Collected Works of Giovanni Boccaccio

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Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 338

by Giovanni Boccaccio


  Novella ottava

  [VIII]

  BIONDELLO FA UNA beffa a Ciacco d’un desinare, della quale Ciacco cautamente si vendica faccendo lui sconciamente battere.

  Universalmente ciascun della lieta compagnia disse, quello che Talano veduto aveva dormendo, non essere stato sogno ma visione, sì appunto, senza alcuna cosa mancarne, era avvenuto.

  Ma tacendo ciascuno, impose la reina alla Lauretta che seguitasse; la qual disse:

  Come costoro, savissime donne, che oggi davanti da me hanno parlato, quasi tutti da alcuna cosa giá detta mossi sono stati a ragionare, cosí me muove la rigida vendetta, ieri raccontata da Pampinea, che fe’ lo scolare, a dover dire d’una assai grave a colui che la sostenne, quantunque non fosse per ciò tanto fiera; e per ciò dico che

  Essendo in Firenze uno da tutti chiamato Ciacco, uomo ghiottissimo quanto alcuno altro fosse giá mai, e non potendo la sua possibilitá sostener le spese che la sua ghiottornia richiedea, essendo per altro assai costumato e tutto pieno di belli e di piacevoli motti, si diede ad essere, non del tutto uom di corte ma morditore, e ad usare con coloro che ricchi erano e di mangiare delle buone cose si dilettavano: e con questi a desinare ed a cena, ancor che chiamato non fosse ogni volta, andava assai sovente. Era similmente in que’ tempi in Firenze uno il quale era chiamato Biondello, piccoletto della persona, leggiadro molto e piú pulito che una mosca, con una sua cuffia in capo, con una zazzerina bionda e per punto senza un capel torto avervi, il quale quel medesimo mestiere usava che Ciacco; il quale, essendo una mattina di quaresima andato lá dove il pesce si vende e comperando due grossissime lamprede per messer Vieri de’ Cerchi, fu veduto da Ciacco, il quale, avvicinatosi a Biondello, disse: — Che vuol dir questo? — A cui Biondel rispose: — Iersera ne furon mandate tre altre troppo piú belle che queste non sono ed uno storione a messer Corso Donati, le quali non bastandogli per voler dar mangiare a certi gentili uomini, m’ha fatte comperare queste altre due: non vi verrai tu? — Rispose Ciacco: — Ben sai che io vi verrò. — E quando tempo gli parve, a casa messer Corso se n’andò, e trovollo con alcuni suoi vicini che ancora non era andato a desinare; al quale egli, essendo da lui domandato che andasse faccendo, rispose: — Messere, io vengo a desinar con voi e con la vostra brigata. — A cui messer Corso disse: — Tu sii il ben venuto: e per ciò che egli è tempo, andianne. — Postisi adunque a tavola, primieramente ebbero del cece e della sorra, ed appresso del pesce d’Arno fritto, senza piú. Ciacco, accortosi dello ‘nganno di Biondello ed in sé non poco turbatosene, propose di dovernel pagare: né passâr molti di, che egli in lui si scontrò, il qual giá molti aveva fatti rider di questa beffa. Biondello, vedutolo, il salutò, e ridendo il domandò chenti fossero state le lamprede di messer Corso; a cui Ciacco rispondendo disse: — Avanti che otto giorni passino tu il saprai molto meglio dir di me. — E senza mettere indugio al fatto, partitosi da Biondello, con un saccente barattier si convenne del prezzo, e datogli un bottaccio di vetro, il menò vicino della loggia de’ Cavicciuli e mostrògli in quella un cavaliere chiamato messer Filippo Argenti, uom grande e nerboruto e forte, sdegnoso, iracondo e bizzarro piú che altro, e dissegli: — Tu te n’andrai a lui con questo fiasco in mano e dira’gli cosi: — Messere, a voi mi manda Biondello, e mándavi pregando che vi piaccia d’arrubinargli questo fiasco del vostro buon vin vermiglio, ché si vuole alquanto sollazzar con suoi zanzeri. — E sta’ bene accorto che egli non ti ponesse le mani addosso, per ciò che egli ti darebbe il mal dí, ed avresti guasti i fatti miei. — Disse il barattiere: — Ho io a dire altro? — Disse Ciacco: — No, va’ pure; e come tu hai questo detto, torna qui a me col fiasco, ed io ti pagherò. — Mossosi adunque il barattiere, fece a messer Filippo l’ambasciata. Messer Filippo, udito costui, come colui che piccola levatura avea, avvisando che Biondello, il quale egli conosceva, si facesse beffe di lui, tutto tinto nel viso, dicendo: — Che «arrubinatemi» e che «zanzeri» son questi, che nel malanno metta Iddio te e lui? — si levò in piè e distese il braccio per pigliar con la mano il barattiere: ma il barattiere, come colui che attento stava, fu presto e fuggí via, e per altra parte ritornò a Ciacco, il quale ogni cosa veduta avea, e dissegli ciò che messer Filippo aveva detto. Ciacco contento pagò il barattiere, e non riposò mai che egli ebbe ritrovato Biondello; al quale egli disse: — Fostu a questa pezza dalla loggia de’ Cavicciuli? — Rispose Biondello: — Mai no; perché me ne domandi tu? — Disse Ciacco: — Per ciò che io ti so dire che messer Filippo ti fa cercare; non so quel che si vuole. — Disse allora Biondello: — Bene, io vo verso lá, io gli farò motto. — Partitosi Biondello, Ciacco gli andò appresso per vedere come il fatto andasse. Messer Filippo, non avendo potuto giugnere il barattiere, era rimaso fieramente turbato e tutto in se medesimo si rodea, non potendo dalle parole dette dal barattiere cosa del mondo trarre altro, se non che Biondello, ad istanza di cui che sia, si facesse beffe di lui: ed in questo che egli cosí si rodeva, e Biondel venne. Il quale come egli vide, fattoglisi incontro, gli die’ nel viso un gran punzone. — Oimè! messer, — disse Biondel — che è questo? — Messer Filippo, presolo per li capelli e stracciatagli la cuffia in capo e gittato il cappuccio per terra e dandogli tuttavia forte, diceva: — Traditore, tu il vedrai bene ciò che questo è; che «arrubinatemi» e che «zanzeri» mi mandi tu dicendo a me? Paioti io fanciullo da dovere essere uccellato? — E cosí dicendo, con le pugna le quali aveva che parevan di ferro, tutto il viso gli ruppe, né gli lasciò in capo capello che ben gli volesse, e convoltolo per lo fango, tutti i panni indosso gli stracciò: e sí a questo fatto si studiava, che pure una volta dalla prima innanzi non gli potè Biondello dire una parola né domandare perché questo gli facesse; aveva egli bene inteso dell’«arrubinatemi» e de’ «zanzeri», ma non sapeva che ciò si volesse dire. Alla fine, avendol messer Filippo ben battuto ed essendogli molti dintorno, alla maggior fatica del mondo gliele trasser di mano cosí rabbuffato e malconcio come era, e dissergli perché messer Filippo questo avea fatto, riprendendolo di ciò che mandato gli aveva dicendo, e dicendogli che egli doveva bene oggimai conoscere messer Filippo e che egli non era uomo da motteggiar con lui. Biondello, piagnendo, si scusava e diceva che mai a messer Filippo non aveva mandato per vino: ma poi che un poco si fu rimesso in assetto, tristo e dolente se ne tornò a casa, avvisando questa essere stata opera di Ciacco. E poi che dopo molti dí, partiti i lividori del viso, cominciò di casa ad uscire, avvenne che Ciacco il trovò, e ridendo il domandò: — Biondello, chente ti parve il vino di messer Filippo? — Rispose Biondello: — Tali fosser parute a te le lamprede di messer Corso! — Allora disse Ciacco: — A te sta oramai: qualora tu mi vuogli cosí ben dare da mangiare come facesti, io darò a te cosí ben da ber come avesti. — Biondello, che conosceva che contro a Ciacco egli poteva piú aver mala voglia che opera, pregò Iddio della pace sua, e da indi innanzi si guardò di mai piú beffarlo.

  Novella nona

  [IX]

  DUE GIOVANI DOMANDAN consiglio a Salamone, l’uno come possa essere amato, l’altro come gastigare debba la moglie ritrosa; all’un risponde che ami ed all’altro che vada al Ponte all’oca.

  Niuno altro che la reina, volendo il privilegio servare a Dioneo, restava a dover novellare; la qual, poi che le donne ebbero assai riso dello sventurato Biondello, lieta cominciò cosí a parlare:

  Amabili donne, se con sana mente sará riguardato l’ordine delle cose, assai leggermente si conoscerá, tutta l’universal moltitudine delle femine dalla natura e da’ costumi e dalle leggi essere agli uomini sottomessa, e secondo la discrezione di quegli convenirsi reggere e governare: e però ciascuna che quiete, consolazione e riposo vuole con quegli uomini avere a’ quali s’appartiene, dèe essere umile, paziente ed obediente, oltre all’essere onesta, il che è sommo e spezial tesoro di ciascuna savia. E quando a questo le leggi, le quali il ben comune riguardano in tutte le cose, non ci ammaestrassono, e l’usanza, o costume che vogliamo dire, le cui forze son grandissime e reverende, la natura assai apertamente cel mostra, la quale ci ha fatte ne’ corpi dilicate e morbide, negli animi timide e paurose, nelle
menti benigne e pietose, ed hacci date le corporali forze leggère, le voci piacevoli ed i movimenti de’ membri soavi: cose tutte testificanti, noi avere dell’altrui governo bisogno. E chi ha bisogno d’essere aiutato e governato, ogni ragion vuol, lui dovere essere obediente e suggetto e reverente al governator suo: e cui abbiam noi governatori ed aiutatori se non gli uomini? Adunque agli uomini dobbiamo, sommamente onorandogli, soggiacere; e qual da questo si parte, estimo che degnissima sia non solamente di riprension grave, ma d’aspro gastigamento. Ed a cosí fatta considerazione, come che altra volta avuta l’abbia, pur poco fa mi ricondusse ciò che Pampinea della ritrosa moglie di Talano raccontò; alla quale Iddio quel gastigamento mandò che il marito dare non aveva saputo: e per ciò nel mio giudicio cape, tutte quelle esser degne, come giá dissi, di rigido ed aspro gastigamento, che dall’esser piacevoli, benivole e pieghevoli, come la natura, l’usanza e le leggi voglion, si partono. Per che m’aggrada di raccontarvi un consiglio renduto da Salamone, sí come utile medicina a guerire quelle che cosí son fatte da cotal male; il quale niuna che di tal medicina degna non sia, reputi ciò esser detto per lei, come che gli uomini un cotal proverbio usino: «Buon cavallo e mal cavallo vuole sprone, e buona femina e mala femina vuol bastone». Le quali parole chi volesse sollazzevolemente interpetrare, di leggeri si concederebbe da tutte cosí esser vero: ma pur volendole moralmente intendere, dico che è da concedere. Son naturalmente le femine tutte labili ed inchinevoli, e perciò, a correggere l’iniquitá di quelle che troppo fuori de’ termini posti loro si lasciano andare, si conviene il baston che le punisca, ed a sostentar la vertú dell’altre, ché trascorrer non si lascino, si conviene il bastone che le sostenga e che le spaventi. Ma lasciando ora stare il predicare, a quel venendo che di dire ho nell’animo, dico che

  Essendo giá quasi per tutto il mondo l’altissima fama del miracoloso senno di Salamone discorsa per l’universo, ed il suo esser di quello liberalissimo mostratore a chiunque per esperienza ne voleva certezza, molti di diverse parti del mondo a lui per loro strettissimi ed ardui bisogni concorrevano per consiglio: e tra gli altri che a ciò andavano, si partì un giovane il cui nome fu Melisso, nobile e ricco molto, della cittá di Laiazzo, lá onde egli era e dove egli abitava. E verso Ierusalem cavalcando, avvenne che, uscendo d’Antiochia, con uno altro giovane chiamato Giosefo, il quale quel medesimo cammin teneva che faceva esso, cavalcò per alquanto spazio; e come costume è de’ camminanti, con lui cominciò ad entrare in ragionamenti. Avendo Melisso giá da Giosefo di sua condizione e donde fosse saputo, dove egli andasse e perché, il domandò; al quale Giosefo disse che a Salamone andava, per aver consiglio da lui che via tener dovesse con una sua moglie piú che altra femina ritrosa e perversa, la quale egli né con prieghi né con lusinghe né in alcuna altra guisa dalle sue ritrosie ritrar poteva. Ed appresso, lui similmente, donde fosse e dove andasse e perché, domandò; al quale Melisso rispose: — Io son di Laiazzo, e sí come tu hai una disgrazia, cosí n’ho io un’altra: io son ricco giovane e spendo il mio in metter tavola ed onorare i miei cittadini, ed è nuova e strana cosa a pensare che, per tutto questo, io non posso trovare uomo che ben mi voglia; e per ciò io vado dove tu vai, per aver consiglio come addivenir possa che io amato sia. — Camminarono adunque i due compagni insieme, ed in Ierusalem pervenuti, per introdotto d’un de’ baroni di Salamone, davanti da lui furon messi, al quale brievemente Melisso disse la sua bisogna; a cui Salamone rispose: — Ama. — E detto questo, prestamente Melisso fu messo fuori, e Giosefo disse quello per che v’era; al quale Salamone nulla altro rispose se non: — Va’ al Ponte all’oca. — Il che detto, similmente Giosefo fu senza indugio dalla presenza del re levato, e ritrovò Melisso il quale l’aspettava, e dissegli ciò che per risposta aveva avuto. Li quali, a queste parole pensando e non potendo d’esse comprendere né intendimento né frutto alcuno per la loro bisogna, quasi scornati, a ritornarsi indietro entrarono in cammino: e poi che alquante giornate camminati furono, pervennero ad un fiume sopra il quale era un bel ponte; e per ciò che una gran carovana di some sopra muli e sopra cavalli passavano, lor convenne sofferir di passar tanto che quelle passate fossero. Ed essendo giá quasi che tutte passate, per ventura v’ebbe un mulo il quale adombrò, sí come sovente gli veggiam fare, né volea per alcuna maniera avanti passare; per la qual cosa un mulattiere, presa una stecca, prima assai temperatamente lo ‘ncominciò a battere perché el passasse. Ma il mulo ora da questa parte della via ed ora da quella attraversandosi, e talvolta indietro tornando, per niun partito passar volea; per la qual cosa il mulattiere oltre modo adirato gl’incominciò con la stecca a dare i maggior colpi del mondo, ora nella testa ed ora ne’ fianchi ed ora sopra la groppa: ma tutto era nulla. Per che Melisso e Giosefo, li quali questa cosa stavano a vedere, sovente dicevano al mulattiere: — Deh! cattivo, che farai? Vuoil tu uccidere? Perché non t’ingegni tu di menarlo bene e pianamente? Egli verrá piú tosto che a bastonarlo come tu fai. — A’ quali il mulattier rispose: — Voi conoscete i vostri cavalli, ed io conosco il mio mulo: lasciate far me con lui. — E questo detto, rincominciò a bastonarlo, e tante d’una parte e d’altra ne gli die’, che il mulo passò avanti, sí che il mulattiere vinse la pruova. Essendo adunque i due giovani per partirsi, domandò Giosefo un buono uomo il quale a capo del ponte sedeva, come quivi si chiamasse; al quale il buono uomo rispose: — Messer, qui si chiama il Ponte all’oca. — Il che come Giosefo ebbe udito, cosí si ricordò delle parole di Salamone, e disse verso Melisso: — Or ti dico io, compagno, che il consiglio datomi da Salamone potrebbe esser buono e vero, per ciò che assai manifestamente conosco che io non sapeva battere la donna mia: ma questo mulattiere m’ha mostrato quello che io abbia a fare. — Quindi, dopo alquanti di venuti ad Antiochia, ritenne Giosefo Melisso seco a riposarsi alcun dí: ed essendo assai ferialmente dalla donna ricevuto, le disse che cosí facesse far da cena come Melisso divisasse; il quale, poi vide che a Giosefo piaceva, in poche parole se ne diliberò. La donna, sí come per lo passato era usata, non come Melisso divisato avea, ma quasi tutto il contrario fece; il che Giosefo veggendo, turbato disse: — Non ti fu egli detto in che maniera tu facessi questa cena fare? — La donna, rivoltasi con orgoglio, disse: — Ora, che vuol dir questo? Deh! ché non ceni, se tu vuoi cenare? Se mi fu detto altramenti, a me parve da far cosi: se ti piace, si ti piaccia; se non, si te ne sta’. — Maravigliossi Melisso della risposta della donna, e biasimolla assai. Giosefo, udendo questo, disse: — Donna, ancor se’ tu quel che tu suogli, ma credimi che io ti farò mutar modo. — Ed a Melisso rivolto, disse: — Amico, tosto vedremo chente sia stato il consiglio di Salamone; ma io ti priego non ti sia grave lo stare a vedere, e di reputare per un giuoco quello che io farò. Ed acciò che tu non m’impediscili, ricorditi della risposta che ci fece il mulattiere quando del suo mulo c’increbbe. — Al quale Melisso disse: — Io sono in casa tua, dove dal tuo piacere io non intendo di mutarmi. — Giosefo, trovato un baston tondo d’un querciuolo giovane, se n’andò in camera, dove la donna, per istizza da tavola levatasi, brontolando se n’era andata, e presala per le trecce, la si gittò a’ piedi e cominciolla fieramente a battere con questo bastone. La donna cominciò prima a gridare e poi a minacciare: ma veggendo che per tutto ciò Giosefo non ristava, giá tutta rotta cominciò a chieder mercé per Dio che egli non l’uccidesse, dicendo oltre a ciò di mai dal suo piacer non partirsi. Giosefo per tutto questo non rifinava, anzi con piú furia l’una volta che l’altra, or per lo costato, ora per l’anche ed ora su per le spalle battendola forte, l’andava le costure ritrovando, né prima ristette che egli fu stanco: ed in brieve, niuno osso né alcuna parte rimase nel dosso della buona donna, che macerata non fosse; e questo fatto, ne venne a Melisso e dissegli: — Doman vedremo che pruova avrá fatto il consiglio del Va’ al Ponte all’oca». — E riposatosi alquanto e poi lavatesi le mani, con Melisso cenò, e quando fu tempo, s’andarono a riposare. La donna cattivella a gran fatica si levò di terra ed in sul letto si gittò, dove, come potè il meglio, riposatasi, la mattina vegnente per tempissimo levatasi, fe’ domandar Giosefo di quello che voleva si
facesse da desinare. Egli, di ciò insieme ridendosi con Melisso, il divisò; e poi, quando fu ora, tornati, ottimamente ogni cosa e secondo l’ordine dato trovaron fatta; per la qual cosa il consiglio prima da lor male inteso sommamente lodarono. E dopo alquanti di, partitosi Melisso da Giosefo e tornato a casa sua, ad alcun che savio uomo era, disse ciò che da Salamone avuto avea; il quale gli disse: — Niun piú vero consiglio né migliore ti potea dare. Tu sai che tu non ami persona, e gli onori ed i servigi li quali tu fai, gli fai non per amore che tu ad alcun porti, ma per pompa. Ama adunque, come Salamon ti disse, e sarai amato. — Cosí adunque fu gastigata la ritrosa ed il giovane amando fu amato.

 

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