Jerusalem Delivered
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E sebben gli anni giovinetti sui
Non gli vestian di piume ancor la guancia,
Pur dava, ai detti all’opre alle sembianze,
480 Presagio omai d’altissime speranze.
LXI.
Presagio ahi troppo vero! e quì le ciglia
Turbate inchina, e poi le innalza, e chiede:
Dimmi chi sia colui c’ha pur vermiglia
484 La sopravveste, e seco a par si vede.
Oh quanto di sembianti a lui simiglia,
Sebben alquanto di statura cede.
È Baldovin, risponde, e ben si scopre
488 Nel volto a lui fratel, ma più nell’opre.
LXII.
Or rimira colui, che quasi in modo
D’uomo che consigli, sta dall’altro fianco:
Quegli è Raimondo, il qual tanto ti lodo
492 D’accorgimento, uom già canuto e bianco.
Non è chi tesser me’ bellico frodo
Di lui sapesse, o sia Latino o Franco.
Ma quell’altro più in là, ch’orato ha l’elmo,
496 Del Re Britanno è il buon figliuol Guglielmo.
LXIII.
V’è Guelfo seco, egli è d’opre leggiadre
Emulo, e d’alto sangue, e d’alto stato.
Ben il conosco alle sue spalle quadre,
500 Ed a quel petto colmo e rilevato.
Ma ‘l gran nemico mio tra queste squadre
Già riveder non posso, e pur vi guato.
Io dico Boemondo il micidiale,
504 Distruggitor del sangue mio reale.
LXIV.
Così parlavan questi; e ‘l Capitano,
Poi ch’intorno ha mirato, ai suoi discende.
E perchè crede che la Terra invano
508 S’oppugneria, dove il più erto ascende;
Contra la porta aquilonar, nel piano
Che con lei si congiunge, alza le tende;
E quinci procedendo, infra la torre
512 Che chiamano Angolar, gli altri fa porre.
LXV.
Da quel giro del campo è contenuto
Della cittade il terzo, o poco meno:
Chè d’ogni intorno non avria potuto
516 (Cotanto ella volgea) cingerla appieno.
Ma le vie tutte, ond’aver puote ajuto,
Tenta Goffredo d’impedirle almeno:
Ed occupar fa gli opportuni passi,
520 Onde da lei si viene, ed a lei vassi.
LXVI.
Impon che sian le tende indi munite
E di fosse profonde, e di trinciere:
Che d’una parte a cittadine uscite,
524 Dall’altra oppone a correríe straniere.
Ma poi che fur queste opere fornite,
Voll’egli il corpo di Dudon vedere:
E colà trasse, ove il buon Duce estinto
528 Da mesta turba e lagrimosa è cinto.
LXVII.
Di nobil pompa i fidi amici ornaro
Il gran feretro, ove sublime ei giace.
Quando Goffredo entrò, le turbe alzaro
532 La voce assai più flebile e loquace.
Ma con volto nè torbido, nè chiaro
Frena il suo affetto il pio Buglione, e tace.
E poi che ‘n lui, pensando, alquanto fisse
536 Le luci ebbe tenute, alfin sì disse.
LXVIII.
Già non si deve a te doglia nè pianto;
Chè se muori nel mondo, in Ciel rinasci:
E quì dove ti spogli il mortal manto,
540 Di gloria impresse alte vestigia lasci.
Vivesti qual guerrier Cristiano e santo;
E come tal sei morto: or godi, e pasci
In Dio gli occhj bramosi, o felice alma,
544 Ed hai del ben oprar corona e palma.
LXIX.
Vivi beata pur; chè nostra sorte,
Non tua sventura a lagrimar n’invita:
Posciach’al tuo partir sì degna e forte
548 Parte di noi fa col tuo piè partita.
Ma se questa, che ‘l volgo appella morte,
Privati ha noi d’una terrena aita;
Celeste aita ora impetrar ne puoi,
552 Che ‘l Ciel t’accoglie infra gli eletti suoi.
LXX.
E come, a nostro pro, veduto abbiamo
Ch’usavi, uom già mortal, l’arme mortali;
Così vederti oprare anco speriamo,
556 Spirto divin, l’arme del Ciel fatali.
Impara i voti omai, ch’a te porgiamo,
Raccorre, e dar soccorso ai nostri mali:
Indi vittoria annunzio: a te devoti
560 Solverem trionfando, al tempio, i voti.
LXXI.
Così diss’ egli: e già la notte oscura
Avea tutti del giorno i raggj spenti;
E con l’oblío d’ogni nojosa cura
564 Ponea tregua alle lagrime, ai lamenti.
Ma il Capitan ch’espugnar mai le mura
Non crede senza i bellici stromenti,
Pensa ond’abbia le travi, ed in quai forme
568 Le machine componga, e poco dorme.
LXXII.
Sorse a pari col Sole, ed egli stesso
Seguir la pompa funeral poi volle.
A Dudon d’odorifero cipresso
572 Composto hanno il sepolcro appiè d’un colle,
Non lunge agli steccati; e sovra ad esso
Un’altissima palma i rami estolle.
Or quì fu posto; e i sacerdoti intanto
576 Quiete all’alma gli pregar col canto.
LXXIII.
Quinci e quindi fra i rami erano appese
Insegne, e prigioniere arme diverse,
Già da lui tolte in più felici imprese
580 Alle genti di Siria, ed alle Perse.
Della corazza sua, dell’altro arnese
In mezzo il grosso tronco si coperse.
Quì (vi fu scritto poi) giace Dudone:
584 Onorate l’altissimo campione.
LXXIV.
Ma il pietoso Buglion, poi che da questa
Opra si tolse dolorosa e pia;
Tutti i fabbri del campo alla foresta
588 Con buona scorta di soldati invia.
Ella è tra valli ascosa, e manifesta
L’avea fatta a i Francesi uom di Soria.
Qui per troncar le machine n’andaro,
592 A cui non abbia la Città riparo.
LXXV.
L’un l’altro esorta, che le piante atterri,
E faccia al bosco inusitati oltraggj.
Caggion recise da’ taglienti ferri
596 Le sacre palme, e i frassini selvaggj:
I funebri cipressi, e i pini, e i cerri,
L’elci frondose, e gli alti abeti, e i faggj:
Gli olmi mariti, a cui talor s’appoggia
600 La vite, e con piè torto al ciel sen poggia.
LXXVI.
Altri i tassi, e le quercie altri percote,
Che mille volte rinnovar le chiome;
E mille volte ad ogni incontro immote
604 L’ire de’ venti han rintuzzate e dome:
Ed altri impone alle stridenti rote
D’orni e di cedri l’odorate some.
Lascian al suon dell’arme, al vario grido,
608 E le fere e gli augei la tana e ‘l nido.
Canto quarto
ARGOMENTO.
Tutti i numi d’Inferno à se raccoglie
L’imperador del tenebroso regno;
E per dare a’ Cristiani acerbe doglie
Vuol, ch’ usi ognun di lor suo iniquo ingegno.
Per lor opra Idraote a crude voglie
Si volge, e vuol ch’ Armida al suo disegno
Spiani la via, parlando in dolci modi:
E sue machine son bellezze, e frodi.
CANTO QUARTO.
Me n t r e son questi alle bell’opre intenti,
Perchè debbano tosto in uso porse;
Il gran
nemico dell’umane genti
4 Contra i Cristiani i lividi occhj torse,
E scorgendogli omai lieti, e contenti,
Ambo le labbra per furor si morse,
E qual tauro ferito, il suo dolore
8 Versò, mugghiando e sospirando, fuore.
II.
Quinci avendo per tutto il pensier volto
A recar ne’ Cristiani ultima doglia,
Che sia, comanda, il popol suo raccolto
12 (Concilio orrendo!) entro la regia soglia:
Come sia pur leggiera impresa (ahi stolto!)
Il repugnare alla divina voglia;
Stolto, ch’al Ciel s’agguaglia, e in oblio pone,
16 Come di Dio la destra irata tuone.
III.
Chiama gli abitator dell’ombre eterne
Il rauco suon della tartarea tromba:
Treman le spaziose atre caverne,
20 E l’aer cieco a quel romor rimbomba.
Nè sì stridendo mai dalle superne
Regioni del Cielo il folgor piomba,
Nè sì scossa giammai tréma la terra,
24 Quando i vapori in sen gravida serra.
IV.
Tosto gli Dei d’abisso in varie torme
Concorron d’ogn’intorno all’alte porte,
Oh come strane, o come orribil forme,
28 Quant’è negli occhj lor terrore, e morte!
Stampano alcuni il suol di ferine orme,
E ‘n fronte umana han chiome d’angui attorte,
E lor s’aggira dietro immensa coda,
32 Che quasi sferza si ripiega, e snoda.
V.
Quì mille immonde Arpie vedresti, e mille
Centauri, e Sfingi, e pallide Gorgoni,
Molte e molte latrar voraci Scille,
36 E fischiar Idre, e sibilar Pitoni,
E vomitar Chimere atre faville,
E Polifemi orrendi, e Gerioni,
E in nuovi mostri, e non più intesi o visti,
40 Diversi aspetti in un confusi, e misti.
VI.
D’essi parte a sinistra, e parte a destra
A seder vanno al crudo Re davante.
Siede Pluton nel mezzo, e con la destra
44 Sostien lo scetro ruvido e pesante:
Nè tanto scoglio in mar, nè rupe alpestra,
Nè pur Calpe s’innalza, o ‘l magno Atlante,
Ch’anzi lui non paresse un picciol colle;
48 Sì la gran fronte, e le gran corna estolle.
VII.
Orrida maestà nel fero aspetto
Terrore accresce, e più superbo il rende:
Rosseggian gli occhj, e di veneno infetto,
52 Come infausta cometa, il guardo splende:
Gl’involve il mento, e su l’irsuto petto
Ispida e folta la gran barba scende:
E in guisa di voragine profonda,
56 S’apre la bocca d’atro sangue immonda.
VIII.
Qual’i fumi sulfurei, ed infiammati
Escon di Mongibello, e ‘l puzzo e ‘l tuono;
Tal della fera bocca i negri fiati,
60 Tale il fetore e le faville sono.
Mentre ei parlava, Cerbero i latrati
Ripresse, e l’Idra si fè muta al suono:
Restò Cocíto, e ne tremar gli abissi;
64 E in questi detti il gran rimbombo udissi:
IX.
Tartarei Numi, di seder più degni
Là sovra il Sole, ond’è l’origin vostra,
Che meco già dai più felici regni
68 Spinse il gran caso in questa orribil chiostra;
Gli antichi altrui sospetti, e i fieri sdegni
Noti son troppo, e l’alta impresa nostra.
Or colui regge a suo voler le stelle,
72 E noi siam giudicate alme rubelle.
X.
Ed in vece del dì sereno e puro,
Dell’aureo Sol, degli stellati giri,
N’ha quì rinchiusi in questo abisso oscuro,
76 Nè vuol ch’al primo onor per noi s’aspiri.
E poscia (ahi quanto a ricordarlo è duro!
Quest’è quel che più inaspra i miei martíri)
Ne’ bei seggj celesti ha l’uom chiamato;
80 L’uom vile, e di vil fango in terra nato.
XI.
Nè ciò gli parve assai; ma in preda a morte,
Sol per farne più danno, il Figlio diede.
Ei venne, e ruppe le tartaree porte,
84 E porre osò ne’ regni nostri il piede,
E trarne l’alme a noi dovute in sorte,
E riportarne al Ciel sì ricche prede;
Vincitor trionfando; e in nostro scherno
88 Le insegne ivi spiegar del vinto Inferno.
XII.
Ma chè rinnovo i miei dolor parlando?
Chi non ha già l’ingiurie nostre intese?
Ed in qual parte si trovò, nè quando
92 Ch’egli cessasse dalle usate imprese?
Non più dèssi alle antiche andar pensando,
Pensar dobbiamo alle presenti offese.
Deh non vedete omai come egli tenti
96 Tutte al suo culto richiamar le genti?
XIII.
Noi trarrem neghittosi i giorni, e l’ore,
Nè degna cura fia che ‘l cor n’accenda?
E soffrirem che forza ognor maggiore
100 Il suo popol fedele in Asia prenda?
E che Giudea soggioghi, e che ‘l suo onore,
Che ‘l nome suo più si dilati e stenda?
Che suoni in altre lingue, e in altri carmi
104 Si scriva, e incida in nuovi bronzi, e marmi?
XIV.
Che sian gl’Idoli nostri a terra sparsi?
Che i nostri altari il mondo a lui converta?
Ch’a lui sospesi i voti, a lui sol’arsi
108 Siano gl’incensi, ed auro e mirra offerta?
Ch’ove a noi tempio non solea serrarsi,
Or via non resti all’arti nostre aperta?
Che di tant’alme il solito tributo
112 Ne manchi, e in voto regno alberghi Pluto?
XV.
Ah non fia ver, chè non sono anco estinti
Gli spirti in noi di quel valor primiero,
Quando di ferro e d’alte fiamme cinti
116 Pugnammo già contra il celeste impero.
Fummo, io nol nego, in quel conflitto vinti;
Pur non mancò virtute al gran pensiero:
Ebbero i più felici allor vittoria;
120 Rimase a noi d’invitto ardir la gloria.
XVI.
Ma perchè più v’indugio? Itene, o miei
Fidi consorti, o mia potenza e forze:
Ite veloci, ed opprimete i rei,
124 Prima che ‘l lor poter più si rinforze;
Pria che tutt’arda il regno degli Ebrei,
Questa fiamma crescente omai s’ammorze:
Fra loro entrate, e in ultimo lor danno
128 Or la forza s’adopri, ed or l’inganno.
XVII.
Sia destin ciò ch’io voglio; altri disperso
Sen vada errando: altri rimanga ucciso:
Altri in cure d’amor lascive immerso,
132 Idol si faccia un dolce sguardo e un riso:
Sia ‘l ferro incontro al suo rettor converso
Dallo stuol ribellante e in se diviso:
Pera il campo e ruini, e resti in tutto
136 Ogni vestigio suo con lui distrutto.
XVIII.
Non aspettar già l’alme a Dio rubelle
Che fosser queste voci al fin condotte;
Ma fuor volando, a riveder le stelle
140 Già se n’uscian dalla profonda notte;
Come sonanti e torbide procelle,
Che vengan fuor delle natíe lor grotte
Ad oscurar il cielo, a portar guerra
144 Ai gran regni del mare e della terra.
XIX.
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nbsp; Tosto spiegando in varj lati i vanni,
Si furon questi per lo mondo sparti;
E incominciaro a fabbricar inganni
148 Diversi e nuovi, e ad usar lor arti.
Ma di’ tu, Musa, come i primi danni
Mandassero ai Cristiani, e di quai parti:
Tu ‘l sai; ma di tant’opra a noi sì lunge
152 Debil aura di fama appena giunge.
XX.
Reggea Damasco e le città vicine
Idraote famoso e nobil mago;
Che fin da’ suoi prim’anni all’indovine
156 Arti si diede, e ne fu ognor più vago.
Ma che giovar, se non potè del fine
Di quella incerta guerra esser presago?
Ned aspetto di stelle erranti o fisse,
160 Nè risposta d’Inferno il ver predisse?
XXI.
Giudicò questi (ahi cieca umana mente,
Come i giudícj tuoi son vani e torti!)
Ch’all’esercito invitto d’Occidente
164 Apparecchiasse il Ciel ruine e morti:
Però credendo che l’Egizia gente
La palma dell’impresa alfin riporti,
Desia che ‘l popol suo nella vittoria
168 Sia dell’acquisto a parte, e della gloria.
XXII.
Ma perchè il valor Franco ha in grande stima,
Di sanguigna vittoria i danni teme;
E va pensando con qual’arte in prima
172 Il poter de’ Cristiani in parte sceme:
Sicchè più agevolmente indi s’opprima
Dalle sue genti, e dall’Egizie insieme.
In questo suo pensier il sovraggiunge
176 L’Angelo iniquo, e più l’instiga e punge.
XXIII.
Esso il consiglia, e gli ministra i modi
Onde l’impresa agevolar si puote.
Donna, a cui di beltà le prime lodi
180 Concedea l’Oriente, è sua nipote.
Gli accorgimenti e le più occulte frodi,
Ch’usi o femmina o maga, a lei son note.
Questa a se chiama, e seco i suoi consiglj
184 Comparte, e vuol che cura ella ne pigli.
XXIV.
Dice: o diletta mia, che sotto biondi
Capelli, e fra sì tenere sembianze,
Canuto senno, e cor virile ascondi,
188 E già nell’arti mie me stesso avanze;
Gran pensier volgo; e se tu lui secondi,
Seguiteran gli effetti alle speranze:
Tessi la tela ch’io ti mostro ordita,
192 Di cauto vecchio esecutrice ardita.
XXV.
Vanne al campo nemico: ivi s’impieghi
Ogn’arte femminil, ch’amore alletti:
Bagna di pianto, e fà melati i preghi:
196 Tronca e confondi co’ sospiri i detti:
Beltà dolente e miserabil pieghi
Al tuo volere i più ostinati petti:
Vela il soverchio ardir con la vergogna,
200 E fà manto del vero alla menzogna.