Collected Works of Giovanni Boccaccio

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Collected Works of Giovanni Boccaccio Page 340

by Giovanni Boccaccio


  Novella seconda

  [II]

  GHINO DI TACCO piglia l’abate di Cligni e medicalo del male dello stomaco, e poi il lascia; il quale, tornato in corte di Roma, lui riconcilia con Bonifazio papa, e fállo friere dello Spedale.

  Lodata era giá stata la magnificenza del re Anfonso nel fiorentin cavaliere usata, quando il re, al quale molto era piaciuta, ad Elissa impose che seguitasse; la quale prestamente incominciò:

  Dilicate donne, l’essere stato un re magnifico e l’avere la sua magnificenza usata verso colui che servito l’avea non si può dire che laudevole e gran cosa non sia: ma che direm noi se si racconterá, un cherico aver mirabil magnificenza usata verso persona che, se inimicato l’avesse, non ne sarebbe stato biasimato da persona? Certo non altro, se non che quella del re fosse vertú e quella del cherico miracolo, con ciò sia cosa che essi tutti avarissimi troppo piú che le femine sieno, e d’ogni liberalitá nemici a spada tratta; e quantunque ogni uomo naturalmente appetisca vendetta delle ricevute offese, i cherici, come si vede, quantunque la pazienza predichino e sommamente la remission dell’offese commendino, piú focosamente che gli altri uomini a quella discorrono. La qual cosa, cioè come un cherico magnifico fosse, nella mia seguente novella potrete conoscere aperto.

  Ghino di Tacco, per la sua fierezza e per le sue ruberie uomo assai famoso, essendo di Siena cacciato e nemico de’ conti di Santafiore, ribellò Radicofani alla Chiesa di Roma, ed in quel dimorando, chiunque per le circostanti parti passava rubar faceva a’ suoi masnadieri. Ora, essendo Bonifazio papa ottavo in Roma, venne a corte l’abate di Cligni, il quale si crede essere un de’ piú ricchi prelati del mondo: e quivi guastatoglisi lo stomaco, fu da’ medici consigliato che egli andasse a’ bagni di Siena, e guerirebbe senza fallo; per la qual cosa, concedutogliele il papa, senza curar della fama di Ghino, con gran pompa d’arnesi e di some e di cavalli e di famiglia entrò in cammino. Ghino di Tacco, sentendo la sua venuta, tese le reti, e senza perderne un sol ragazzetto, l’abate con tutta la sua famiglia e le sue cose in uno stretto luogo racchiuse: e questo fatto, un de’ suoi il piú saccente, bene accompagnato, mandò all’abate, al quale da parte di lui assai amorevolmente gli disse che gli dovesse piacere d’andare a smontare con esso Ghino al castello. Il che l’abate udendo, tutto furioso rispose che egli non ne voleva far niente, sí come quegli che con Ghino niente aveva a fare, ma che egli andrebbe avanti e vorrebbe veder chi l’andar gli vietasse. Al quale l’ambasciadore umilmente parlando disse: — Messer, voi siete in parte venuto dove, dalla forza di Dio in fuori, di niente ci si teme per noi, e dove le scomunicazioni e gl’interdetti sono scomunicati tutti: e per ciò piacciavi per lo migliore di compiacere a Ghino di questo. — Era giá, mentre queste parole erano, tutto il luogo di masnadieri circondato; per che l’abate, co’ suoi preso veggendosi, disdegnoso forte, con l’ambasciadore prese la via verso il castello, e tutta la sua brigata e li suoi arnesi con lui. E smontato, come Ghino volle, tutto solo fu messo in una cameretta d’un palagio assai oscura e disagiata, ed ogni altro uomo secondo la sua qualitá per lo castello fu assai bene adagiato, ed i cavalli e tutto l’arnese messo in salvo senza alcuna cosa toccarne. E questo fatto, se n’andò Ghino all’abate e dissegli: — Messer, Ghino, di cui voi siete oste, vi manda pregando che vi piaccia di significargli dove voi andavate e per qual cagione. — L’abate che, come savio, aveva l’altierezza giú posta, gli significò dove andasse e perché. Ghino, udito questo, si partì, e pensossi di volerlo guerire senza bagno: e faccendo nella cameretta sempre ardere un gran fuoco e ben guardarla, non tornò a lui infino alla seguente mattina: ed allora in una tovagliuola bianchissima gli portò due fette di pane arrostito ed un gran bicchiere di vernaccia da Corniglia, di quella dell’abate medesimo; e si disse all’abate: — Messer, quando Ghino era piú giovane, egli studiò in medicine, e dice che apparò, niuna medicina al mal dello stomaco esser miglior che quella che egli vi fará; della quale queste cose che io vi reco sono il cominciamento, e per ciò prendetele e confortatevi. — L’abate, che maggior fame aveva che voglia di motteggiare, ancora che con isdegno il facesse, si mangiò il pane e bevve la vernaccia, e poi molte cose altiere disse e di molte domandò e molte ne consigliò, ed in ispezialtá chiese di poter veder Ghino. Ghino, udendo quelle, parte ne lasciò andar sí come vane e ad alcuna assai cortesemente rispose, affermando che, come Ghino piú tosto potesse, il visiterebbe; e questo detto, da lui si partì, né prima vi tornò che il seguente dì, con altrettanto pane arrostito e con altrettanta vernaccia: e cosí il tenne piú giorni, tanto che egli s’accorse, l’abate aver mangiate fave secche le quali egli studiosamente e di nascoso portate v’aveva e lasciate. Per la qual cosa egli il domandò da parte di Ghino come star gli pareva dello stomaco; al quale l’abate rispose: — A me parrebbe star bene, se io fossi fuori delle sue mani; ed appresso questo, niuno altro talento ho maggiore che di mangiare, sì ben m’hanno le sue medicine guerito. — Ghino adunque, avendogli de’ suoi arnesi medesimi ed alla sua famiglia fatta acconciare una bella camera, e fatto apparecchiare un gran convito, al quale con molti uomini del castello fu tutta la famiglia dell’abate, a lui se n’andò la mattina seguente e dissegli: — Messer, poi che voi ben vi sentite, tempo è d’uscire d’infermeria — e per la man presolo, nella camera apparecchiatagli nel menò, ed in quella co’ suoi medesimi lasciatolo, a far che il convito fosse magnifico attese. L’abate co’ suoi alquanto si ricreò, e qual fosse la sua vita stata narrò loro, dove essi in contrario tutti dissero sé essere stati maravigliosamente onorati da Ghino; ma l’ora del mangiar venuta, l’abate e tutti gli altri ordinatamente e di buone vivande e di buoni vini serviti furono, senza lasciarsi Ghino ancora all’abate conoscere. Ma poi che l’abate alquanti dì in questa maniera fu dimorato, avendo Ghino in una sala tutti gli suoi arnesi fatti venire, ed in una corte che di sotto a quella era tutti i suoi cavalli infino al piú misero ronzino, all’abate se n’andò e domandollo come star gli pareva e se forte si credeva essere da cavalcare; a cui l’abate rispose che forte era egli assai e dello stomaco ben guerito, e che starebbe bene qualora fosse fuori delle mani di Ghino. Menò allora Ghino l’abate nella sala dove erano i suoi arnesi e la sua famiglia tutta, e fattolo ad una finestra accostare donde egli poteva tutti i suoi cavalli vedere, disse: — Messer l’abate, voi dovete sapere che l’esser gentile uomo e cacciato di casa sua e povero, ed avere molti e possenti nemici hanno, per potere la sua vita difendere e la sua nobiltá, e non malvagitá d’animo, condotto Ghino di Tacco, il quale io sono, ad essere rubatore delle strade e nemico della corte di Roma. Ma per ciò che voi mi parete valente signore, avendovi io dello stomaco guerito come io ho, non intendo di trattarvi come uno altro farei, a cui, quando nelle mie mani fosse come voi siete, quella parte delle sue cose mi farei che mi paresse: ma io intendo che voi a me, il mio bisogno considerato, quella parte delle vostre cose facciate che voi medesimo volete. Elle sono interamente qui dinanzi da voi tutte, ed i vostri cavalli potete voi da cotesta finestra nella corte vedere; e per ciò e la parte ed il tutto, come vi piace, prendete, e da questa ora innanzi sia e l’andare e lo stare nel piacer vostro. — Maravigliossi l’abate che in un rubator di strada fosser parole sí libere, e piacendogli molto, subitamente la sua ira e lo sdegno caduti, anzi in benivolenza mutatisi, col cuore amico di Ghino divenuto, il corse ad abbracciar dicendo: — Io giuro a Dio che, per dover guadagnar l’amistá d’uno uomo sí fatto come omai io giudico che tu sii, io sofferrei di ricevere troppo maggiore ingiuria che quella che infino a qui paruta m’è che tu m’abbi fatta. Maladetta sia la fortuna, la quale a sí dannevole mestier ti costrigne! — Ed appresso questo, fatto delle sue molte cose pochissime ed opportune prendere, e de’ cavalli similmente, e l’altre lasciategli tutte, a Roma se ne tornò. Aveva il papa saputa la presura dell’abate: e come che molto gravata gli fosse, veggendolo il domandò come i bagni fatto gli avesser prò; al quale l’abate sorridendo rispose: — Santo padre, io trovai piú vicino che i bagni un valente medico, il quale ottimamente guerito m’ha. — E contògli il modo, di che il papa rise; al quale l’abate, segui
tando il suo parlare, da magnifico animo mosso, domandò una grazia. Il papa, credendo lui dover domandare altro, liberamente offerse di far ciò che domandasse. Allora l’abate disse: — Santo padre, quello che io intendo domandarvi è che voi rendiate la grazia vostra a Ghino di Tacco mio medico, per ciò che tra gli altri uomini valorosi e da molto che io accontai mai, egli è per certo un de’ piú, e quel male il quale egli fa, io il reputo molto maggior peccato della fortuna che suo; la qual se voi con alcuna cosa dandogli donde egli possa secondo lo stato suo vivere, mutate, io non dubito punto che in poco di tempo non ne paia a voi quello che a me ne pare. — Il papa, udendo questo, sí come colui che di grande animo fu e vago de’ valenti uomini, disse di farlo volentieri se da tanto fosse come diceva, e che egli il facesse sicuramente venire. Venne adunque Ghino, fidato, come all’abate piacque, a corte: né guari appresso del papa fu, che egli il reputò valoroso, e riconciliatolsi, gli donò una gran prioria di quelle dello Spedale, di quello avendol fatto far cavaliere; la quale egli, amico e servidore di santa Chiesa e dell’abate di Cligni, tenne mentre visse.

  Novella terza

  [III]

  MITRIDANES, INVIDIOSO DELLA cortesia di Natan, andando per ucciderlo, senza conoscerlo capita a lui, e da lui stesso informato del modo, il truova in un boschetto come ordinato avea; il quale riconoscendolo si vergogna, e suo amico diviene.

  Simil cosa a miracolo per certo pareva a tutti avere udito, cioè che un cherico alcuna cosa magnificamente avesse operata: ma riposandosene giá il ragionare delle donne, comandò il re a Filostrato che procedesse; il quale prestamente incominciò:

  Nobili donne, grande fu la magnificenza del re di Spagna e forse cosa piú non udita giá mai quella dell’abate di Cligni, ma forse non meno maravigliosa cosa vi parrá l’udire che uno, per liberalitá usare ad uno altro che il suo sangue, anzi il suo spirito disiderava, cautamente a dargliele si disponesse: e fatto l’avrebbe se colui prender l’avesse voluto, sí come io in una mia novelletta intendo di dimostrarvi.

  Certissima cosa è, se fede si può dare alle parole d’alcuni genovesi e d’altri uomini che in quelle contrade stati sono, che nelle parti del Cattaio fu giá uno uomo di legnaggio nobile, e ricco senza comparazione, per nome chiamato Natan, il quale, avendo un suo ricetto vicino ad una strada per la qual quasi di necessitá passava ciascuno che di Ponente verso Levante andar voleva o di Levante in Ponente, ed avendo l’animo grande e liberale e disideroso che fosse per opera conosciuto, quivi avendo molti maestri, fece in piccolo spazio di tempo fare un de’ piú belli e de’ maggiori e de’ piú ricchi palagi che mai fosse stato veduto, e quello di tutte quelle cose che opportune erano a dovere gentili uomini ricevere ed onorare fece ottimamente fornire. Ed avendo grande e bella famiglia, con piacevolezza e con festa chiunque andava e veniva faceva ricevere ed onorare: ed intanto perseverò in questo laudevol costume, che giá non solamente il Levante, ma quasi tutto il Ponente per fama il conoscea. Ed essendo egli giá d’anni pieno, né però del corteseggiar divenuto stanco, avvenne che la sua fama agli orecchi pervenne d’un giovane chiamato Mitridanes, di paese non guari al suo lontano, il quale, sentendosi non meno ricco che Natan fosse, divenuto della sua fama e della sua vertú invidioso, seco propose con maggior liberalitá quella o annullare o offuscare: e fatto fare un palagio simile a quello di Natan, cominciò a fare le piú smisurate cortesie che mai facesse alcuno altro, a chi andava o veniva per quindi, e senza dubbio in piccol tempo assai divenne famoso. Ora, avvenne un giorno che, dimorando il giovane tutto solo nella corte del suo palagio, una feminella, entrata dentro per una delle porti del palagio, gli domandò limosina ed ebbela; e ritornata per la seconda porta pure a lui, ancora l’ebbe, e cosí successivamente infino alla duodecima: e la tredécima volta tornata, disse Mitridanes: — Buona femina, tu se’ assai sollecita a questo tuo domandare — e nondimeno le fece limosina. La vecchierei la, udita questa parola, disse: — O liberalitá di Natan, quanto se’ tu maravigliosa! ché per trentadue porti che ha il suo palagio, sí come questo, entrata e domandatagli limosina, mai da lui, che egli mostrasse, riconosciuta non fui, e sempre l’ebbi: e qui non venuta ancora se non per tredici, e riconosciuta e proverbiata sono stata. — E cosí dicendo, senza piú ritornarvi si diparti. Mitridanes, udite le parole della vecchia, come colui che ciò che della fama di Natan udiva, diminuimento della sua estimava, in rabbiosa ira acceso, cominciò a dire: — Ahi lasso a me! quando aggiugnerò io alla liberalitá delle gran cose di Natan, non che io il trapassi, come io cerco, quando nelle piccolissime io non gli mi posso avvicinare? Veramente io mi fatico invano, se io di terra nol tolgo; la qual cosa, poscia che la vecchiezza nol porta via, convien senza alcuno indugio che io faccia con le mie mani. — E con questo impeto levatosi, senza comunicare il suo consiglio ad alcuno, con poca compagnia montato a cavallo, dopo il terzo dí dove Natan dimorava pervenne: ed a’ compagni imposto che sembianti facessero di non esser con lui né di conoscerlo, e che di stanza si procacciassero infino che da lui altro avessero, quivi in sul fare della sera pervenuto e solo rimaso, non guari lontano al bel palagio trovò Natan tutto solo, il quale senza alcuno abito pomposo andava a suo diporto; cui egli, non conoscendolo, domandò se insegnargli sapesse dove Natan dimorasse. Natan lietamente rispose: — Figliuol mio, niuno è in questa contrada che meglio di me cotesto ti sappia mostrare, e per ciò, quando ti piaccia, io vi ti menerò. — Il giovane disse che questo gli sarebbe a grado assai, ma che, dove esser potesse, egli non voleva da Natan esser veduto né conosciuto; al qual Natan disse: — E còtesto ancora farò, poi che ti piace. — Smontato adunque Mitridanes, con Natan, che in piacevolissimi ragionamenti assai tosto il mise, infino al suo bel palagio n’andò. Quivi Natan fece ad un de’ suoi famigliari prendere il caval del giovane, ed accostatoglisi agli orecchi, gl’impose che egli prestamente con tutti quegli della casa facesse che niuno al giovane dicesse lui esser Natan; e cosí fu fatto. Ma poi che ne’ palagio furono, mise Mitridanes in una bellissima camera, dove alcuno noi vedeva, se non quegli che egli al suo servigio diputati avea: e sommamente faccendolo onorare, esso stesso gli tenea compagnia. Col quale dimorando Mitridanes, ancora che in reverenza come padre l’avesse, pur lo domandò chi el fosse; al quale Natan rispose: — Io sono un piccol servidor di Natan, il quale dalla mia fanciullezza con lui mi sono invecchiato, né mai ad altro che tu mi veggi mi trasse; per che, come che ogni altro uomo molto di lui si lodi, io me ne posso poco lodare io. — Queste parole porsero alcuna speranza a Mitridanes di potere con piú consiglio e con piú salvezza dare effetto al suo perverso intendimento; il qual Natan assai cortesemente domandò chi egli fosse e qual bisogno per quindi il portasse, offerendo il suo consiglio ed il suo aiuto in ciò che per lui si potesse. Mitridanes soprastette alquanto al rispondere, ed ultimamente, diliberando di fidarsi di lui, con una lunga circuizion di parole la sua fede richiese, ed appresso, il consiglio e l’aiuto: e chi egli era e perché venuto e da che mosso, interamente gli discoperse. Natan, udendo il ragionare ed il fiero proponimento di Mitridanes, in sé tutto si cambiò: ma senza troppo stare, con forte animo e con fermo viso gli rispose: — Mitridanes, nobile uomo fu il tuo padre, dal quale tu non vuogli degenerare, sí alta impresa avendo fatta come hai, cioè d’essere liberale a tutti: e molto la ‘nvidia che alla vertú di Natan porti, commendo, per ciò che, se di cosí fatte fossero assai, il mondo, che è miserissimo, tosto buon diverrebbe. Il tuo proponimento mostratomi senza dubbio sará occulto, al quale io piú tosto util consiglio che grande aiuto posso donare; il quale è questo. Tu puoi di quinci vedere, forse un mezzo miglio vicin di qui, un boschetto, nel quale Natan quasi ogni mattina va tutto solo prendendo diporto per ben lungo spazio: quivi leggèr cosa ti fia il trovarlo e farne il tuo piacere; il quale se tu uccidi, acciò che tu possa senza impedimento a casa tua ritornare, non per quella via donde tu qui venisti, ma per quella che tu vedi a sinistra uscir fuor del bosco, n’andrai, per ciò che, ancora che un poco piú salvatica sia, ella è piú vicina a casa tua e per te piú sicura. — Mitridanes, ricevuta la ‘nformazione, e Natan da lui essendo partito, cautamente a’ suoi compagn
i, che similmente lá entro erano, fece sentire dove aspettare il dovessero il dí seguente. Ma poi che il nuovo di fu venuto, Natan, non avendo animo vario al consiglio dato a Mitridanes, né quello in parte alcuna mutato, solo se n’andò al boschetto a dover morire. Mitridanes, levatosi e preso il suo arco e la sua spada, ché altra arme non avea, e montato a cavallo, n’andò al boschetto, e di lontano vide Natan tutto soletto andar passeggiando per quello; e diliberato, avanti che l’assalisse, di volerlo vedere e d’udirlo parlare, corse verso lui, e presolo per la benda la quale in capo avea, disse: — Vegliardo, tu se’ morto! — Al quale niuna altra cosa rispose Natan se non: — Adunque, l’ho io meritato. — Mitridanes, udita la voce e nel viso guardatolo, subitamente riconobbe lui esser colui che benignamente l’avea ricevuto e famigliarmente accompagnato e fedelmente consigliato; per che di presente gli cadde il furore, e la sua ira si convertí in vergogna. Laonde egli, gittata via la spada, la qual giá per fedirlo aveva tirata fuori, da caval dismontato, piagnendo corse a’ piè di Natan e disse: — Manifestamente conosco, carissimo padre, la vostra liberalitá, riguardando con quanta cautela venuto siate per darmi il vostro spirito, del quale io, niuna ragione avendo, a voi medesimo disideroso mostra’mi: ma Iddio, piú al mio dover sollecito che io stesso, a quel punto che maggior bisogno è stato, gli occhi m’ha aperto dello ‘ntelletto, li quali misera invidia m’avea serrati; e per ciò, quanto voi piú pronto stato siete a compiacermi, tanto piú mi conosco debito alla penitenza del mio errore: prendete adunque di me quella vendetta che convenevole estimate al mio peccato. — Natan fece levar Mitridanes in piede, e teneramente l’abbracciò e basciò, e gli disse: — Figliuol mio, alla tua impresa, chente che tu la vogli chiamare o malvagia o altramenti, non bisogna di domandar né di dar perdono, per ciò che non per odio la seguivi, ma per potere esser tenuto migliore. Vivi adunque di me sicuro, ed abbi di certo che niuno altro uom vive il quale te quanto io ami, avendo riguardo all’altezza dell’animo tuo, il quale non ad ammassar denari, come i miseri fanno, ma ad ispender gli ammassati s’è dato: né ti vergognare d’avermi voluto uccidere per divenir famoso, né credere che io me ne maravigli. I sommi imperadori ed i grandissimi re non hanno quasi con altra arte che d’uccidere, non uno uomo, come tu volevi fare, ma infiniti, ed ardere paesi ed abbattere le cittá, li loro regni ampliati, e per conseguente la fama loro; per che, se tu, per piú farti famoso, me solo uccider volevi, non maravigliosa cosa né nuova facevi, ma molto usata. — Mitridanes, non iscusando il suo disidèro perverso, ma commendando l’onesta scusa da Natan trovata ad esso, ragionando pervenne a dire, sé oltre modo maravigliarsí come a ciò si fosse Natan potuto disporre, ed a ciò dargli modo e consiglio; al quale Natan disse: — Mitridanes, io non voglio che tu del mio consiglio né della mia disposizione ti maravigli, per ciò che, poi che io nel mio arbitrio fui e disposto a fare quel medesimo che tu hai a fare impreso, niun fu che mai a casa mia capitasse, che io noi contentassi a mio potere di ciò che da lui mi fu domandato. Venistivi tu vago della mia vita; per che, sentendolati domandare, acciò che tu non fossi solo colui che senza la sua domanda di qui si partisse, prestamente diliberai di donarlati, ed acciò che tu l’avessi, quel consiglio ti diedi che io credetti che buon ti fosse ad aver la mia e non perder la tua; e per ciò ancora ti dico e priego che, se ella ti piace, che tu la prenda e te medesimo ne sodisfaccia: io non so come io la mi possa meglio spendere. Io l’ho adoperata giá ottanta anni, e ne’ miei diletti e nelle mie consolazioni usata: e so che, seguendo il corso della natura, come gli altri uomini fanno e generalmente tutte le cose, ella mi può omai piccol tempo esser lasciata; per che io giudico molto meglio esser quella donare, come io ho sempre i miei tesori donati e spesi, che tanto volerla guardare che ella mi sia contro a mia voglia tolta dalla natura. Piccol dono è donare cento anni; quanto adunque è minor donarne sei o otto che io a starci abbia? Prendila adunque, se ella t’aggrada, io te ne priego, per ciò che, mentre vivuto ci sono, niuno ho ancor trovato che disiderata l’abbia, né so quando trovarmene possa veruno, se tu non la prendi che la domandi; e se pure avvenisse che io ne dovessi alcun trovare, conosco che, quanto piú la guarderò, di minor pregio sará: e però, anzi che ella divenga piú vile, prendila, io te ne priego. — Mitridanes, vergognandosi forte, disse: — Tolga Iddio che cosí cara cosa come la vostra vita è, non che io, da voi dividendola, la prenda, ma pur la disideri, come poco avanti faceva; alla quale, non che io diminuissi gli anni suoi, ma io l’aggiugnerei volentier de’ miei, se io potessi. — A cui prestamente Natan disse: — E se tu puoi, vuo’nele tu aggiugnere? E farai a me fare verso di te quello che mai verso alcuno altro non feci, cioè delle tue cose pigliare, che mai dell’altrui non pigliai. — Sì — disse subitamente Mitridanes. — Adunque, — disse Natan — farai tu come io ti dirò. Tu rimarrai, giovane come tu se’, qui nella mia casa ed avrai nome Natan, ed io me n’andrò nella tua e farommi sempre chiamar Mitridanes. — Allora Mitridanes rispose: — Se io sapessi cosí bene operare come voi sapete ed avete saputo, io prenderei senza troppa diliberazione quello che m’offerete: ma per ciò che egli mi pare esser molto certo che le mie opere sarebbon diminuimento della fama di Natan, ed io non intendo di guastare in altrui quello che in me io non so acconciare, nol prenderò. — Questi e molti altri piacevoli ragionamenti stati tra Natan e Mitridanes, come a Natan piacque, insieme verso il palagio se ne tornarono, dove Natan piú giorni sommamente onorò Mitridanes, e lui con ogni ingegno e saper confortò nel suo alto e grande proponimento. E volendosi Mitridanes con la sua compagnia ritornare a casa, avendogli Natan assai ben fatto conoscere che mai di liberalitá nol potrebbe avanzare, il licenziò.

 

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