Quando ecco, furiando, a lui s’avventa
Uom grande c’ha sembiante e guardo atroce,
E dopo lunga ed ostinata guerra,
184 Con l’aita di molti, alfin l’atterra.
XXIV.
Cade il Garzone invitto (ahi caso amaro!)
Nè v’è fra noi chi vendicare il possa.
Voi chiamo in testimonio, o del mio caro
188 Signor sangue ben sparso e nobil’ossa,
Ch’allor non fui della mia vita avaro,
Nè schivai ferro, nè schivai percossa;
E se piaciuto pur fosse là sopra
192 Ch’io vi morissi, il meritai con l’opra.
XXV.
Fra gli estinti compagni io sol cadei
Vivo: nè vivo forse è chi mi pensi.
Nè de’ nemici più cosa saprei
196 Ridir, sì tutti avea sopiti i sensi.
Ma poichè tornò il lume agli occhj miei,
Ch’eran d’atra caligine condensi,
Notte mi parve; ed allo sguardo fioco
200 S’offerse il vacillar d’un picciol foco.
XXVI.
Non rimaneva in me tanta virtude
Ch’a discerner le cose io fossi presto;
Ma vedea come quei ch’or apre, or chiude
204 Gli occhj, mezzo tra ‘l sonno e l’esser desto:
E ‘l duolo omai delle ferite crude
Più cominciava a farmisi molesto:
Chè l’inaspria l’aura notturna e ‘l gelo,
208 In terra nuda e sotto aperto Cielo.
XXVII.
Più e più ognor s’avvicinava intanto
Quel lume, e insieme un tacito bisbiglio:
Sicch’a me giunse, e mi si pose accanto.
212 Alzo allor, bench’appena, il debil ciglio,
E veggio due vestiti in lungo manto
Tener due faci, e dirmi sento: o figlio,
Confida in quel Signor ch’a’ pii sovviene,
216 E con la grazia i preghi altrui previene.
XXVIII.
In tal guisa parlommi; indi la mano,
Benedicendo, sovra me distese:
E susurrò con suon devoto e piano
220 Voci allor poco udite, e meno intese.
Sorgi, poi disse, ed io leggiero e sano
Sorgo, e non sento le nemiche offese:
(Oh miracol gentile!) anzi mi sembra
224 Piene di vigor novo aver le membra.
XXIX.
Stupido li riguardo, e non ben crede
L’anima sbigottita il certo e il vero:
Onde l’un d’essi a me: di poca fede,
228 Che dubbi? o che vaneggia il tuo pensiero?
Verace corpo è quel che in noi si vede:
Servi siam di Gesù, che ‘l lusinghiero
Mondo, e ‘l suo falso dolce abbiam fuggito,
232 E quì viviamo in loco aspro e romito.
XXX.
Me per ministro a tua salute eletto
Ha quel Signor che in ogni parte regna:
Chè per ignobil mezzo oprar effetto
236 Maraviglioso ed alto ei non isdegna.
Nè men vorrà che sì resti negletto
Quel corpo in cui già visse alma sì degna:
Lo qual con essa ancor, lucido e leve
240 E immortal fatto, riunir si deve.
XXXI.
Dico il corpo di Sveno, a cui fia data
Tomba a tanto valor conveniente,
La quale a dito mostra ed onorata
244 Ancor sarà dalla futura gente.
Ma leva omai gli occhj alle stelle, e guata
Là splender quella come un Sol lucente:
Questa co’ vivi raggj or ti conduce
248 Là dove è il corpo del tuo nobil Duce.
XXXII.
Allor vegg’io che dalla bella face,
Anzi dal Sol notturno un raggio scende
Che dritto là dove il gran corpo giace,
252 Quasi aureo tratto di pennel, si stende:
E sovra lui tal lume e tanto face,
Ch’ogni sua piaga ne sfavilla e splende:
E subito da me si raffigura
256 Nella sanguigna orribile mistura.
E sovra lui tal lume e tanto face,
Ch’ogni sua piaga ne sfavilla e splende:
XXXIII.
Giacea prono non già, ma come volto
Ebbe sempre alle stelle il suo desire,
Dritto ei teneva inverso il Cielo il volto,
260 In guisa d’uom che pur là suso aspire.
Chiusa la destra, e ‘l pugno avea raccolto,
E stretto il ferro, e in atto è di ferire:
L’altra sul petto in modo umile e pio
264 Si posa, e par che perdon chieggia a Dio.
XXXIV.
Mentre io le piaghe sue lavo col pianto,
Nè però sfogo il duol che l’alma accora;
Gli aprì la chiusa destra il vecchio santo,
268 E ‘l ferro che stringea trattone fuora:
Questa, a me disse, ch’oggi sparso ha tanto
Sangue nemico, e n’è vermiglia ancora,
È, come sai, perfetta: e non è forse
272 Altra spada che debba a lei preporse.
XXXV.
Onde piace là su, che s’or la parte
Dal suo primo signore acerba morte,
Oziosa non resti in questa parte;
276 Ma di man passi in mano ardita e forte,
Che l’usi poi con egual forza ed arte;
Ma più lunga stagion con lieta sorte:
E con lei faccia, perchè a lei s’aspetta,
280 Di chi Sveno le uccise aspra vendetta.
XXXVI.
Soliman Sveno uccise, e Solimano
Dee per la spada sua restarne ucciso.
Prendila dunque, e vanne ove il Cristiano
284 Campo fia intorno all’alte mura assiso:
E non temer che nel paese estrano
Ti sia il sentier di novo anco preciso;
Chè t’agevolerà per l’aspra via
288 L’alta destra di lui ch’or là t’invia.
XXXVII.
Quivi egli vuol che da cotesta voce,
Che viva in te servò, si manifesti
La pietate, il valor, l’ardir feroce
292 Che nel diletto tuo Signor vedesti;
Perchè a segnar della purpurea Croce
L’arme, con tale esempio, altri si desti:
Ed ora, e dopo un corso anco di lustri
296 Infiammati ne sian gli animi illustri.
XXXVIII.
Resta che sappia tu chi sia colui
Che deve della spada esser erede.
Questi è Rinaldo il giovinetto, a cui
300 Il pregio di fortezza ogn’altro cede.
A lui la porgi, e dì, che sol da lui
L’alta vendetta il Cielo e ‘l mondo chiede.
Or mentre io le sue voci intento ascolto,
304 Fui da miracol novo a se rivolto.
XXXIX.
Chè là dove il cadavero giacea,
Ebbi improvviso un gran sepolcro scorto,
Che sorgendo rinchiuso in se l’avea,
308 Come non so, nè con qual’arte sorto:
E in brevi note altrui vi si sponea
Il nome, e la virtù del guerrier morto.
Io non sapea da tal vista levarmi,
312 Mirando ora le lettre, ed ora i marmi.
XL.
Quì, disse il vecchio, appresso ai fidi amici
Giacerà del tuo Duce il corpo ascoso;
Mentre gli spirti amando in Ciel felici
316 Godon perpetuo bene e glorioso.
Ma tu col pianto omai gli estremi uficj
Pagato hai loro, e tempo è di riposo.
Oste mio ne sarai sinch’al viaggio
320 Mattutin ti risvegli il novo raggio.
XLI.
Tacque; e per lochi ora sublimi or cupi
Mi scorse, onde a gran
pena il fianco trassi;
Sinch’ove pende da selvagge rupi
324 Cava spelonca raccogliemmo i passi.
Questo è il suo albergo: ivi fra gli orsi e i lupi,
Col discepolo suo, sicuro stassi;
Chè difesa miglior ch’usbergo e scudo,
328 È la santa innocenza al petto ignudo.
XLII.
Silvestre cibo, e duro letto porse
Quivi alle membra mie posa e ristoro.
Ma poi ch’accesi in Oriente scorse
332 I raggj del mattin purpurei e d’oro;
Vigilante ad orar subito sorse
L’uno e l’altro Eremita, ed io con loro.
Dal santo vecchio poi congedo tolsi,
336 E quì, dov’egli consigliò, mi volsi.
XLIII.
Quì si tacque il Tedesco; e gli rispose
Il pio Buglione: o cavalier, tu porte
Dure novelle al campo e dolorose,
340 Onde a ragion si turbi e si sconforte:
Poichè genti sì amiche e valorose
Breve ora ha tolte, e poca terra assorte:
E in guisa d’un baleno il Signor vostro
344 S’è in un sol punto dileguato, e mostro.
XLIV.
Ma che? felice è cotal morte e scempio,
Via più ch’acquisto di provincie e d’oro:
Nè dar l’antico Campidoglio esempio
348 D’alcun può mai sì glorioso alloro.
Essi del Ciel nel luminoso tempio
Han corona immortal del vincer loro.
Ivi, cred’io, che le sue belle piaghe
352 Ciascun lieto dimostri, e se n’appaghe.
XLV.
Ma tu ch’alle fatiche, ed al periglio
Nella milizia ancor resti del mondo;
Devi gioir de’ lor trionfi, e ‘l ciglio
356 Render, quanto conviene, omai giocondo.
E perchè chiedi di Bertoldo il figlio,
Sappi, ch’ei fuor dell’oste è vagabondo;
Nè lodo io già che dubbia via tu prenda,
360 Pria che di lui certa novella intenda.
XLVI.
Questo lor ragionar nell’altrui mente
Di Rinaldo l’amor desta, e rinnova:
E v’è chi dice: ahi fra Pagana gente
364 Il giovinetto errante or si ritrova:
E non v’è quasi alcun che non rammente,
Narrando al Dano, i suoi gran fatti a prova;
E dell’opere sue la lunga tela
368 Con istupor gli si dispiega, e svela.
XLVII.
Or quando del garzon la rimembranza
Avea gli animi tutti inteneriti;
Ecco molti tornar che, per usanza,
372 Eran d’intorno a depredare usciti.
Conducean questi seco in abbondanza
E mandre di lanuti, e buoi rapiti,
E biade ancor, benchè non molte, e strame
376 Che pasca de’ corsier l’avida fame.
XLVIII.
E questi di sciagura aspra e nojosa
Segno portar, che in apparenza è certo:
Rotta del buon Rinaldo e sanguinosa
380 La sopravvesta, ed ogni arnese aperto.
Tosto si sparse (e chi potria tal cosa
Tener celata?) un romor vario, e incerto.
Corre il volgo dolente alle novelle
384 Del guerriero, e dell’arme, e vuol vedelle.
XLIX.
Vede, e conosce ben l’immensa mole
Del grande usbergo, e ‘l folgorar del lume,
E l’armi tutte, ove è l’augel ch’al Sole
388 Prova i suoi figlj e mal crede alle piume:
Chè di vederle già primiere o sole,
Nelle imprese più grandi, ebbe in costume:
Ed or, non senza alta pietate ed ira,
392 Rotte e sanguigne ivi giacer le mira.
L.
Mentre bisbiglia il campo, e la cagione
Della morte di lui varia si crede;
A se chiama Aliprando il pio Buglione,
396 Duce di quei che ne portar le prede,
Uom di libera mente, e di sermone
Veracissimo e schietto, ed a lui chiede:
Dì come, e donde tu rechi quest’arme,
400 E di buono o di reo nulla celarme.
LI.
Gli rispose colui: Di quì lontano
Quanto in due giorni un messaggiero andria,
Verso il confin di Gaza, un picciol piano
404 Chiuso tra colli alquanto è fuor di via:
E in lui d’alto deriva, e lento e piano,
Tra pianta e pianta, un fiumicel s’invia:
E d’arbori e di macchie, ombroso e folto,
408 Opportuno alle insidie il loco è molto.
LII.
Quì greggia alcuna cercavam che fosse
Venuta ai paschi dell’erbose sponde;
E in sull’erbe, miriam, di sangue rosse
412 Giacerne un guerrier morto in riva all’onde.
All’arme, ed all’insegne ogn’uom si mosse:
Chè furon conosciute, ancorchè immonde.
Io m’appressai per discoprirgli il viso;
416 Ma trovai ch’era il capo indi reciso.
LIII.
Mancava ancor la destra: e ‘l busto grande
Molte ferite avea dal tergo al petto:
E non lontan con l’Aquila, che spande
420 Le candide ali, giacea il voto elmetto.
Mentre cerco d’alcuno a cui dimande,
Un villanel sopraggiungea soletto:
Che indietro il passo, per fuggirne, torse
424 Subitamente che di noi s’accorse.
LIV.
Ma seguitato e preso, alla richiesta
Che noi gli facevamo, alfin rispose
Che ‘l giorno innanzi uscir della foresta
428 Scorse molti guerrieri, onde ei s’ascose:
E ch’un d’essi tenea recisa testa
Per le sue chiome bionde, e sanguinose,
La qual gli parve, rimirando intento,
432 D’uom giovinetto, e senza peli al mento.
LV.
E che ‘l medesmo poco poi l’avvolse
In un zendado dall’arcion pendente.
Soggiunse ancor, ch’all’abito raccolse
436 Ch’erano i cavalier di nostra gente.
Io spogliar feci il corpo, e sì men dolse,
Che piansi nel sospetto amaramente:
E portai meco l’arme, e lasciai cura
440 Ch’avesse degno onor di sepoltura.
LVI.
Ma se quel nobil tronco è quel ch’io credo,
Altra tomba, altra pompa egli ben merta.
Così detto, Aliprando ebbe congedo,
444 Perocchè cosa non avea più certa.
Rimase grave, e sospirò Goffredo;
Pur nel tristo pensier non si raccerta:
E con più chiari segni il monco busto
448 Conoscer vuole, e l’omicida ingiusto.
LVII.
Sorgea la notte intanto, e sotto l’ali
Ricopriva del Cielo i campi immensi:
E ‘l sonno ozio dell’alme, oblio de’ mali,
452 Lusingando sopía le cure, e i sensi;
Tu sol punto, Argillan, d’acuti strali
D’aspro dolor, volgi gran cose, e pensi:
Nè l’agitato sen, nè gli occhj ponno
456 La quiete raccorre, o ‘l molle sonno.
LVIII.
Costui pronto di man, di lingua ardito,
Impetuoso, e fervido d’ingegno,
Nacque in riva del Tronto, e fu nutrito,
460 Nelle risse civil, d’odio e di sdegno.
Poscia, in esiglio spinto, i colli e ‘l lito
Empì di sangue, e depredò quel regno,
Sinchè nell’Asia a guerreggiar sen venne,
464 E per fama miglior chiaro divenne.
LIX.
Alfin questi
sull’alba i lumi chiuse:
Nè già fu sonno il suo queto e soave;
Ma fu stupor, ch’Aletto al cor gl’infuse,
468 Non men che morte sia, profondo e grave.
Sono le interne sue virtù deluse,
E riposo dormendo anco non ave;
Chè la furia crudel gli s’appresenta
472 Sotto orribili larve, e lo sgomenta.
LX.
Gli figura un gran busto, ond’è diviso
Il capo, e della destra il braccio è mozzo:
E sostien con la manca il teschio inciso,
476 Di sangue e di pallor, livido e sozzo.
Spira, e parla spirando il morto viso,
E ‘l parlar vien col sangue, e col singhiozzo:
Fuggi Argillan, non vedi omai la luce?
480 Fuggi le tende infami, e l’empio Duce.
LXI.
Chi dal fero Goffredo, e dalla frode
Ch’uccise me, voi cari amici affida?
D’astio dentro il fellon tutto si rode,
484 E pensa sol come voi meco uccida.
Pur, se cotesta mano a nobil lode
Aspira, e in sua virtù tanto si fida,
Non fuggir nò: plachi il Tiranno esangue
488 Lo spirto mio col suo malvagio sangue.
LXII.
Io sarò teco ombra, di ferro e d’ira
Ministra, e t’armerò la destra e ‘l seno.
Così gli parla; e nel parlar gli spira
492 Spirito novo di furor ripieno.
Si rompe il sonno: e sbigottito ei gira
Gli occhj gonfj di rabbia e di veleno:
Ed armato ch’egli è, con importuna
496 Fretta, i guerrier d’Italia insieme aduna.
LXIII.
Gli aduna là dove sospese stanno
L’arme del buon Rinaldo, e con superba
Voce, il furore e ‘l conceputo affanno
500 In tai detti divulga, e disacerba:
Dunque un popolo barbaro e tiranno
Che non prezza ragion, che fe non serba,
Che non fu mai di sangue e d’or satollo,
504 Ne terrà ‘l freno in bocca, e ‘l giogo al collo?
LXIV.
Ciò che sofferto abbiam d’aspro e d’indegno
Sette anni omai sotto sì iniqua soma,
È tal, ch’arder di scorno, arder di sdegno
508 Potrà da quì a mill’anni Italia e Roma.
Taccio, che fu dall’arme e dall’ingegno
Del buon Tancredi la Cilicia doma,
E ch’ora il Franco a tradigion la gode:
512 E i premj usurpa del valor la frode.
LXV.
Taccio, ch’ove il bisogno e ‘l tempo chiede
Pronta man, pensier fermo, animo audace;
Alcuno ivi di noi primo si vede
516 Portar fra mille morti o ferro, o face.
Quando le palme poi, quando le prede
Si dispensan nell’ozio e nella pace,
Nostri non sono già, ma tutti loro
520 I trionfi, gli onor, le terre, l’oro.
LXVI.
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