FINISCE LA SETTIMA GIORNATA DEL DECAMERON; INCOMINCIA L’OTTAVA, NELLA QUALE, SOTTO IL REGGIMENTO DI LAURETTA, SI RAGIONA DI QUELLE BEFFE CHE TUTTO IL GIORNO O DONNA AD UOMO O UOMO A DONNA O L’UNO UOMO ALL’ALTRO SI FANNO.
GIÁ NELLA SOMMITÁ de’ piú alti monti apparivano, la domenica mattina, i raggi della surgente luce, ed ogni ombra partitasi, manifestamente le cose si conosceano, quando la reina levatasi, con la sua compagnia primieramente alquanto su per le rugiadose erbette andarono, e poi in su la mezza terza una chiesetta lor vicina visitata, in quella il divino uficio ascoltarono: ed a casa tornatisene, poi che con letizia e con festa ebber mangiato, cantarono e danzarono alquanto, ed appresso, licenziati dalla reina, chi volle andare a riposarsi potè. Ma avendo il sol giá passato il cerchio di meriggio, come alla reina piacque, al novellare usato tutti appresso la bella fontana a seder posti, per comandamento della reina cosí Neifile cominciò:
Novella prima
[I]
GULFARDO PRENDE DA Guasparruolo denari in prestanza, e con la moglie di lui accordato di dover giacer con lei per quegli, si gliele dá; e poi in presenza di lei a Guasparruol dice che a lei gli diede, ed ella dice che è il vero.
Se cosí ha disposto Iddio che io debba alla presente giornata con la mia novella dar cominciamento, ed el mi piace: e per ciò, amorose donne, con ciò sia cosa che molto si sia detto delle beffe fatte dalle donne agli uomini, una fattane da uno uomo ad una donna mi piace di raccontarne, non giá perché io intenda in quella di biasimare ciò che l’uom fece o di dire che alla donna non fosse bene investito, anzi per commendar l’uomo e biasimar la donna, e per mostrare che anche gli uomini sanno beffare chi crede loro, come essi da cui eglino credono son beffati. Avvigna che, chi volesse piú propriamente parlare, quello che io dir debbo non si direbbe beffa, anzi si direbbe merito, per ciò che, con ciò sia cosa che la donna debba essere onestissima e la sua castitá come la sua vita guardare, né per alcuna cagione a contaminarla conducersi, e questo non potendosi cosí appieno tuttavia come si converrebbe, per la fragilitá nostra, affermo, colei esser degna del fuoco la quale a ciò per prezzo si conduce; dove chi per amor, conoscendo le sue forze grandissime, perviene, da giudice non troppo rigido merita perdono, come, pochi di son passati, ne mostrò Filostrato essere stato in madonna Filippa osservato in Prato.
Fu adunque giá in Melano un tedesco al soldo il cui nome fu Gulfardo, pro’ della persona ed assai leale a coloro ne’ cui servigi si mettea, il che rade volte suole de’ tedeschi avvenire: e per ciò che egli era, nelle prestanze de’ denari che fatte gli erano, lealissimo renditore, assai mercatanti avrebbe trovati che per piccolo utile ogni quantitá di denari gli avrebber prestata. Pose costui, in Melan dimorando, l’amor suo in una donna assai bella chiamata madonna Ambruogia, moglie d’un ricco mercatante che aveva nome Guasparruol Cagastraccio, il quale era assai suo conoscente ed amico: ed amandola assai discretamente, senza avvedersene il marito né altri, le mandò un giorno a parlare, pregandola che le dovesse piacere d’essergli del suo amor cortese, e che egli era dalla sua parte presto a dover far ciò che ella gli comandasse. La donna, dopo molte novelle, venne a questa conclusione, che ella era presta di far ciò che Gulfardo volesse, dove due cose ne dovesser seguire: l’una, che questo non dovesse mai per lui esser manifestato ad alcuna persona; l’altra, che, con ciò fosse cosa che ella avesse per alcuna sua cosa bisogno di fiorini dugento d’oro, voleva che egli, che ricco uomo era, gliele donasse, ed appresso, sempre sarebbe al suo servigio. Gulfardo, udendo la ‘ngordigia di costei, sdegnato per la viltá di lei la quale egli credeva che fosse una valente donna, quasi in odio trasmutò il fervente amore; e pensò di doverla beffare, e mandolle dicendo che molto volentieri, e quello ed ogni altra cosa che egli potesse, che le piacesse: e per ciò mandassegli pure a dire quando ella volesse che egli andasse a lei, che egli gliele porterebbe, né che mai di questa cosa alcun sentirebbe, se non un suo compagno di cui egli si fidava molto e che sempre in sua compagnia andava in ciò che faceva. La donna, anzi cattiva femina, udendo questo, fu contenta, e mandògli dicendo che Guasparruolo suo marito doveva ivi a pochi dí per sue bisogne andare infino a Genova, ed allora ella gliele farebbe assapere e manderebbe per lui. Gulfardo, quando tempo gli parve, se n’andò a Guasparruolo e sí gli disse: — Io son per fare un mio fatto per lo quale mi bisognan fiorini dugento d’oro, li quali io voglio che tu mi presti con quello utile che tu mi suogli prestar degli altri. — Guasparruolo disse che volentieri, e di presente gli annoverò i denari. Ivi a pochi giorni Guasparruolo andò a Genova, come la donna aveva detto; per la qual cosa la donna mandò a Gulfardo che a lei dovesse venire e recare li dugento fiorini d’oro. Gulfardo, preso il compagno suo, se n’andò a casa della donna, e trovatala che l’aspettava, la prima cosa che fece, le mise in mano questi dugento fiorin d’oro, veggente il suo compagno, e sí le disse: — Madonna, tenete questi denari, e daretegli a vostro marito quando sará tornato. — La donna gli prese, e non s’avvide perché Gulfardo dicesse così: ma si credette che egli il facesse acciò che il compagno suo non s’accorgesse che egli a lei per via di prezzo gli desse; per che ella disse: — Io il farò volentieri, ma io voglio veder quanti sono. — E versatigli sopra una tavola e trovatigli esser dugento, seco forte contenta, gli ripose, e tornò a Gulfardo, e lui nella sua camera menato, non solamente quella notte ma molte altre, avanti che il marito tornasse da Genova, della sua persona gli sodisfece. Tornato Guasparruolo da Genova, di presente Gulfardo, avendo appostato che insieme con la moglie era, se n’andò a lui, ed in presenza di lei disse: — Guasparruolo, i denari che l’altrier mi prestasti, non m’ebber luogo, per ciò che io non potei fornir la bisogna per la quale gli presi:
e per ciò io gli recai qui di presente alla donna tua e si gliele diedi, e per ciò dannerai la mia ragione. — Guasparruolo, vòlto alla moglie, la domandò se avuti gli avea. Ella, che quivi vedeva il testimonio, noi seppe negare, ma disse: — Mai sí che io gli ebbi, né m’era ancor ricordata di dirloti. — Disse allora Guasparruolo: — Gulfardo, io son contento; andatevi pur con Dio, che io acconcerò bene la vostra ragione. — Gulfardo partitosi, e la donna rimasa scornata, diede al marito il disonesto prezzo della sua cattivitá: e cosí il sagace amante senza costo godè della sua avara donna.
Novella seconda
[II]
IL PRETE DA Varlungo si giace con monna Belcolore; lasciale pegno un suo tabarro, ed accattato da lei un mortaio, il rimanda e fa domandare il tabarro lasciato per ricordanza; rendelo proverbiando la buona donna.
Commendavano igualmente e gli uomini e le donne ciò che Gulfardo fatto aveva alla ‘ngorda melanese, quando la reina, a Panfilo voltatasi, sorridendo gl’impose che el seguitasse; per la qual cosa Panfilo incominciò:
Belle donne, a me occorre di dire una novelletta contro a coloro li quali continuamente n’offendono senza poter da noi del pari essere offesi, cioè contro a’ preti, li quali sopra le nostre mogli hanno bandita la croce, e par loro non altramenti aver guadagnato il perdono di colpa e di pena, quando una se ne posson metter sotto, che se d’Alessandria avessero il soldano menato legato a Vignone. Il che i secolari cattivelli non possono a lor fare, come che nelle madri, nelle sirocchie, nelle amiche e nelle figliuole, con non meno ardore che essi le lor mogli assaliscano, vendichin l’ire loro. E per ciò io intendo raccontarvi uno amorazzo contadino, piú da ridere per la conclusione che lungo di parole, del quale ancora potrete per frutto cogliere che a’ preti non sia sempre ogni cosa da credere.
Dico adunque che a Varlungo, villa assai vicina di qui, come ciascuna di voi o sa o puote avere udito, fu un valente prete e gagliardo della persona ne’ servigi delle donne, il quale, come che legger non sapesse troppo, pur con molte buone e sante parolozze la domenica a piè dell’olmo ricreava i suoi popolani; e meglio le lor donne, quando essi in alcuna parte andavano, che altro prete che prima vi fosse stato, visitava, portando loro della festa e dell’acqua benedetta ed alcun moccolo di candela talvolta infino a casa, dando loro la sua benedizione. Ora, avvenne che, tra l’altre sue popolane che prima gli eran piaciute, una sopra tutte ne gli p
iacque che aveva nome monna Belcolore, moglie d’un lavoratore che si facea chiamare Bentivegna del Mazzo, la qual nel vero era pure una piacevole e fresca foresozza, brunazza e ben tarchiata ed atta a meglio saper macinar che alcuna altra: ed oltre a ciò, era quella che meglio sapeva sonare il cembalo e cantare «L’acqua corre la borrana» e menare la ridda ed il ballonchio, quando bisogno faceva, che vicina che ella avesse, con un bel moccichino e gente in mano. Per le quali cose messer lo prete ne ‘nvaghí sí forte, che egli ne menava smanie, e tutto il di andava aiato per poterla vedere: e quando la domenica mattina la sentiva in chiesa, diceva un Kyrie ed un Sanctus, sforzandosi ben di mostrarsi un gran maestro di canto, che pareva uno asino che ragghiasse, dove, quando non la vi vedea, si passava assai leggermente; ma pur sapeva sí fare, che Bentivegna del Mazzo non se n’avvedeva, né ancora vicina che egli avesse. E per poter piú avere la dimestichezza di monna Belcolore, a otta a otta la presentava, e quando le mandava un mazzuol d’agli freschi, che egli aveva i piú belli della contrada in un suo orto che egli lavorava a sue mani, e quando un canestruccio di baccelli, e talora un mazzuolo di cipolle malige o di scalogni: e quando si vedeva tempo, guatatala un poco in cagnesco, per amorevolezza la rimorchiava, ed ella cotal salvatichetta, faccendo vista di non avvedersene, andava pure oltre in contegno; per che messer lo prete non ne poteva venire a capo. Ora, avvenne un dí che, andando il prete di fitto meriggio per la contrada or qua or lá zazzeato, scontrò Bentivegna del Mazzo con uno asino pien di cose innanzi, e fattogli motto, il domandò dove egli andava. A cui Bentivegna rispose: — Gnaffe, sere, in buona veritá io vo infino a cittá per alcuna mia vicenda, e porto queste cose a ser Bonaccorri da Ginestreto, ché m’aiuti di non so che m’ha fatto richiedere, per una comparigione del parentorio, per lo pericolator suo il giudice del dificio. — Il prete lieto disse: — Ben fai, figliuolo; or va’ con la mia benedizione e torna tosto: e se ti venisse veduto Lapuccio o Naldino, non t’esca di mente di dir loro che mi rechino quelle còmbine per li coreggiati miei. — Bentivegna disse che sarebbe fatto; e venendosene verso Firenze, si pensò il prete che ora era tempo d’andare alla Belcolore e di provar sua ventura: e messasi la via tra’ piedi, non ristette si fu a casa di lei, ed entrato dentro, disse: — Dio ci mandi bene; chi è di qua? — La Belcolore, che era andata in palco, udendol disse: — O sere, voi siate il ben venuto; che andate voi zacconato per questo caldo? — Il prete rispose: — Se Iddio mi dèa bene, che io mi veniva a star con teco una pezza, per ciò che io trovai l’uom tuo che andava a cittá. — La Belcolore, scesa giú, si pose a sedere e cominciò a nettar sementa di cavolini che il marito avea poco innanzi trebbiati. Il prete le cominciò a dire: — Bene, Belcolore, dé’mi tu far sempremai morire a questo modo? — La Belcolore cominciò a ridere ed a dire: — O che ve fo io? — Disse il prete: — Non mi fai nulla, ma tu non mi lasci fare a te quel che io vorrei e che Iddio comandò. — Disse la Belcolore: — Deh! andate andate: o fanno i preti cosí fatte cose? — Il prete rispose: — Sí facciam noi meglio che gli altri uomini; o perché no? E dicoti piú, che noi facciamo vie miglior lavorío; e sai perché? Perché noi maciniamo a raccolta: ma in veritá, bene a tuo uopo, se tu stai cheta e lascimi fare. — Disse la Belcolore: — O che bene a mio uopo potrebbe esser questo, ché siete tutti quanti piú scarsi che il fistolo? — Allora il prete disse: — Io non so; chiedi pur tu, o vuogli un paio di scarpette o vuogli un frenello o vuogli una bella fetta di stame, o ciò che tu vuogli. — Disse la Belcolore: — Frate, bene sta! Io me n’ho, di coteste cose: ma se voi mi volete cotanto bene, ché non mi fate voi un servigio, ed io farò ciò che voi vorrete? — Allora disse il prete: — Di’ ciò che ta vuogli, ed io il farò volentieri. — La Belcolore allora disse: — Egli mi conviene andar sabato a Firenze a render lana che io ho filata ed a far racconciare il filatoio mio: e se voi mi prestate cinque lire, che so che l’avete, io ricoglierò dall’usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggiale da’ dí delle feste che io recai a marito, ché vedete che non ci posso andare a santo né in niun buon luogo, perché io non l’ho; ed io sempremai poscia farò ciò che voi vorrete. — Rispose il prete: — Se Iddio mi dèa il buono anno, io non gli ho allato; ma credimi che, prima che sabato sia, io farò che tu gli avrai molto volentieri. — Sí, — disse la Belcolore — tutti siete cosí gran promettitori, e poscia non attenete altrui nulla: credete voi fare a me come voi faceste alla Biliuzza, che se n’andò col ceteratoio? Alla fé di Dio, non farete, ché ella n’è divenuta femina di mondo pur per ciò; se voi non gli avete, e voi andate per essi. — Deh! — disse il prete — non mi fare ora andare infino a casa, ché vedi che ho cosí ritta la ventura testé che non c’è persona, e forse, quando io ci tornassi, ci sarebbe chi che sia che c’impaccerebbe: ed io non so quando el mi si venga cosí ben fatto come ora. — Ed ella disse: — Bene sta: se voi volete andar, sí andate; se non, sí ve ne durate. — Il prete, veggendoche ella non era acconcia a far cosa che gli piacesse se non a salvum me fac, ed egli volea fare sine custodia, disse: — Ecco, tu non mi credi che io gli ti rechi; acciò che tu mi creda, io ti lascerò pegno questo mio tabarro di sbiavato. — La Belcolore levò alto il viso e disse: — Sí, cotesto tabarro o che vale egli? — Disse il prete: — Come, che vale? Io voglio che tu sappi che egli è di duagio infino in treagio, ed hacci di quegli nel popolo nostro che il tengon di quattragio; e non è ancora quindici dí che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben sette, ed ebbine buon mercato de’ soldi ben cinque, per quel che mi dica Buglietto, che sai che si conosce cosí bene di questi panni sbiavati. — O síe? — disse la Belcolore — se Iddio m’aiuti, io non l’avrei mai creduto: ma dateimi in prima. — Messer lo prete, che aveva carica la balestra, trattosi il tabarro, gliele diede; ed ella, poi che riposto l’ebbe, disse: — Sere, andiancene — qua nella capanna, che non vi vien mai persona. — E cosí fecero: e quivi il prete, dandole i piú dolci basciozzi del mondo e faccendola parente di messer Domenedio, con lei una gran pezza si sollazzò; poscia, partitosi in gonnella, che pareva che venisse da servire a nozze, se ne tornò al santo. Quivi, pensando che quanti moccoli ricoglieva in tutto l’anno d’offerta non valeva la metá di cinque lire, gli parve aver mal fatto, e pentessi d’avere lasciato il tabarro e cominciò a pensare in che modo riaverlo potesse senza costo. E per ciò che alquanto era maliziosetto, s’avvisò troppo bene come dovesse fare a riaverlo, e vennegli fatto: per ciò che il dí seguente, essendo festa, egli mandò un fanciullo d’un suo vicino in casa questa monna Belcolore, e mandolla pregando che le piacesse di prestargli il mortaio suo della pietra, per ciò che desinava la mattina con lui Binguccio dal Poggio e Nuto Buglietti, sí che egli voleva far della salsa. La Belcolore gliele mandò; e come fu in su l’ora del desinare, ed il prete appostò quando Bentivegna del Mazzo e la Belcolor manicassero, e chiamato il cherico suo, gli disse: — Togli quel mortaio e riportalo alla Belcolore, e di’ : — Dice il sere che gran mercé, e che voi gli rimandiate il tabarro che il fanciullo vi lasciò per ricordanza. — Il cherico andò a casa della Belcolore con questo mortaio e trovolla insieme con Bentivegna a desco, che desinavano, e quivi posto giú il mortaio, fece l’ambasciata del prete. La Belcolore, udendosi richiedere il tabarro, volle rispondere; ma Bentivegna con un mal viso disse: — Adunque tòi tu ricordanza al sere? Fo boto a Cristo che mi vien voglia di darti un gran sergozzone; va’ rendigliel tosto, che canciola te nasca, e guarda che di cosa che voglia mai, io dico se volesse l’asino nostro, non che altro, non gli sia detto di no. — La Belcolore brontolando si levò, ed andatasene al soppediano, ne trasse il tabarro e diello al cherico, e disse: — Dirai cosí al sere da mia parte: — La Belcolor dice che fa prego a Dio che voi non pesterete mai piú salsa in suo mortaio, non l’avete voi sí bello onor fatto di questa. — Il cherico se n’andò col tabarro e fece l’ambasciata al sere; a cui il prete ridendo disse: — Dira’le quando tu la vedrai che, se ella non ci presterá il mortaio, io non presterò a lei il pestello; vada l’un per l’altro. — Bentivegna si credeva che la moglie quelle parole dicesse perché egli l’aveva garrito, e non se ne curò: ma la Belcolore venne in iscr
ezio col sere e tennegli favella infino a vendemmia; poscia, avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca del Lucifero maggiore, per bella paura entro la capanna, col mosto e con le castagne calde, si rappattumò con lui, e piú volte insieme fecer poi gozzoviglia: ed in iscambio delle cinque lire le fèce il prete rincartare il cembal suo ed appiccovvi un sonagliuzzo, ed ella fu contenta.
Novella terza
[III]
CALANDRINO, BRUNO E Buffalmacco giú per lo Mugnone vanno cercando di trovar l’elitropia, e Calandrino la si crede aver trovata; tornasi a casa carico di pietre; la moglie il proverbia ed egli turbato la batte, ed a’ suoi compagni racconta ciò che essi sanno meglio di lui.
Finita la novella di Panfilo, della quale le donne avevan tanto riso, che ancora ridono, la reina ad Elissa commise che seguitasse; la quale, ancora ridendo, incominciò:
Io non so, piacevoli donne, se egli mi si verrá fatto di farvi con una mia novelletta non men vera che piacevole tanto ridere quanto ha fatto Panfilo con la sua: ma io me ne ‘ngegnerò.
Nella nostra cittá, la qual sempre di varie maniere e di nuove genti è stata abbondevole, fu, ancora non è gran tempo, un dipintore chiamato Calandrino, uom semplice e di nuovi costumi, il quale il piú del tempo con due altri dipintori usava chiamati l’un Bruno e l’altro Buffalmacco, uomini sollazzevoli molto, ma per altro avveduti e sagaci, li quali con Calandrino usavan per ciò che de’ modi suoi e della sua simplicitá sovente gran festa prendevano. Era similmente allora in Firenze un giovane di maravigliosa piacevolezza, in ciascuna cosa che far voleva astuto ed avvenevole, chiamato Maso del Saggio, il quale, udendo alcune cose della simplicitá di Calandrino, propose di voler prender diletto de’ fatti suoi col fargli alcuna beffa o fargli credere alcuna nuova cosa: e per ventura trovandolo un dí nella chiesa di San Giovanni e veggendolo stare attento a riguardare le dipinture e gl’intagli del tabernáculo il quale è sopra l’altare della detta chiesa, non molto tempo davanti postovi, pensò essergli dato luogo e tempo alla sua intenzione. Ed informato un suo compagno di ciò che fare intendeva, insieme s’accostarono lá dove Calandrino solo si sedeva, e faccendo vista di non vederlo, insieme incominciarono a ragionare delle vertú di diverse pietre, delle quali Maso cosí efficacemente parlava come se stato fosse un solenne e gran lapidario; a’ quali ragionamenti Calandrino posto orecchi, e dopo alquanto levatosi in piè, sentendo che non era credenza, si congiunse con loro, il che forte piacque a Maso. Il quale seguendo le sue parole, fu da Calandrin domandato dove queste pietre cosí virtuose si trovassero. Maso rispose che le piú si trovavano in Berlinzone, terra de’ baschi, in una contrada che si chiamava Bengodi, nella quale si legano le vigne con le salsicce, ed avevavisi una oca a denaio ed un papero giunta, ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e raviuoli e cuocergli in brodo di capponi, e poi gli gittavan quindi giú: e chi piú ne pigliava piú se n’aveva; ed ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciola d’acqua. — Oh! — disse Calandrino — cotesto è buon paese; ma dimmi, che si fa de’ capponi che cuocon coloro? — Rispose Maso: — Mangianglisi i baschi tutti. — Disse allora Calandrino: — Fostivi tu mai? — A cui Maso rispose: — Di’ tu se io vi fu’ mai? Si, vi sono stato cosí una volta come mille! — Disse allora Calandrino: — E quante miglia ci ha? — Maso rispose: — Daccene piú di millanta, che tutta notte canta. — Disse Calandrino: — Adunque dèe egli essere piú lá che Abruzzi. — Sí bene, — rispose Maso — si è cavelle. — Calandrino semplice, veggendo Maso dir queste parole con un viso fermo e senza ridere, quella fede vi dava che dar si può a qualunque veritá è piú manifesta, e cosí l’aveva per vere; e disse: — Troppo c’è di lungi a’ fatti miei: ma se piú presso ci fosse, ben ti dico che io vi verrei una volta con essoteco pur per veder fare il tomo a que’ maccheroni e tórmene una satolla. Ma dimmi, che lieto sii tu: in queste contrade non se ne truova niuna di queste pietre cosí virtuose? — A cui Maso rispose: — Sì, due maniere di pietre ci si truovano di grandissima vertú. L’una sono i macigni da Settignano e da Montisci, per vertú de’ quali, quando son macine fatti, se ne fa la farina, e per ciò si dice egli in que’ paesi di lá che da Dio vengon le grazie e da Montisci le macine: ma ècci di questi macigni sì gran quantitá, che appo noi è poco prezzata, come appo loro gli smeraldi, de’ quali v’ha maggior montagne che Montemorello, che rilucon di mezzanotte vatti con Dio; e sappi che chi facesse le macine belle e fatte legare in anella prima che elle si forassero, e portassele al soldano, n’avrebbe ciò che volesse. L’altra si è una pietra, la quale noi altri lapidari appelliamo elitropia, pietra di troppo gran vertú, per ciò che qualunque persona la porta sopra di sé, mentre la tiene, non è da alcuna altra persona veduto dove non è. — Allora Calandrin disse: — Gran vertú son queste; ma questa seconda dove si truova? — A cui Maso rispose che nel Mugnone se ne solevan trovare. Disse Calandrino: — Di che grossezza è questa pietra o che colore è il suo? — Rispose Maso: — Ella è di varie grossezze, ché alcuna n’è piú, alcuna meno: ma tutte son di colore quasi come nero. — Calandrino, avendo tutte queste cose seco notate, fatto sembianti d’avere altro a fare, si partì da Maso, e seco propose di volere cercare di questa pietra: ma diliberò di non volerlo fare senza saputa di Bruno e di Buffalmacco, li quali spezialissimamente amava. Diessi adunque a cercar di costoro, acciò che senza indugio e prima che alcuno altro n’andassero a cercare, e tutto il rimanente di quella mattina consumò in cercargli. Ultimamente, essendo giá l’ora della nona passata, ricordandosi egli che essi lavoravano nel monistero delle donne di Faenza, quantunque il caldo fosse grandissimo, lasciata ogni altra sua faccenda, quasi correndo n’andò a costoro, e chiamatigli, cosí disse loro: — Compagni, quando voi vogliate credermi, noi possiamo divenire i piú ricchi uomini di Firenze, per ciò che io ho inteso da uomo degno di fede che in Mugnone si truova una pietra, la qual chi la porta sopra non è veduto da niuna altra persona; per che a me parrebbe che noi senza alcuno indugio, prima che altra persona v’andasse, v’andassimo a cercare. Noi la troverem per certo, per ciò che io la conosco; e trovata che noi l’avremo, che avrem noi a fare altro se non mettercela nella scarsella ed andare alle tavole de’ cambiatori, le quali sapete che stanno sempre cariche di grossi e di fiorini, e tôrcene quanti noi ne vorremo? Niuno ci vedrá: e cosí potremo arricchire subitamente, senza avere tuttodí a schiccherare le mura a modo che fa la lumaca. — Bruno e Buffalmacco, udendo costui, tra se medesimi cominciarono a ridere; e guatando l’un verso l’altro, fecer sembianti di maravigliarsi forte e lodarono il consiglio di Calandrino: ma domandò Buffalmacco come questa pietra avesse nome. A Calandrino, che era di grossa pasta, era giá il nome uscito di niente; per che egli rispose: — Che abbiam noi a far del nome, poi che noi sappiamo la vertú? A me parrebbe che noi andassimo a cercare senza star piú. — Or ben, — disse Bruno — come è ella fatta? — Calandrin disse: — Egli ne son d’ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle che noi vedrem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad essa: e per ciò non perdiam tempo, andiamo. — A cui Bruno disse: — Or t’aspetta. — E vólto a Buffalmacco, disse: — A me pare che Calandrino dica bene: ma non mi pare che questa sia ora da ciò, per ciò che il sole è alto e dá per lo Mugnone entro ed ha tutte le pietre rasciutte; per che tali paion testé bianche, delle pietre che vi sono, che la mattina, anzi che il sole l’abbia rasciutte, paion nere: ed oltre a ciò, molta gente per diverse cagioni è oggi, che è di da lavorare, per lo Mugnone, li quali, veggendoci, si potrebbono indovinare quello che noi andassimo faccendo e forse farlo essi altressi: e potrebbe venire alle mani a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l’ambiadura. A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover far da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle bianche, ed in dì di festa, che non vi sará persona che ci veggia. — Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino vi s’accordò, ed ordinarono che la domenica mattina vegnente tutti e tre fossero insieme a c
ercar di questa pietra: ma sopra ogni altra cosa gli pregò Calandrino che essi non dovesser questa cosa con persona del mondo ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza. E ragionato questo, disse loro ciò che udito avea della contrada di Bengodi, con saramenti affermando che cosí era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a questo avessero a fare ordinarono tra se medesimi. Calandrino con disidèro aspettò la domenica mattina; la qual venuta, in sul far del dì si levò, e chiamati i compagni, per la porta a San Gallo usciti e nel Mugnon discesi, cominciarono ad andare ingiú, della pietra cercando. Calandrino andava, come piú volenteroso, avanti, e prestamente or qua ed or lá saltando, dovunque alcuna pietra nera vedeva, si gittava, e quella ricogliendo si metteva in seno. I compagni andavano appresso, e quando una e quando un’altra ne ricoglievano: ma Calandrino non fu guari di via andato, che egli il seno se n’ebbe pieno; per che, alzandosi i gheroni della gonnella, che all’analda non era, e faccendo di quegli ampio grembo, bene avendogli alla coreggia attaccati d’ogni parte, non dopo molto gli empiè, e similmente, dopo alquanto spazio, fatto del mantello grembo, quello di pietre empiè. Per che, veggendo Buffalmacco e Bruno che Calandrino era carico e l’ora del mangiare s’avvicinava, secondo l’ordine da sé posto, disse Bruno a Buffalmacco: — Calandrino dove è? — Buffalmacco, che ivi presso sei vedea, volgendosi intorno ed or qua ed or lá riguardando, rispose: — Io non so, ma egli era pur poco fa qui dinanzi da noi. — Disse Bruno: — Benché fa poco, a me pare egli esser certo che egli è ora a casa a desinare, e noi ha lasciati nel farnetico d’andar cercando le pietre nere giú per lo Mugnone. — Deh! come egli ha ben fatto — disse allor Buffalmacco — d’averci beffati e lasciati qui, poscia che noi fummo si sciocchi, che noi gli credemmo. Sappi chi sarebbe stato sì stolto, che avesse creduto che in Mugnone si dovesse trovare una cosí virtuosa pietra, altri che noi! — Calandrino, queste parole udendo, imaginò che quella pietra alle mani gli fosse venuta e che per la vertú d’essa coloro, ancor che loro fosse presente, nol vedessero. Lieto adunque oltre modo di tal ventura, senza dir loro alcuna cosa, pensò di tornarsi a casa: e vòlti i passi indietro, se ne cominciò a venire. Veggendo ciò Buffalmacco, disse a Bruno: — Noi che faremo? Ché non ce n’andiam noi? — A cui Bruno rispose: — Andianne; ma io giuro a Dio che mai Calandrino non me ne fará piú niuna: e se io gli fossi presso come stato sono tutta mattina, io gli darei tale di questo ciotto nelle calcagna, che egli si ricorderebbe forse un mese di questa beffa! — Ed il dir le parole e l’aprirsi ed il dar del ciotto nel calcagno a Calandrino fu tutto uno. Calandrino, sentendo il duolo, levò alto il piè e cominciò a soffiare, ma pur si tacque ed andò oltre. Buffalmacco, recatosi in mano un de’ codoli che raccolti avea, disse a Bruno: — Deh! vedi bel codolo: cosí giugnesse egli testé nelle reni a Calandrino! — E lasciato andare, gli die’ con esso nelle reni una gran percossa: ed in brieve, in cotal guisa, or con una parola ed or con un’altra, su per lo Mugnone infino alla porta a San Gallo il vennero lapidando; quindi, in terra gittate le pietre che ricolte aveano, alquanto con le guardie de’ gabellieri si ristettero, le quali, prima da loro informate, faccendo vista di non vedere, lasciarono andar Calandrino con le maggior risa del mondo. Il quale senza arrestarsi se ne venne a casa sua, la quale era vicina al Canto alla macina; ed intanto fu la fortuna piacevole alla beffa, che, mentre Calandrino per lo fiume ne venne e poi per la cittá, niuna persona gli fece motto, come che pochi ne scontrasse, per ciò che quasi a desinare era ciascuno. Entrossene adunque Calandrino cosí carico in casa sua. Era per ventura la moglie di lui, la quale ebbe nome monna Tessa, bella e valente donna, in capo della scala: ed alquanto turbata della sua lunga dimora, veggendol venire, cominciò proverbiando a dire: — Mai, frate, il diavol ti ci reca! Ogni gente ha giá desinato quando tu torni a desinare. — Il che udendo Calandrino e veggendo che veduto era, pieno di cruccio e di dolore cominciò a gridare: — Oimè! malvagia femina, o eri tu costi? Tu m’hai diserto: ma in fé di Dio io te ne pagherò! — E salito in una sua saletta e quivi scaricate le molte pietre che recate avea, niquitoso corse verso la moglie, e presala per le trecce, la si gittò a’ piedi, e quivi, quanto egli potè menar le braccia ed i piedi, tanto le die’ per tutta la persona pugna e calci, senza lasciarle in capo capello o osso addosso che macero non fosse, niuna cosa valendole il chieder mercé con le mani in croce. Buffalmacco e Bruno, poi che co’ guardiani della porta ebbero alquanto riso, con lento passo cominciarono alquanto lontani a seguitar Calandrino; e giunti a piè dell’uscio di lui, sentirono la fiera battitura la quale alla moglie dava, e faccendo vista di giugnere pure allora, il chiamarono. Calandrino tutto sudato, rosso ed affannato si fece alla finestra e pregògli che suso a lui dovessero andare. Essi, mostrandosi alquanto turbati, andaron suso e videro la sala piena di pietre, e nell’un de’ canti la donna scapigliata, stracciata, tutta livida e rotta nel viso, dolorosamente piagnere: e d’altra parte, Calandrino, scinto ed ansando a guisa d’uom lasso, sedersi. Dove come alquanto ebbero riguardato, dissero: — Che è questo, Calandrino? Vuoi tu murare, ché noi veggiamo qui tante pietre? — Ed oltre a questo, soggiunsero: — E monna Tessa che ha? El par che tu l’abbi battuta; che novelle son queste? — Calandrino, faticato dal peso delle pietre e dalla rabbia con la quale la donna aveva battuta e dal dolore della ventura la quale perduta gli pareva avere, non poteva raccoglier lo spirito a formare intera la parola alla risposta; per che soprastando, Buffalmacco rincominciò: — Calandrino, se tu avevi altra ira, tu non ci dovevi per ciò straziare come fatto hai; ché, poi sodotti ci avesti a cercar teco della pietra preziosa, senza dirci a Dio né a diavolo, a guisa di due becconi nel Mugnon ci lasciasti e venistitene, il che noi abbiamo forte per male: ma per certo questa fia la sezzaia che tu ci farai mai. — A queste parole Calandrino, sforzandosi, rispose: — Compagni, non vi turbate: l’opera sta altramenti che voi non pensate. Io, sventurato, aveva quella pietra trovata: e volete udire se io dico il vero? Quando voi primieramente di me domandaste l’un l’altro, io v’era presso a men di diece braccia, e veggendo che voi ve ne venivate e non mi vedevate, v’entrai innanzi, e continuamente poco innanzi a voi me ne son venuto. — E cominciandosi dall’un de’ capi, infino alla fine raccontò loro ciò che essi fatto e detto aveano, e mostrò loro il dosso e le calcagna come i ciotti conci gliel’avessero, e poi seguitò: — E dicovi che, entrando alla porta con tutte queste pietre in seno che voi vedete qui, niuna cosa mi fu detta, ché sapete quanto esser sogliano spiacevoli e noiosi que’ guardiani a volere ogni cosa vedere; ed oltre a questo, ho trovati per la via piú miei compari ed amici, li quali sempre mi soglion far motto ed invitarmi a bere, né alcun fu che parola mi dicesse né mezza, sí come quegli che non mi vedeano. Alla fine, giunto qui a casa, questo diavolo di questa femina maladetta mi si parò dinanzi ed ebbemi veduto, per ciò che, come voi sapete, le femine fanno perder la vertú ad ogni cosa; di che io, che mi poteva dire il piú avventurato uom di Firenze, sono rimaso il piú sventurato: e per questo l’ho tanto battuta quanto io ho potuto menar le mani, e non so a quello che io mi tengo che io non le sego le veni, che maladetta sia l’ora che io prima la vidi e quando ella mai venne in questa casa! — E raccesosi nell’ira, si voleva levare per tornare a batterla da capo. Buffalmacco e Bruno, queste cose udendo, facevan vista di maravigliarsi forte e spesso affermavano quello che Calandrino diceva, ed avevano sí gran voglia di ridere, che quasi scoppiavano: ma veggendolo furioso levare per battere un’altra volta la moglie, levatiglisi alla ‘ncontro, il ritennero, dicendo, di queste cose niuna colpa aver la donna ma egli, che sapeva che le femine facevano perdere la vertú alle cose, e non l’aveva detto che ella si guardasse d’apparirgli innanzi quel giorno; il quale avvedimento Iddio gli aveva tolto o per ciò che la ventura non doveva esser sua o perché egli aveva in animo d’ingannare i suoi compagni, a’ quali, come s’avvedeva d’averla trovata, il dovea palesare. E dopo molte parole, non senza gran fatica la dolente donna riconciliata con essolui, e lasciandol malinconoso con la casa piena di pietre, si partirono.
Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 326