine, cosí senza indugio verso la Lauretta rivolto, le dimostrò che gli piacea che ella dicesse; per che essa, senza stare, cosí cominciò:

  Amore, clienti e quali sono le tue forze, chenti i consigli e chenti gli avvedimenti! Qual filosofo, quale artista mai avrebbe potuto o potrebbe mostrare quegli accorgimenti, quegli avvedimenti, quegli dimostramenti che fai tu subitamente a chi séguita le tue orme? Certo la dottrina di qualunque altro è tarda a rispetto della tua, sí come assai bene comprender si può nelle cose davanti mostrate. Alle quali, amorose donne, io una n’aggiugnerò da una semplicetta donna adoperata, tal che io non so chi altri se l’avesse potuta mostrare che Amore.

  Fu adunque giá in Arezzo un ricco uomo il quale fu Tofano nominato. A costui fu data per moglie una bellissima donna il cui nome fu monna Ghita, della quale egli, senza saper perché, prestamente divenne geloso; di che la donna avveggendosi, prese sdegno, e piú volte avendolo della cagione della sua gelosia addomandato, né egli alcuna avendone saputa assegnare se non cotal generali e cattive, cadde nell’animo alla donna di farlo morire del male del quale senza cagione aveva paura: ed essendosi avveduta che un giovane, secondo il suo giudicio molto da bene la vagheggiava, discretamente con lui s’incominciò ad intendere. Ed essendo giá tra lui e lei tanto le cose innanzi, che altro che dare effetto con opera alle parole non vi mancava, pensò la donna di trovare similmente modo a questo: ed avendo giá, tra’ costumi cattivi del suo marito, conosciuto lui dilettarsi di bere, non solamente gliele cominciò a commendare, ma artatamente a sollecitarlo a ciò molto spesso. E tanto ciò prese per uso, che quasi ogni volta che a grado l’era, infino all’inebriarsi bevendo il conducea: e quando bene ebbro il vedea, messolo a dormire, primieramente col suo amante si ritrovò, e poi sicuramente piú volte di ritrovarsi con lui continuò; e tanta di fidanza nella costui ebbrezza prese, che non solamente avea preso ardire di menarsi il suo amante in casa, ma ella talvolta gran parte della notte s’andava con lui a dimorare alla sua, la qual di quivi non era guari lontana. Ed in questa maniera la ‘nnamorata donna continuando, avvenne che il doloroso marito si venne accorgendo che ella, nel confortare lui a bere, non beveva per ciò essa mai; di che egli prese sospetto, non cosí fosse come era, cioè che la donna lui inebriasse per poter poi fare il piacer suo mentre egli addormentato fosse. E volendo di questo, se cosí fosse, far pruova, senza avere il dì bevuto, una sera, mostrandosi il piú ebbro uomo, e nel parlare e ne’ modi, che fosse mai, il che la donna credendo, né estimando che piú bere gli bisognasse a ben dormire, il mise prestamente a letto: e fatto ciò, secondo che alcuna volta era usata di fare, uscita di casa, alla casa del suo amante se n’andò, e quivi infino alla mezzanotte dimorò. Tofano, come la donna non vi sentì, cosí si levò, ed andatosene alla sua porta, quella serrò dentro e posesi alle finestre, acciò che tornare vedesse la donna e le facesse manifesto che egli si fosse accorto delle maniere sue: e tanto stette che la donna tornò. La quale, tornando a casa e trovatasi serrata di fuori, fu oltre modo dolente e cominciò a tentare se per forza potesse l’uscio aprire; il che poi che Tofano alquanto ebbe sofferto, disse: — Donna, tu ti fatichi invano, per ciò che qua entro non potrai tu tornare; va’ tornati lá dove infino ad ora se’ stata, ed abbi per certo che tu non ci tornerai mai infino a tanto che io di questa cosa, in presenza de’ parenti tuoi e de’ vicini, te n’avrò fatto quell’onore che ti si conviene. — La donna lo ‘ncominciò a pregar per l’amor di Dio che piacergli dovesse d’aprirle, per ciò che ella non veniva donde s’avvisava, ma da vegghiare con una sua vicina, per ciò che le notti eran grandi ed ella non le poteva dormir tutte né sola in casa vegghiare. Li prieghi non giovavano alcuna cosa, per ciò che quella bestia era pur disposto a volere che tutti gli aretin sapessero la lor vergogna, lá dove niun la sapeva. La donna, veggendo che il pregar non le valeva, ricorse al minacciare, e disse: — Se tu non m’apri, io ti farò il piú tristo uom che viva. — A cui Tofano rispose: — E che mi puoi tu fare? — La donna, alla quale Amore aveva giá aguzzato co’ suoi consigli lo ‘ngegno, rispose: — Innanzi che io voglia sofferire la vergogna che tu mi vuoi fare ricevere a torto, io mi gitterò in questo pozzo che qui è vicino, nel quale poi essendo trovata morta, niuna persona sará che creda che altri che tu per ebbrezza mi v’abbi gittata: e cosí o ti converrá fuggire e perder ciò che tu hai ed essere in bando, o converrá che ti sia tagliata la testa sí come a micidial di me che tu veramente sarai stato. — Per queste parole niente si mosse Tofano dalla sua sciocca oppinione; per la qual cosa la donna disse: — Ora ecco, io non posso piú sofferire questo tuo fastidio; Iddio il ti perdoni; farai riporre questa mia rócca che io lascio qui. — E questo detto, essendo la notte tanto oscura, che appena si sarebbe potuto veder l’un l’altro per la via, se n’andò la donna verso il pozzo, e presa una grandissima pietra che a piè del pozzo era, gridando — Iddio, perdonami! — la lasciò cadere entro-nel pozzo. La pietra giugnendo nell’acqua fece un grandissimo romore, il quale come Tofano udí, credette fermamente che essa gittata vi si fosse; per che, presa la secchia con la fune, subitamente si gittò di casa per aiutarla e corse al pozzo. La donna, che presso all’uscio della sua casa nascosa s’era, come il vide correre al pozzo, cosí ricoverò in casa e serrossi dentro ed andossene alle finestre, e cominciò a dire: — Egli si vuole inacquare quando altri il bee, non poscia la notte. — Tofano, udendo costei, si tenne scornato, e tornossi all’uscio: e non potendovi entrare, le cominciò a dire che gli aprisse. Ella, lasciato stare il parlar piano come infino allora aveva fatto, quasi gridando cominciò a dire: — Alla croce di Dio, ebriaco fastidioso, tu non c’entrerai stanotte; io non posso piú sofferire questi tuoi modi: egli convien che io faccia vedere ad ogni uomo chi tu se’ ed a che ora tu torni la notte a casa. — Tofano, d’altra parte, crucciato le ‘ncominciò a dir villania ed a gridare; di che i vicini sentendo il romor si levarono, ed uomini e donne, e fecersi alle finestre e domandarono che ciò fosse. La donna cominciò piagnendo a dire: — Egli è questo reo uomo, il quale mi torna ebbro la sera a casa, o s’addormenta per le taverne e poscia torna a questa otta; di che io avendo lungamente sofferto e non giovandomi, non potendo piú sofferire, ne gli ho voluta fare questa vergogna di serrarlo fuor di casa, per vedere se egli se n’ammenderá. — Tofano bestia, d’altra parte, diceva come il fatto era stato e minacciavala forte. La donna, co’ suoi vicini diceva: — Or vedete che uomo egli è! Che direste voi se io fossi nella via come è egli, ed egli fosse in casa come sono io? In fé di Dio, che io dubito che voi non credeste che egli dicesse il vero. Ben potete a questo conoscere il senno suo! Egli dice appunto che io ho fatto ciò che io credo che egli abbia fatto egli. Egli mi credette spaventare col gittare non so che nel pozzo, ma or volesse Iddio che egli vi si fosse gittato da dovero ed affogato, sí che egli il vino, il quale egli di soperchio ha bevuto, si fosse molto bene inacquato. — I vicini, e gli uomini e le donne, cominciarono a riprender tutti Tofano ed a dar la colpa a lui ed a dirgli villania di ciò che contro alla donna diceva; ed in brieve tanto andò il romore di vicino in vicino, che egli pervenne infino a’ parenti della donna, li quali
, venuti lá ed udendo la cosa e da un vicino e da uno altro, presero Tofano e diedergli tante busse, che tutto il ruppono; poi andati in casa, presero le cose della donna e con lei si ritornarono a casa loro, minacciando Tofano di peggio. Tofano, veggendosi mal parato e che la sua gelosia l’aveva mal condotto, sí come quegli che tutto il suo ben voleva alla donna, ebbe alcuni amici mezzani e tanto procacciò, che egli con buona pace riebbe la donna a casa sua; alla quale promise di mai piú non esser geloso, ed oltre a ciò, le die’ licenza che ogni suo piacer facesse, ma sí saviamente, che egli non se n’avvedesse. E cosi, a modo del villan matto, dopo danno fe’ patto.

 

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