LXXIV.
Or, quando pur estimi esser fatale,
Che vincer non ti possa il ferro mai;
Siati concesso: e siati a punto tale
588 Il decreto del Ciel, qual tu tel fai.
Vinceratti la fame: a questo male
Che rifugio, per Dio, che schermo avrai?
Vibra contra costei la lancia, e stringi
592 La spada, e la vittoria anco ti fingi.
LXXV.
Ogni campo d’intorno arso e distrutto
Ha la provida man degli abitanti;
E in chiuse mura, e in alte torri il frutto
596 Riposto, al tuo venir più giorni avanti.
Tu ch’ardito sin quì ti sei condutto,
Onde speri nutrir cavalli e fanti?
Dirai: l’armata in mar cura ne prende.
600 Da’ venti dunque il viver tuo dipende?
LXXVI.
Comanda forse tua fortuna ai venti,
E gli avvince a sua voglia, e gli dislega?
Il mar ch’ai preghi è sordo, ed ai lamenti,
604 Te sol udendo, al tuo voler si piega?
O non potranno pur le nostre genti,
E le Perse e le Turche, unite in lega,
Così potente armata in un raccorre,
608 Ch’a questi legni tuoi si possa opporre?
LXXVII.
Doppia vittoria a te, Signor, bisogna,
S’hai dell’impresa a riportar l’onore.
Una perdita sola, alta vergogna
612 Può cagionarti, e danno anco maggiore;
Ch’ove la nostra armata in rotta pogna
La tua; quì poi di fame il campo more:
E se tu sei perdente, indarno poi
616 Saran vittoriosi i legni tuoi.
LXXVIII.
Ora se in tale stato anco rifiuti
Col gran Re dell’Egitto e pace e tregua
(Diasi licenza al ver) l’altre virtuti,
620 Questo consiglio tuo non bene adegua.
Ma voglia il Ciel che ‘l tuo pensier si muti,
S’a guerra è volto, e che ‘l contrario segua;
Sicchè l’Asia respiri omai dai lutti,
624 E goda tu della vittoria i frutti.
LXXIX.
Nè voi, che del periglio e degli affanni,
E della gloria a lui sete consorti,
Il favor di fortuna or tanto inganni,
628 Che nove guerre a provocar v’esorti.
Ma, qual nocchier che dai marini inganni
Ridutti ha i legni ai desiati porti,
Raccor dovreste omai le sparse vele,
632 Nè fidarvi di nuovo al mar crudele.
LXXX.
Quì tacque Alete; e ‘l suo parlar seguiro
Con basso mormorar que’ forti eroi:
E ben, negli atti disdegnosi, apriro
636 Quanto ciascun quella proposta annoi.
Il capitan rivolse gli occhj in giro
Tre volte e quattro, e mirò in fronte i suoi;
E poi nel volto di colui gli affisse
640 Ch’attendea la risposta, e così disse:
LXXXI.
Messaggier, dolcemente a noi sponesti
Ora cortese, or minaccioso invito.
Se ‘l tuo Re m’ama, e loda i nostri gesti,
644 È sua mercede, e m’è l’amor gradito.
A quella parte poi, dove protesti
La guerra a noi del Paganesmo unito;
Risponderò, come da me si suole,
648 Liberi sensi in semplici parole.
LXXXII.
Sappi che tanto abbiam sin or sofferto
In mare, in terra, all’aria chiara e scura,
Solo acciocchè ne fosse il calle aperto
652 A quelle sacre e venerabil mura;
Per acquistar appo Dio grazia e merto,
Togliendo lor di servitù sì dura:
Nè mai grave ne fia, per fin sì degno,
656 Esporre onor mondano, e vita e regno.
LXXXIII.
Chè non ambiziosi avari affetti
Ne spronaro all’impresa, e ne fur guida:
Sgombri il Padre del Ciel dai nostri petti
660 Peste sì rea, s’in alcun pur s’annida;
Nè soffra che l’asperga, o che l’infetti
Di venen dolce, che piacendo ancida;
Ma la sua man, che i duri cor penétra
664 Soavemente, e gli ammolisce e spetra;
LXXXIV.
Questa ha noi mossi, e questa ha noi condutti,
Tratti d’ogni periglio e d’ogni impaccio:
Questa fa piani i monti, e i fiumi asciutti,
668 L’ardor toglie alla state, al verno il ghiaccio:
Placa del mare i tempestosi flutti:
Stringe e rallenta questa a’ venti il laccio:
Quindi son l’alte mura aperte ed arse,
672 Quindi l’armate schiere uccise e sparse.
LXXXV.
Quindi l’ardir, quindi la speme nasce,
Non dalle frali nostre forze, e stanche,
Non dall’armata, e non da quante pasce
676 Genti la Grecia, e non dall’armi Franche.
Pur ch’ella mai non ci abbandoni e lasce,
Poco dobbiam curar ch’altri ci manche.
Chi sa come difende, e come fere,
680 Soccorso ai suoi periglj altro non chere.
LXXXVI.
Ma quando di sua aita ella ne privi
Per gli error nostri, o per giudícj occulti;
Chi fia di noi ch’esser sepolto schivi
684 Ove i membri di Dio fur già sepulti?
Noi morirem, nè invidia avremo ai vivi:
Noi morirem, ma non morremo inulti;
Nè l’Asia riderà di nostra sorte:
688 Nè pianta fia da noi la nostra morte.
LXXXVII.
Non creder già che noi fuggiam la pace,
Come guerra mortal si fugge e pave;
Chè l’amicizia del tuo Re ne piace,
692 Nè l’unirci con lui ne sarà grave.
Ma s’al suo impero la Giudea soggiace,
Tu ‘l sai, perchè tal cura ei dunque n’ave?
De’ regni altrui l’acquisto ei non ci vieti,
696 E regga in pace i suoi tranquilli e lieti.
LXXXVIII.
Così rispose, e di pungente rabbia
La risposta ad Argante il cor trafisse:
Nè ‘l celò già, ma con enfiate labbia
700 Si trasse avanti al Capitano, e disse:
Chi la pace non vuol, la guerra s’abbia;
Chè penuria giammai non fu di risse:
E ben la pace ricusar tu mostri,
704 Se non t’acqueti ai primi detti nostri.
LXXXIX.
Indi il suo manto per lo lembo prese,
Curvollo, e fenne un seno, e ‘l seno sporto,
Così pur anco a ragionar riprese,
708 Via più che prima dispettoso e torto:
O sprezzator delle più dubbie imprese,
E guerra, e pace in questo sen t’apporto:
Tua sia l’elezione; or ti consiglia
712 Senz’altro indugio, e qual più vuoi, ti piglia.
XC.
L’atto fiero, e ‘l parlar tutti commosse
A chiamar guerra in un concorde grido;
Non attendendo che risposto fosse
716 Dal magnanimo lor Duce Goffrido.
Spiegò quel crudo il seno, e ‘l manto scosse,
Ed a guerra mortal, disse, vi sfido.
E ‘l disse in atto sì feroce ed empio,
720 Che parve aprir di Giano il chiuso tempio.
XCI.
Parve ch’aprendo il seno, indi traesse
Il furor pazzo, e la discordia fera;
E che ne gli occhj orribili gli ardesse
724 La gran face d’Aletto e di Megera.
Quel grande già, che incontra il cielo eresse
L’alta mole d’error, forse tal era;
E in cotal atto il rimirò Babelle
728 Alzar la fronte, e minacciar le stelle.
XCII.
Soggiunse allor Goffredo: Or riportate
Al vostro Re che venga e che s’affretti;
Chè la guerra accettiam che minacciate:
732 E s’ei non vien, fra ‘l Nilo suo n’aspetti.
Accommiatò lor poscia in dolci e grate
Maniere, e gli onorò di doni eletti:
Ricchissimo ad Alete un elmo diede,
736 Ch’a Nicea conquistò fra l’altre prede.
XCIII.
Ebbe Argante una spada, e ‘l fabro egregio
L’else e ‘l pomo le fè gemmato, e d’oro,
Con magisterio tal che perde il pregio
740 Della ricca materia appo il lavoro.
Poi che la tempra, e la ricchezza e ‘l fregio,
Sottilmente da lui mirati foro,
Disse Argante al Buglion: vedrai ben tosto
744 Come da me il tuo dono in uso è posto.
XCIV.
Indi tolto congedo, e da lui ditto
Al suo compagno, or ce n’andremo omai,
Io ver Gerusalem, tu verso Egitto,
748 Tu col sol nuovo, io co’ notturni rai,
Ch’uopo di mia presenza, o di mio scritto
Essere non può colà dove tu vai;
Reca tu la risposta, io dilungarmi
752 Quinci non vuò, dove si trattan l’armi.
XCV.
Così di messaggier fatto è nemico;
Sia fretta intempestiva o sia matura,
La ragion delle genti, e l’uso antico
756 S’offenda o no, ne ‘l pensa egli, ne ‘l cura:
Senza risposta aver va per l’amico
Silenzio delle stelle all’alte mura,
D’indugio impaziente; ed a chi resta
760 Già non men la dimora anco è molesta.
XCVI.
Era la notte allor ch’alto riposo
Han l’onde e i venti, e parea muto il mondo,
Gli animai lassi, e quei che ‘l mare ondoso,
764 O de’ liquidi laghi alberga il fondo,
E chi si giace in tana, o in mandra ascoso,
E i pinti augelli nell’oblio giocondo
Sotto il silenzio de’ secreti orrori
768 Sopían gli affanni, e raddolciano i cori.
XCVII.
Ma ne ‘l campo fedel, ne ‘l Franco Duca
Si discioglie dal sonno, o almen s’accheta;
Tanta in lor cupidigia è che riluca
772 Omai del ciel l’alba aspettata e lieta,
Perchè il cammin lor mostri, e gli conduca
Alla città che al gran passaggio è meta,
Mirando ad or ad or se raggio alcuno
776 Spunti, o rischiari della notte il bruno.
Canto terzo
ARGOMENTO.
Giunge a Gerusalemme il campo: e quivi
In fera guisa è da Clorinda accolto.
Sveglia in Erminia amor Tancredi: e vivi
Fa i proprj incendj al discoprir d’un volto.
Restan gli Avventurier di duce privi:
Ch’un sol colpo d’Argante a lor l’ha tolto.
Pietose essequie fangli. Il pio Buglione,
Ch’antica selva si recida, impone.
CANTO TERZO.
Già l’aura messaggiera erasi desta
A nunziar che se ne vien l’aurora:
Ella intanto s’adorna, e l’aurea testa
4 Di rose, colte in Paradiso, infiora;
Quando il campo, ch’ all’arme omai s’appresta,
In voce mormorava alta e sonora,
E prevenia le trombe: e queste poi
8 Dier più lieti e canori i segni suoi.
II.
Il saggio Capitan con dolce morso
I desiderj lor guida e seconda:
Chè più facil saria svolger il corso
12 Presso Cariddi alla volubil’onda,
O tardar Borea, allor che scuote il dorso
Dell’Apennino, e i legni in mare affonda.
Gli ordina, gl’incammina, e ‘n suon gli regge
16 Rapido sì, ma rapido con legge.
III.
Ali ha ciascuno al core, ed ali al piede:
Nè del suo ratto andar però s’accorge.
Ma quando il sol gli aridi campi fiede
20 Con raggj assai ferventi, e in alto sorge;
Ecco apparir Gerusalem si vede:
Ecco additar Gerusalem si scorge:
Ecco da mille voci unitamente
24 Gerusalemme salutar si sente.
IV.
Così di naviganti audace stuolo,
Che mova a ricercar estranio lido,
E in mar dubbioso, e sotto ignoto polo
28 Provi l’onde fallaci, e ‘l vento infido;
S’alfin discopre il desiato suolo,
Il saluta da lunge in lieto grido:
E l’uno all’altro il mostra, e intanto oblia
32 La noja, e ‘l mal della passata via.
V.
Al gran piacer che quella prima vista
Dolcemente spirò nell’altrui petto,
Alta contrizion successe, mista
36 Di timoroso e riverente affetto.
Osano appena d’innalzar la vista
Ver la Città, di Cristo albergo eletto;
Dove morì, dove sepolto fue,
40 Dove poi rivestì le membra sue.
VI.
Sommessi accenti, e tacite parole,
Rotti singulti, e flebili sospiri
Della gente, che in un s’allegra, e duole,
44 Fan che per l’aria un mormorio s’aggiri;
Qual nelle folte selve udir si suole,
S’avvien che tra le frondi il vento spiri:
O quale infra gli scoglj, o presso ai lidi
48 Sibila il mar, percosso, in rauchi stridi.
VII.
Nudo ciascuno il piè calca il sentiero;
Chè l’esempio de’ Duci ogni altro move.
Serico fregio o d’or, piuma o cimiero
52 Superbo dal suo capo ogn’un rimove:
Ed insieme del cor l’abito altero
Depone, e calde e píe lagrime piove.
Pur, quasi al pianto abbia la via rinchiusa,
56 Così parlando ogn’un se stesso accusa:
VIII.
Dunque ove tu, Signor, di mille rivi
Sanguinosi il terren lasciasti asperso,
D’amaro pianto almen duo fonti vivi
60 In sì acerba memoria oggi non verso?
Agghiacciato mio cor, chè non derivi
Per gli occhj, e stilli in lagrime converso?
Duro mio cor, chè non ti spetri e frangi?
64 Pianger ben merti ogn’or, s’ora non piangi.
IX.
Dalla Cittade intanto un ch’alla guarda
Sta d’alta torre, e scopre i monti e i campi,
Colà giuso la polve alzarsi guarda,
68 Sicchè par che gran nube in aria stampi:
Par che baleni quella nube ed arda,
Come di fiamme gravida e di lampi:
Poi lo splendor di lucidi metalli
72 Scerne, e distingue gli uomini, e i cavalli.
X.
Allor gridava: oh qual per l’aria stesa
Polvere i’ veggio! o come par che splenda!
Su, suso, o cittadini, alla difesa
76 S’armi ciascun veloce, e i muri ascenda:
Già presente è il nemico. E poi ripresa
La voce: ogn’un s’affretti, e l’arme prenda:
Ecco il nemico, è quì: mira la polve,
80 Che sotto orrida nebbia il cielo involve.
XI.
I semplici fanciulli, e i vecchj inermi,
E ‘l volgo delle donne sbigottite,
Che non sanno ferir, nè fare schermi,
84 Traean supplici e mesti alle Meschite.
Gli altri di
membra, e d’animo più fermi
Già frettolosi l’arme avean rapite.
Accorre altri alle porte, altri alle mura:
88 Il Re va intorno, e ‘l tutto vede e cura.
XII.
Gli ordini diede, e poscia ei si ritrasse
Ove sorge una torre infra due porte,
Sicch’è presso al bisogno; e son più basse
92 Quindi le piaggie, e le montagne scorte.
Volle che quivi seco Erminia andasse:
Erminia bella, ch’ei raccolse in corte,
Poi ch’a lei fu dalle Cristiane squadre
96 Presa Antiochia, e morto il Re suo padre.
XIII.
Clorinda intanto incontra ai Franchi è gita:
Molti van seco, ed ella a tutti è innante.
Ma in altra parte, ond’è secreta uscita,
100 Sta preparato alle riscosse Argante.
La generosa i suoi seguaci incíta
Co’ detti, e con l’intrepido sembiante:
Ben con alto principio a noi conviene,
104 Dicea, fondar dell’Asia oggi la spene.
XIV.
Mentre ragiona a’ suoi, non lunge scorse
Un Franco stuolo addur rustiche prede;
Che (come è l’uso) a depredar precorse;
108 Or con gregge, ed armenti al campo riede.
Ella ver lor, e verso lei sen corse
Il Duce lor, ch’a se venir la vede.
Gardo il Duce è nomato, uom di gran possa,
112 Ma non già tal ch’a lei resister possa.
XV.
Gardo a quel fero scontro è spinto a terra
In su gli occhj de’ Franchi e de’ Pagani,
Ch’allor tutti gridar, di quella guerra
116 Lieti augurj prendendo, i quai fur vani.
Spronando addosso agli altri ella si serra,
E val la destra sua per cento mani.
Seguirla i suoi guerrier per quella strada
120 Che spianar gli urti, e che s’aprì la spada.
XVI.
Tosto la preda al predator ritoglie:
Cede lo stuol de’ Franchi a poco a poco;
Tanto che’n cima a un colle ei si raccoglie,
124 Ove ajutate son l’arme dal loco.
Allor, siccome turbine si scioglie
E cade dalle nubi aereo foco,
Il buon Tancredi, a cui Goffredo accenna,
128 Sua squadra mosse, ed arrestò l’antenna.
XVII.
Porta sì salda la gran lancia, e in guisa
Vien feroce e leggiadro il giovinetto;
Che veggendolo d’alto il Re, s’avvisa
132 Che sia guerriero infra gli scelti eletto.
Onde dice a colei ch’è seco assisa,
E che già sente palpitarsi il petto:
Ben conoscer dei tu per sì lungo uso
136 Ogni Cristian, benchè nell’armi chiuso.
XVIII.
Chi è dunque costui che così bene
S’adatta in giostra, e fero in vista è tanto?
A quella, in vece di risposta, viene
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