140 Su le labra un sospir, su gli occhj il pianto.
Pur gli spirti e le lagrime ritiene,
Ma non così che lor non mostri alquanto:
Chè gli occhj pregni un bel purpureo giro
144 Tinse, e roco spuntò mezzo il sospiro.
XIX.
Poi gli dice infingevole, e nasconde
Sotto il manto dell’odio altro desio:
Oimè! bene il conosco, ed ho ben donde
148 Deggia fra mille riconoscerl’io:
Chè spesso il vidi i campi e le profonde
Fosse del sangue empir del popol mio.
Ahi quanto è crudo nel ferire! a piaga
152 Ch’ei faccia, erba non giova, od arte maga.
XX.
Egli è il Prence Tancredi: oh prigioniero
Mio fosse un giorno! e nol vorrei già morto:
Vivo il vorrei, perchè’n me desse al fero
156 Desio dolce vendetta alcun conforto.
Così parlava, e de’ suoi detti il vero,
Da chi l’udiva, in altro senso è torto;
E fuor n’uscì con le sue voci estreme
160 Misto un sospir ch’indarno ella già preme.
XXI.
Clorinda intanto ad incontrar l’assalto
Va di Tancredi, e pon la lancia in resta.
Ferirsi alle visiere, e i tronchi in alto
164 Volaro, e parte nuda ella ne resta:
Chè, rotti i laccj all’elmo suo, d’un salto
(Mirabil colpo!) ei le balzò di testa:
E le chiome dorate al vento sparse,
168 Giovane donna in mezzo ‘l campo apparse.
XXII.
Lampeggiar gli occhj, e folgorar gli sguardi
Dolci nell’ira, or che sarian nel riso?
Tancredi, a chè pur pensi? a chè pur guardi?
172 Non riconosci tu l’amato viso?
Quest’è pur quel bel volto, onde tutt’ardi:
Tuo core il dica, ov’è il suo esempio inciso:
Questa è colei che rinfrescar la fronte
176 Vedesti già nel solitario fonte.
Tancredi a che pur pensi, a che pur guardi?
Non riconosci tu l’amato viso?
XXIII.
Ei ch’al cimiero, ed al dipinto scudo
Non badò prima, or, lei veggendo, impetra.
Ella, quanto può meglio, il capo ignudo
180 Si ricopre, e l’assale; ed ei s’arretra.
Va contra gli altri, e ruota il ferro crudo;
Ma però da lei pace non impetra;
Che minacciosa il segue, e volgi, grida:
184 E di due morti in un punto lo sfida.
XXIV.
Percosso il cavalier non ripercote;
Nè sì dal ferro a riguardarsi attende,
Come a guardar i begli occhj e le gote,
188 Ond’Amor l’arco inevitabil tende.
Fra se dicea: van le percosse vote
Talor che la sua destra armata scende:
Ma colpo mai del bello ignudo volto
192 Non cade in fallo, e sempre il cor m’è colto.
XXV.
Risolve alfin, benchè pietà non spere,
Di non morir, tacendo, occulto amante.
Vuol ch’ella sappia ch’un prigion suo fere
196 Già inerme, e supplichevole e tremante.
Onde le dice: o tu che mostri avere
Per nemico me sol fra turbe tante,
Usciam di questa mischia; ed in disparte
200 Io potrò teco, e tu meco provarte.
XXVI.
Così me’ si vedrà s’al tuo s’agguaglia
Il mio valore; ella accettò l’invito:
E come esser senz’elmo a lei non caglia,
204 Gía baldanzosa, ed ei seguia smarrito.
Recata s’era in atto di battaglia
Già la Guerriera, e già l’avea ferito;
Quand’egli, or ferma, disse; e siano fatti
208 Anzi la pugna della pugna i patti.
XXVII.
Fermossi, e lui di pauroso audace
Rendè in quel punto il disperato amore.
I patti sian, dicea, poichè tu pace
212 Meco non vuoi, che tu mi tragga il core.
Il mio cor, non più mio, s’a te dispiace
Ch’egli più viva, volontario more.
È tuo gran tempo: e tempo è ben che trarlo
216 Omai tu debba; e non debb’io vietarlo:
XXVIII.
Ecco, le braccia inchino, e t’appresento
Senza difesa il petto: or che nol fiedi?
Vuoi ch’agevoli l’opra? io son contento
220 Trarmi l’usbergo or or, se nudo il chiedi.
Distinguea forse in più duro lamento
I suoi dolori il misero Tancredi;
Ma calca l’impedisce intempestiva
224 De’ Pagani e de’ suoi che soprarriva.
XXIX.
Cedean cacciati dallo stuol Cristiano
I Palestini, o sia temenza od arte.
228 Un de’ persecutori, uomo inumano,
Videle sventolar le chiome sparte,
E da tergo in passando, alzò la mano
Per ferir lei ne la sua ignuda parte;
232 Ma Tancredi gridò, che se n’accorse,
E con la spada a quel gran colpo accorse.
XXX.
Pur non gì tutto invano, e ne’ confini
Del bianco collo il bel capo ferille.
Fu levissima piaga, e i biondi crini
236 Rosseggiaron così d’alquante stille,
Come rosseggia l’or che di rubini
Per man d’illustre artefice sfaville.
Ma il Prence infuriato, allor si spinse
240 Addosso a quel villano, e ‘l ferro strinse.
XXXI.
Quel si dilegua, e questi acceso d’ira
Il segue; e van come per l’aria strale.
Ella riman sospesa, ed ambo mira
244 Lontani molto, nè seguir le cale:
Ma co’ suoi fuggitivi si ritira;
Talor mostra la fronte, e i Franchi assale:
Or si volge, or rivolge, or fugge, or fuga;
248 Nè si può dir la sua caccia, nè fuga.
XXXII.
Tal gran tauro talor nell’ampio agone,
Se volge il corno ai cani, onde è seguito,
S’arretran essi; e s’a fuggir si pone,
252 Ciascun ritorna a seguitarlo ardito.
Clorinda, nel fuggir, da tergo oppone
Alto lo scudo, e ‘l capo è custodito.
Così coperti van ne’ giuochi Mori
256 Dalle palle lanciate i fuggitori.
XXXIII.
Già questi seguitando, e quei fuggendo
S’erano all’alte mura avvicinati;
Quando alzaro i Pagani un grido orrendo,
260 E indietro si fur subito voltati:
E fecero un gran giro, e poi volgendo
Ritornaro a ferir le spalle e i lati:
E intanto Argante giù movea dal monte
264 La schiera sua, per assalirgli a fronte.
XXXIV.
Il feroce Circasso uscì di stuolo;
Ch’esser voll’egli il feritor primiero:
E quegli, in cui ferì, fu steso al suolo,
268 E sossopra in un fascio il suo destriero:
E pria che l’asta in tronchi andasse a volo,
Molti, cadendo, compagnia gli fero;
Poi stringe il ferro, e quando giunge appieno,
272 Sempre uccide, od abbatte, o piaga almeno.
XXXV.
Clorinda emula sua tolse di vita
Il forte Ardelio, uom già d’età matura;
Ma di vecchiezza indomita, e munita
276 Di due gran figlj, e pur non fu sicura;
Ch’Alcandro il maggior figlio aspra ferita
Rimosso avea dalla paterna cura:
E Poliferno, che restogli appresso,
280 A gran pena salvar potè se stesso.
XXXVI.
Ma Tancredi, dappoi ch’egli non giunge
Quel villan, che destriero ha più corrente,
Si mira addietro, e vede ben che lunge
284 Troppo è trascorsa la sua audace gente:
Vedela intorniata, e ‘l corsier punge,
Volgendo il freno, e là s’invia repente:
Ned egli solo i suoi guerrier soccorre;
288 Ma quello stuol ch’a tutti i rischj accorre.
XXXVII.
Quel di Dudon avventurier drappello,
Fior degli eroi, nerbo e vigor del campo.
Rinaldo il più magnanimo e ‘l più bello,
292 Tutti precorre; ed è men ratto il lampo.
Ben tosto il portamento e ‘l bianco augello
Conosce Erminia nel celeste campo;
E dice al Re che ‘n lui fissa lo sguardo:
296 Eccoti il domator d’ogni gagliardo.
XXXVIII.
Questi ha nel pregio della spada eguali
Pochi, o nessuno, ed è fanciullo ancora.
Se fosser tra’ nemici altri sei tali,
300 Già Soria tutta vinta e serva fora:
E già domi sarebbono i più australi
Regni, e i regni più prossimi all’aurora:
E forse il Nilo occulterebbe invano,
304 Dal giogo, il capo incognito e lontano.
XXXIX.
Rinaldo ha nome; e la sua destra irata
Teman più d’ogni machina le mura.
Or volgi gli occhj ov’io ti mostro, e guata
308 Colui che d’oro e verde ha l’armatura:
Quegli è Dudone, ed è da lui guidata
Questa schiera, che schiera è di ventura:
È guerrier d’alto sangue, e molto esperto,
312 Che d’età vince, e non cede di merto.
XL.
Mira quel grande ch’è coperto a bruno,
È Gernando il fratel del Re Norvegio:
Non ha la terra uom più superbo alcuno;
316 Questo sol de’ suoi fatti oscura il pregio.
E son que’ due che van sì giunti in uno,
Ed han bianco il vestir, bianco ogni fregio,
Gildippe ed Odoardo, amanti e sposi,
320 In valor d’arme, e in lealtà famosi.
XLI.
Così parlava; e già vedean là sotto
Come la strage più e più s’ingrosse,
Chè Tancredi e Rinaldo il cerchio han rotto,
324 Benchè d’uomini denso e d’armi fosse.
E poi lo stuol ch’è da Dudon condotto
Vi giunse, ed aspramente anco il percosse.
Argante, Argante stesso, ad un grand’urto
328 Di Rinaldo, abbattuto, appena è surto.
XLII.
Nè sorgea forse; ma in quel punto stesso
Al figliuol di Bertoldo il destrier cade:
E restandogli sotto il piede oppresso,
332 Convien ch’indi a ritrarlo alquanto bade.
Lo stuol Pagan frattanto in rotta messo,
Si ripara fuggendo alla Cittade.
Soli Argante e Clorinda, argine e sponda
336 Sono al furor che lor da tergo inonda.
XLIII.
Ultimi vanno, e l’impeto seguente
In lor s’arresta alquanto, e si reprime;
Sicchè potean men perigliosamente
340 Quelle genti fuggir, che fuggian prime.
Segue Dudon nella vittoria ardente
I fuggitivi, e ‘l fer Tigrane opprime
Con l’urto del cavallo; e con la spada
344 Fa che scemo del capo a terra cada.
XLIV.
Nè giova ad Algazzarre il fino usbergo,
Ned a Corban robusto il forte elmetto;
Chè in guisa lor ferì la nuca e ‘l tergo,
348 Che ne passò la piaga al viso, al petto:
E per sua mano ancor del dolce albergo
L’alma uscì d’Amuratte, e di Meemetto,
E del crudo Almansor; nè ‘l gran Circasso
352 Può sicuro da lui mover il passo.
XLV.
Freme in se stesso Argante, e pur talvolta
Si ferma e volge, e poi cede pur anco.
Alfin così improvviso a lui si volta,
356 E di tanto rovescio il coglie al fianco,
Che dentro il ferro vi s’immerge, e tolta
È dal colpo la vita al Duce Franco.
Cade, e gli occhj ch’appena aprir si ponno,
360 Dura quiete preme, e ferreo sonno.
XLVI.
Gli aprì tre volte, e i dolci rai del Cielo
Cercò fruire, e sovra un braccio alzarsi:
E tre volte ricadde, e fosco velo
364 Gli occhj adombrò, che stanchi alfin serrarsi.
Si dissolvono i membri, e ‘l mortal gelo
Irrigiditi, e di sudor gli ha sparsi.
Sovra il corpo già morto il fero Argante
368 Punto non bada, e via trascorre avante.
XLVII.
Con tutto ciò, sebben d’andar non cessa,
Si volge ai Franchi, e grida: o cavalieri,
Questa sanguigna spada è quella stessa,
372 Che ‘l Signor vostro mi donò pur jeri:
Ditegli come in uso oggi l’ho messa;
Ch’udirà la novella ei volentieri:
E caro esser gli dee che ‘l suo bel dono
376 Sia conosciuto al paragon sì buono.
XLVIII.
Ditegli che vederne omai s’aspetti
Nelle viscere sue più certa prova:
E quando d’assalirne ei non s’affretti,
380 Verrò, non aspettato, ov’ei si trova.
Irritati i Cristiani ai feri detti,
Tutti ver lui già si moveano a prova;
Ma con gli altri esso è già corso in sicuro
384 Sotto la guardia dell’amico muro.
XLIX.
I difensori a grandinar le pietre
Dall’alte mura in guisa incominciaro;
E quasi innumerabili faretre,
388 Tante saette agli archi ministraro;
Che forza è pur, che ‘l Franco stuol s’arretre:
E i Saracin nella cittade entraro.
Ma già Rinaldo, avendo il piè sottratto
392 Al giacente destrier, s’era quì tratto.
L.
Venia per far nel barbaro omicida
Dell’estinto Dudone aspra vendetta;
E fra’ suoi giunto, alteramente grida:
396 Or qual indugio è questo? e chè s’aspetta?
Poich’è morto il Signor che ne fu guida,
Chè non corriamo a vendicarlo in fretta?
Dunque in sì grave occasion di sdegno
400 Esser può fragil muro a noi ritegno?
LI.
Non, se di ferro doppio, o d’adamante
Questa muraglia impenetrabil fosse,
Colà dentro sicuro il fero Argante
404 S’appiatteria dalle vostr’alte posse.
Andiam pure all’assalto: ed egli innante
A tutti gli altri in questo dir si mosse;
Chè nulla teme la sicura testa
408 O di sassi o di strai, nembo o tempesta.
LII.
Ei crollando il gran capo, alza la faccia
Piena di sì terribile ardimento,
Che sin dentro alle mura i cori agghiaccia
412 Ai difensor d’insolito spavento.
Mentre egli altri rincora, altri minaccia,
Sopravvien chi reprime il suo talento:
Chè Goffredo lor manda il buon Sigiero,
416 De’ gravi imperj suoi nunzio severo.
LIII.
Questi sgrida, in suo nome, il troppo ardire,
E incontinente il ritornar impone.
Tornatene, dicea, ch’alle vostr’ire
420 Non è il loco opportuno, o la stagione.
Goffredo il vi c
omanda. A questo dire
Rinaldo sè frenò, ch’altrui fu sprone:
Benchè dentro ne frema, e in più d’un segno
424 Dimostri fuore il mal celato sdegno.
LIV.
Tornar le schiere indietro, e dai nemici
Non fu il ritorno lor punto turbato.
Nè in parte alcuna de gli estremi uficj
428 Il corpo di Dudon restò fraudato.
Su le pietose braccia i fidi amici
Portarlo, caro peso ed onorato.
Mira intanto il Buglion d’eccelsa parte
432 Della forte Cittade il sito e l’arte.
LV.
Gerusalem sovra due colli è posta
D’impari altezza, e volti fronte a fronte:
Va per lo mezzo suo valle interposta
436 Che lei distingue, e l’un dall’altro monte.
Fuor da tre lati ha malagevol costa:
Per l’altro vassi, e non par che si monte.
Ma d’altissime mura è più difesa
440 La parte piana, e incontra Borea stesa.
LVI.
La Città dentro ha lochi, in cui si serba
L’acqua che piove, e laghi e fonti vivi:
Ma fuor la terra intorno è nuda d’erba,
444 E di fontane sterile, e di rivi.
Nè si vede fiorir lieta e superba
D’alberi, e fare schermo ai raggj estivi;
Se non se in quanto oltra sei miglia un bosco
448 Sorge d’ombre nocenti orrido e fosco.
LVII.
Ha da quel lato donde il giorno appare,
Del felice Giordan le nobil’onde.
E dalla parte occidental del mare
452 Mediterraneo le arenose sponde.
Verso Borea è Betel, ch’alzò l’altare
Al bue dell’oro, e la Samaria; e donde
Austro portar le suol piovoso nembo,
456 Betelem che ‘l gran parto ascose in grembo.
LVIII.
Or mentre guarda e l’alte mura e ‘l sito
Della Città, Goffredo, e del paese;
E pensa ove s’accampi, onde assalito
460 Sia il muro ostil più facile all’offese;
Erminia il vide, e dimostrollo a dito
Al Re pagano, e così a dir riprese:
Goffredo è quel che nel purpureo manto
464 Ha di regio e d’augusto in se cotanto.
LIX.
Veramente è costui nato all’impero,
Sì del regnar, del comandar sa l’arti:
E non minor che Duce è Cavaliero;
468 Ma del doppio valor tutte ha le parti.
Nè fra turba sì grande uom più guerriero,
O più saggio di lui potrei mostrarti.
Sol Raimondo in consiglio, ed in battaglia
472 Sol Rinaldo e Tancredi a lui s’agguaglia.
LX.
Risponde il Re pagan: ben ho di lui
Contezza, e ‘l vidi alla gran corte in Francia,
Quand’io d’Egitto messaggier vi fui:
476 E ‘l vidi in nobil giostra oprar la lancia.
Jerusalem Delivered Page 114