Jerusalem Delivered
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Ma più s’irrita il Re, quant’ella, ed esso
248 È più costante in incolpar se stesso.
XXXII.
Pargli che vilipeso egli ne resti;
E che’n disprezzo suo sprezzin le pene.
Credasi, dice, ad ambo, e quella e questi
252 Vinca, e la palma sia qual si conviene.
Indi accenna ai sergenti, i quai son presti
A legar il garzon di lor catene.
Sono ambo stretti al palo stesso, e volto
256 È il tergo al tergo, e ‘l volto ascoso al volto.
XXXIII.
Composto è lor d’intorno il rogo omai,
E già le fiamme il mantice v’incíta:
Quando il fanciullo in dolorosi lai
260 Proruppe, e disse a lei ch’è seco unita:
Questo dunque è quel laccio, ond’io sperai
Teco accoppiarmi in compagnia di vita?
Questo è quel foco, ch’io credea che i cori
264 Ne dovesse infiammar d’eguali ardori?
XXXIV.
Altre fiamme, altri nodi Amor promise:
Altri ce n’apparecchia iniqua sorte.
Troppo, ahi ben troppo, ella già noi divise!
268 Ma duramente or ne congiunge in morte.
Piacemi almen, poichè in sì strane guise
Morir pur dei, del rogo esser consorte,
Se del letto non fui: duolmi il tuo fato,
272 Il mio non già, poich’io ti moro a lato.
XXXV.
Ed oh mia sorte avventurosa appieno!
O fortunati miei dolci martirj!
S’impetrerò che giunto seno a seno,
276 L’anima mia nella tua bocca io spiri;
E venendo tu meco a un tempo meno,
In me fuor mandi gli ultimi sospiri.
Così dice piangendo; ella ripiglia
280 Soavemente, e in tai detti il consiglia:
XXXVI.
Amico, altri pensieri, altri lamenti
Per più alta cagione il tempo chiede.
Chè non pensi a tue colpe? e non rammenti
284 Qual Dio prometta ai buoni ampia mercede?
Soffri in suo nome, e fian dolci i tormenti,
E lieto aspira alla superna sede.
Mira il Ciel com’è bello, e mira il Sole,
288 Ch’a sè par che n’inviti, e ne console.
XXXVII.
Quì il volgo de’ Pagani il pianto estolle:
Piange il fedel, ma in voci assai più basse.
Un non so chè d’inusitato e molle
292 Par che nel duro petto al Re trapasse.
Ei presentillo, e si sdegnò; nè volle
Piegarsi, e gli occhj torse, e si ritrasse.
Tu sola il duol comun non accompagni,
296 Sofronia, e pianta da ciascun non piagni.
XXXVIII.
Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero
(Chè tal parea) d’alta sembianza, e degna:
E mostra d’arme, e d’abito straniero,
300 Che di lontan, peregrinando, vegna.
La tigre che sull’elmo ha per cimiero,
Tutti gli occhj a se trae; famosa insegna,
Insegna usata da Clorinda in guerra,
304 Onde la credon lei, nè ‘l creder erra.
Mentre sono in tal rischio, ecco un guerriero
(Chè tal parea) d’alta sembianza e degna;
XXXIX.
Costei gl’ingegni femminili, e gli usi
Tutti sprezzò sin dall’età più acerba:
Ai lavori d’Aracne, all’ago, ai fusi
308 Inchinar non degnò la man superba:
Fuggì gli abiti molli, e i lochi chiusi;
Chè ne’ campi onestate anco si serba:
Armò d’orgoglio il volto, e si compiacque
312 Rigido farlo, e pur rigido piacque.
XL.
Tenera ancor, con pargoletta destra
Strinse, e lentò d’un corridore il morso:
Trattò l’asta e la spada, ed in palestra
316 Indurò i membri, ed allenogli al corso:
Poscia o per via montana, o per silvestra,
L’orme seguì di fier leone e d’orso:
Seguì le guerre, e in esse e fra le selve,
320 Fera agli uomini parve, uomo alle belve.
XLI.
Viene or costei dalle contrade Perse,
Perchè ai Cristiani a suo poter resista;
Bench’altre volte ha di lor membra asperse
324 Le piaggie, e l’onda di lor sangue ha mista.
Or quivi in arrivando a lei s’offerse
L’apparato di morte a prima vista.
Di mirar vaga, e di saper qual fallo
328 Condanna i rei, sospinge oltre il cavallo.
XLII.
Cedon le turbe, e i duo legati insieme
Ella si ferma a riguardar dappresso
Mira che l’una tace, e l’altro geme,
332 E più vigor mostra il men forte sesso.
Pianger lui vede in guisa d’uom, cui preme
Pietà, non doglia, o duol non di se stesso:
E tacer lei con gli occhj ai ciel sì fisa,
336 Ch’anzi ‘l morir par di quaggiù divisa.
XLIII.
Clorinda intenerissi, e si condolse
D’ambeduo loro, e lacrimonne alquanto.
Pur maggior sente il duol per chi non duolse,
340 Più la move il silenzio, e meno il pianto.
Senza troppo indugiare ella si volse
Ad un uom che canuto avea daccanto.
Deh dimmi, chi son questi? ed al martoro
344 Qual gli conduce o sorte, o colpa loro?
XLIV.
Così pregollo: e da colui risposto
Breve, ma pieno alle dimande fue.
Stupissi udendo, e immaginò ben tosto
348 Ch’egualmente innocenti eran que’ due.
Già di vietar lor morte ha in se proposto,
Quanto potranno i preghi o l’armi sue.
Pronta accorre alla fiamma, e fa ritrarla,
352 Che già s’appressa: ed ai ministri parla.
XLV.
Alcun non sia di voi, che ‘n questo duro
Uficio oltra seguire abbia baldanza,
Finch’io non parli al Re: ben v’assicuro,
356 Ch’ei non v’accuserà della tardanza.
Ubbidiro i sergenti, e mossi furo
Da quella grande sua regal sembianza.
Poi verso il Re si mosse, e lui tra via
360 Ella trovò, che ‘ncontra lei venia.
XLVI.
Io son Clorinda, disse; hai forse intesa
Talor nomarmi, e quì, Signor, ne vegno,
Per ritrovarmi teco alla difesa
364 Della fede comune, e del tuo regno.
Son pronta (imponi pure) ad ogni impresa:
L’alte non temo, e l’umili non sdegno.
Voglimi in campo aperto, o pur tra ‘l chiuso
368 Delle mura impiegar, nulla ricuso.
XLVII.
Tacque, e rispose il Re: qual sì disgiunta
Terra è dall’Asia, o dal cammin del Sole,
Vergine gloriosa, ove non giunta
372 Sia la tua fama, e l’onor tuo non vole?
Or che s’è la tua spada a me congiunta,
D’ogni timor m’affidi, e mi console.
Non, s’esercito grande unito insieme
376 Fosse in mio scampo, avrei più certa speme.
XLVIII.
Già già mi par ch’a giunger quì Goffredo
Oltra il dover indugi. Or tu dimandi
Ch’impieghi io te: sol di te degne credo
380 L’imprese malagevoli, e le grandi.
Sovra i nostri guerrieri a te concedo
Lo scettro, e legge sia quel che comandi.
Così parlava: ella rendea cortese
384 Grazie per lodi: indi il parlar riprese.
XLIX.
Nova cosa pa
rer dovrà per certo
Che preceda ai servigj il guiderdone;
Ma tua bontà m’affida: io vuo’ che’n merto
388 Del futuro servir que’ rei mi done.
In don gli chieggio, e pur se ‘l fallo è incerto,
Gli danna inclementissima ragione.
Ma taccio questo, e taccio i segni espressi,
392 Ond’argomento l’innocenza in essi.
L.
E dirò sol, ch’è quì comun sentenza
Che i Cristiani togliessero l’imago;
Ma discord’io da voi; nè però senza
396 Alta ragion del mio parer m’appago.
Fu delle nostre leggi irriverenza
Quell’opra far che persuase il Mago;
Chè non convien ne’ nostri tempj a nui
400 Gl’idoli avere, e men gl’idoli altrui.
LI.
Dunque suso a Macon recar mi giova
Il miracol dell’opra, ed ei lo fece
Per dimostrar che i tempj suoi con nova
404 Religion contaminar non lece.
Faccia Ismeno, incantando, ogni sua prova,
Egli, a cui le malíe son d’arme in vece:
Trattiamo il ferro pur noi cavalieri;
408 Quest’arte è nostra, e ‘n questa sol si speri.
LII.
Tacque, ciò detto: e ‘l Re, bench’a pietade
L’irato cor difficilmente pieghi,
Pur compiacer la volle: e ‘l persuade
412 Ragione, e ‘l move autorità di preghi.
Abbian vita, rispose, e libertade,
E nulla a tanto intercessor si neghi.
Siasi questa o giustizia, ovver perdono,
416 Innocenti gli assolvo, e rei gli dono.
LIII.
Così furon disciolti. Avventuroso
Ben veramente fu d’Olindo il fato;
Ch’atto potè mostrar, che ‘n generoso
420 Petto alfine ha d’amore amor destato.
Va dal rogo alle nozze, ed è già sposo
Fatto di reo, non pur d’amante amato.
Volle con lei morire: ella non schiva,
424 Poichè seco non muor, che seco viva.
LIV.
Ma il sospettoso Re stimò periglio
Tanta virtù congiunta aver vicina;
Onde, com’egli volle, ambo in esiglio
428 Oltra i termini andar di Palestina.
Ei pur seguendo il suo crudel consiglio,
Bandisce altri fedeli, altri confina.
Oh come lascian mesti i pargoletti
432 Figlj, e gli antichi padri, e i dolci letti!
LV.
Dura division! scaccia sol quelli
Di forte corpo, e di svegliato ingegno;
Ma il mansueto sesso, e gli anni imbelli
436 Seco ritien, siccome ostaggj, in pegno.
Molti n’andaro errando; altri rubelli
Fersi, e più che ‘l timor, potè lo sdegno.
Questi unirsi co’ Franchi, e gl’incontraro
440 Appunto il dì che in Emaus entraro.
LVI.
Emaus è Città, cui breve strada
Dalla regal Gerusalem disgiunge:
Ed uom che lento a suo diporto vada,
444 Se parte matutino, a nona giunge.
O quanto intender questo ai Franchi aggrada:
Oh quanto più ‘l desio gli affretta e punge!
Ma perch’oltre il meriggio il sol già scende,
448 Quì fa spiegare il Capitan le tende.
LVII.
L’avean già tese: e poco era remota
L’alma luce del Sol dall’Oceano;
Quando due gran Baroni in veste ignota
452 Venir son visti, e ‘n portamento estrano.
Ogni atto lor pacifico dinota
Che vengon come amici al Capitano.
Del gran Re dell’Egitto eran messaggj,
456 E molti intorno avean scudieri e paggj.
LVIII.
Alete è l’un, che da principio indegno
Tra le brutture della plebe è sorto;
Ma l’innalzaro ai primi onor del regno
460 Parlar facondo e lusinghiero e scorto,
Pieghevoli costumi, e vario ingegno,
Al finger pronto, all’ingannare accorto:
Gran fabbro di calunnie, adorne in modi
464 Novi, che son accuse, e pajon lodi.
LIX.
L’altro è il Circasso Argante, uom che straniero
Sen venne alla regal corte d’Egitto;
Ma de’ satrapi fatto è dell’impero,
468 E in sommi gradi alla milizia ascritto:
Impaziente, inesorabil, fero,
Nell’arme infaticabile ed invitto;
D’ogni Dio sprezzator, e che ripone
472 Nella spada sua legge, e sua ragione.
LX.
Chieser questi udienza, ed al cospetto
Del famoso Goffredo ammessi entraro:
E in umil seggio, e in un vestire schietto
476 Fra’ suoi Duci sedendo il ritrovaro;
Ma verace valor, benchè negletto,
È di se stesso a se fregio assai chiaro.
Picciol segno d’onor gli fece Argante,
480 In guisa pur d’uom grande, e non curante.
LXI.
Ma la destra si pose Alete al seno,
E chinò il capo, e piegò a terra i lumi;
E l’onorò con ogni modo appieno,
484 Che di sua gente portino i costumi.
Cominciò poscia; e di sua bocca uscieno
Più che mel dolci d’eloquenza i fiumi;
E perchè i Franchi han già il sermone appreso
488 Della Soria, fu ciò ch’ei disse inteso.
LXII.
O degno sol, cui d’ubbidire or degni
Questa adunanza di famosi eroi,
Che per l’addietro ancor le palme e i regni
492 Da te conobbe, e dai consiglj tuoi.
Il nome tuo, che non riman tra i segni
D’Alcide, omai risuona anco fra noi:
E la fama d’Egitto in ogni parte
496 Del tuo valor chiare novelle ha sparte.
LXIII.
Nè v’è fra tanti alcun che non le ascolte,
Come egli suol le maraviglie estreme;
Ma dal mio Re con istupore accolte
500 Sono non sol, ma con diletto insieme:
E s’appaga in narrarle anco più volte,
Amando in te ciò ch’altri invidia e teme.
Ama il valore, e volontario elegge
504 Teco unirsi d’amor, se non di legge.
LXIV.
Da sì bella cagion dunque sospinto,
L’amicizia e la pace a te richiede;
E l’ mezzo, onde l’un resti all’altro avvinto,
508 Sia la virtù, s’esser non può la fede.
Ma perchè inteso avea che t’eri accinto
Per iscacciar l’amico suo di sede;
Volle, pria ch’altro male indi seguisse,
512 Ch’a te la mente sua per noi s’aprisse.
LXV.
E la sua mente è tal: che s’appagarti
Vorrai di quanto hai fatto in guerra tuo,
Nè Giudea molestar, nè l’altre parti
516 Che ricopre il favor del regno suo;
Ei promette all’incontro assicurarti
Il non ben fermo stato: e se voi duo
Sarete uniti, or quando i Turchi e i Persi
520 Potranno unqua sperar di riaversi?
LXVI.
Signor, gran cose in picciol tempo hai fatte,
Che lunga età porre in obblio non puote;
Eserciti, città, vinti, e disfatte,
524 Superati disagj, e strade ignote;
Sicch’al grido, o smarrite o stupefatte
Son le provincie intorno, e le remote;
E se ben acquistar puoi novi imperj,
528 Acquistar nova gloria indarno speri.
&nbs
p; LXVII.
Giunta è tua gloria al sommo, e per l’innanzi
Fuggir le dubbie guerre a te conviene;
Ch’ove tu vinca, sol di stato avanzi,
532 Nè tua gloria maggior quinci diviene:
Ma l’imperio acquistato e preso dianzi,
E l’onor perdi, se ‘l contrario avviene.
Ben gioco è di fortuna audace e stolto,
536 Por contra il poco e incerto, il certo e ‘l molto.
LXVIII.
Ma il consiglio di tal, cui forse pesa
Ch’altri gli acquisti a lungo andar conserve,
E l’aver sempre vinto in ogni impresa,
540 E quella voglia natural che ferve,
E sempre è più ne’ cor più grandi accesa,
D’aver le genti tributarie e serve;
Faran, per avventura, a te la pace
544 Fuggir, più che la guerra altri non face.
LXIX.
T’esorteranno a seguitar la strada
Che t’è dal fato largamente aperta:
A non depor questa famosa spada,
548 Al cui valore ogni vittoria è certa,
Finchè la legge di Macon non cada:
Finchè l’Asia per te non sia deserta.
Dolci cose ad udire, e dolci inganni,
552 Ond’escon poi sovente estremi danni.
LXX.
Ma s’animosità gli occhj non benda,
Nè il lume oscura in te della ragione,
Scorgerai ch’ove tu la guerra prenda,
556 Hai di temer, non di sperar cagione;
Chè fortuna quaggiù varia a vicenda,
Mandandoci venture or triste, or buone:
Ed ai voli troppo alti e repentini
560 Sogliono i precipizj esser vicini.
LXXI.
Dimmi, s’a danni tuoi l’Egitto move,
D’oro e d’arme potente, e di consiglio:
E s’avvien che la guerra anco rinove
564 Il Perso e ‘l Turco, e di Cassano il figlio;
Quai forzi opporre a sì gran furia, o dove
Ritrovar potrai scampo al tuo periglio?
Ti affida forse il Re malvagio Greco,
568 Il qual dai sacri patti unito è teco?
LXXII.
La fede Greca a chi non è palese?
Tu da un sol tradimento ogn’altro impara:
Anzi da mille; perchè mille ha tese
572 Insidie a voi la gente infida, avara.
Dunque chi dianzi il passo a voi contese,
Per voi la vita esporre or si prepara?
Chi le vie, che comuni a tutti sono,
576 Negò, del proprio sangue or farà dono?
LXXIII.
Ma forse hai tu riposta ogni tua speme
In queste squadre, ond’ora cinto siedi.
Quei che sparsi vincesti, uniti insieme
580 Di vincer anco agevolmente credi:
Sebben son le tue schiere or molto sceme,
Tra le guerre e i disagj, e tu tel vedi:
Sebben novo nemico a te s’accresce,
584 E co’ Persi e co’ Turchi Egizj mesce.