Jerusalem Delivered

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Jerusalem Delivered Page 126

by Torquato Tasso


  Quando ecco, furiando, a lui s’avventa

  Uom grande c’ha sembiante e guardo atroce,

  E dopo lunga ed ostinata guerra,

  184 Con l’aita di molti, alfin l’atterra.

  XXIV.

  Cade il Garzone invitto (ahi caso amaro!)

  Nè v’è fra noi chi vendicare il possa.

  Voi chiamo in testimonio, o del mio caro

  188 Signor sangue ben sparso e nobil’ossa,

  Ch’allor non fui della mia vita avaro,

  Nè schivai ferro, nè schivai percossa;

  E se piaciuto pur fosse là sopra

  192 Ch’io vi morissi, il meritai con l’opra.

  XXV.

  Fra gli estinti compagni io sol cadei

  Vivo: nè vivo forse è chi mi pensi.

  Nè de’ nemici più cosa saprei

  196 Ridir, sì tutti avea sopiti i sensi.

  Ma poichè tornò il lume agli occhj miei,

  Ch’eran d’atra caligine condensi,

  Notte mi parve; ed allo sguardo fioco

  200 S’offerse il vacillar d’un picciol foco.

  XXVI.

  Non rimaneva in me tanta virtude

  Ch’a discerner le cose io fossi presto;

  Ma vedea come quei ch’or apre, or chiude

  204 Gli occhj, mezzo tra ‘l sonno e l’esser desto:

  E ‘l duolo omai delle ferite crude

  Più cominciava a farmisi molesto:

  Chè l’inaspria l’aura notturna e ‘l gelo,

  208 In terra nuda e sotto aperto Cielo.

  XXVII.

  Più e più ognor s’avvicinava intanto

  Quel lume, e insieme un tacito bisbiglio:

  Sicch’a me giunse, e mi si pose accanto.

  212 Alzo allor, bench’appena, il debil ciglio,

  E veggio due vestiti in lungo manto

  Tener due faci, e dirmi sento: o figlio,

  Confida in quel Signor ch’a’ pii sovviene,

  216 E con la grazia i preghi altrui previene.

  XXVIII.

  In tal guisa parlommi; indi la mano,

  Benedicendo, sovra me distese:

  E susurrò con suon devoto e piano

  220 Voci allor poco udite, e meno intese.

  Sorgi, poi disse, ed io leggiero e sano

  Sorgo, e non sento le nemiche offese:

  (Oh miracol gentile!) anzi mi sembra

  224 Piene di vigor novo aver le membra.

  XXIX.

  Stupido li riguardo, e non ben crede

  L’anima sbigottita il certo e il vero:

  Onde l’un d’essi a me: di poca fede,

  228 Che dubbi? o che vaneggia il tuo pensiero?

  Verace corpo è quel che in noi si vede:

  Servi siam di Gesù, che ‘l lusinghiero

  Mondo, e ‘l suo falso dolce abbiam fuggito,

  232 E quì viviamo in loco aspro e romito.

  XXX.

  Me per ministro a tua salute eletto

  Ha quel Signor che in ogni parte regna:

  Chè per ignobil mezzo oprar effetto

  236 Maraviglioso ed alto ei non isdegna.

  Nè men vorrà che sì resti negletto

  Quel corpo in cui già visse alma sì degna:

  Lo qual con essa ancor, lucido e leve

  240 E immortal fatto, riunir si deve.

  XXXI.

  Dico il corpo di Sveno, a cui fia data

  Tomba a tanto valor conveniente,

  La quale a dito mostra ed onorata

  244 Ancor sarà dalla futura gente.

  Ma leva omai gli occhj alle stelle, e guata

  Là splender quella come un Sol lucente:

  Questa co’ vivi raggj or ti conduce

  248 Là dove è il corpo del tuo nobil Duce.

  XXXII.

  Allor vegg’io che dalla bella face,

  Anzi dal Sol notturno un raggio scende

  Che dritto là dove il gran corpo giace,

  252 Quasi aureo tratto di pennel, si stende:

  E sovra lui tal lume e tanto face,

  Ch’ogni sua piaga ne sfavilla e splende:

  E subito da me si raffigura

  256 Nella sanguigna orribile mistura.

  E sovra lui tal lume e tanto face,

  Ch’ogni sua piaga ne sfavilla e splende:

  XXXIII.

  Giacea prono non già, ma come volto

  Ebbe sempre alle stelle il suo desire,

  Dritto ei teneva inverso il Cielo il volto,

  260 In guisa d’uom che pur là suso aspire.

  Chiusa la destra, e ‘l pugno avea raccolto,

  E stretto il ferro, e in atto è di ferire:

  L’altra sul petto in modo umile e pio

  264 Si posa, e par che perdon chieggia a Dio.

  XXXIV.

  Mentre io le piaghe sue lavo col pianto,

  Nè però sfogo il duol che l’alma accora;

  Gli aprì la chiusa destra il vecchio santo,

  268 E ‘l ferro che stringea trattone fuora:

  Questa, a me disse, ch’oggi sparso ha tanto

  Sangue nemico, e n’è vermiglia ancora,

  È, come sai, perfetta: e non è forse

  272 Altra spada che debba a lei preporse.

  XXXV.

  Onde piace là su, che s’or la parte

  Dal suo primo signore acerba morte,

  Oziosa non resti in questa parte;

  276 Ma di man passi in mano ardita e forte,

  Che l’usi poi con egual forza ed arte;

  Ma più lunga stagion con lieta sorte:

  E con lei faccia, perchè a lei s’aspetta,

  280 Di chi Sveno le uccise aspra vendetta.

  XXXVI.

  Soliman Sveno uccise, e Solimano

  Dee per la spada sua restarne ucciso.

  Prendila dunque, e vanne ove il Cristiano

  284 Campo fia intorno all’alte mura assiso:

  E non temer che nel paese estrano

  Ti sia il sentier di novo anco preciso;

  Chè t’agevolerà per l’aspra via

  288 L’alta destra di lui ch’or là t’invia.

  XXXVII.

  Quivi egli vuol che da cotesta voce,

  Che viva in te servò, si manifesti

  La pietate, il valor, l’ardir feroce

  292 Che nel diletto tuo Signor vedesti;

  Perchè a segnar della purpurea Croce

  L’arme, con tale esempio, altri si desti:

  Ed ora, e dopo un corso anco di lustri

  296 Infiammati ne sian gli animi illustri.

  XXXVIII.

  Resta che sappia tu chi sia colui

  Che deve della spada esser erede.

  Questi è Rinaldo il giovinetto, a cui

  300 Il pregio di fortezza ogn’altro cede.

  A lui la porgi, e dì, che sol da lui

  L’alta vendetta il Cielo e ‘l mondo chiede.

  Or mentre io le sue voci intento ascolto,

  304 Fui da miracol novo a se rivolto.

  XXXIX.

  Chè là dove il cadavero giacea,

  Ebbi improvviso un gran sepolcro scorto,

  Che sorgendo rinchiuso in se l’avea,

  308 Come non so, nè con qual’arte sorto:

  E in brevi note altrui vi si sponea

  Il nome, e la virtù del guerrier morto.

  Io non sapea da tal vista levarmi,

  312 Mirando ora le lettre, ed ora i marmi.

  XL.

  Quì, disse il vecchio, appresso ai fidi amici

  Giacerà del tuo Duce il corpo ascoso;

  Mentre gli spirti amando in Ciel felici

  316 Godon perpetuo bene e glorioso.

  Ma tu col pianto omai gli estremi uficj

  Pagato hai loro, e tempo è di riposo.

  Oste mio ne sarai sinch’al viaggio

  320 Mattutin ti risvegli il novo raggio.

  XLI.

  Tacque; e per lochi ora sublimi or cupi

  Mi scorse, onde a gran
pena il fianco trassi;

  Sinch’ove pende da selvagge rupi

  324 Cava spelonca raccogliemmo i passi.

  Questo è il suo albergo: ivi fra gli orsi e i lupi,

  Col discepolo suo, sicuro stassi;

  Chè difesa miglior ch’usbergo e scudo,

  328 È la santa innocenza al petto ignudo.

  XLII.

  Silvestre cibo, e duro letto porse

  Quivi alle membra mie posa e ristoro.

  Ma poi ch’accesi in Oriente scorse

  332 I raggj del mattin purpurei e d’oro;

  Vigilante ad orar subito sorse

  L’uno e l’altro Eremita, ed io con loro.

  Dal santo vecchio poi congedo tolsi,

  336 E quì, dov’egli consigliò, mi volsi.

  XLIII.

  Quì si tacque il Tedesco; e gli rispose

  Il pio Buglione: o cavalier, tu porte

  Dure novelle al campo e dolorose,

  340 Onde a ragion si turbi e si sconforte:

  Poichè genti sì amiche e valorose

  Breve ora ha tolte, e poca terra assorte:

  E in guisa d’un baleno il Signor vostro

  344 S’è in un sol punto dileguato, e mostro.

  XLIV.

  Ma che? felice è cotal morte e scempio,

  Via più ch’acquisto di provincie e d’oro:

  Nè dar l’antico Campidoglio esempio

  348 D’alcun può mai sì glorioso alloro.

  Essi del Ciel nel luminoso tempio

  Han corona immortal del vincer loro.

  Ivi, cred’io, che le sue belle piaghe

  352 Ciascun lieto dimostri, e se n’appaghe.

  XLV.

  Ma tu ch’alle fatiche, ed al periglio

  Nella milizia ancor resti del mondo;

  Devi gioir de’ lor trionfi, e ‘l ciglio

  356 Render, quanto conviene, omai giocondo.

  E perchè chiedi di Bertoldo il figlio,

  Sappi, ch’ei fuor dell’oste è vagabondo;

  Nè lodo io già che dubbia via tu prenda,

  360 Pria che di lui certa novella intenda.

  XLVI.

  Questo lor ragionar nell’altrui mente

  Di Rinaldo l’amor desta, e rinnova:

  E v’è chi dice: ahi fra Pagana gente

  364 Il giovinetto errante or si ritrova:

  E non v’è quasi alcun che non rammente,

  Narrando al Dano, i suoi gran fatti a prova;

  E dell’opere sue la lunga tela

  368 Con istupor gli si dispiega, e svela.

  XLVII.

  Or quando del garzon la rimembranza

  Avea gli animi tutti inteneriti;

  Ecco molti tornar che, per usanza,

  372 Eran d’intorno a depredare usciti.

  Conducean questi seco in abbondanza

  E mandre di lanuti, e buoi rapiti,

  E biade ancor, benchè non molte, e strame

  376 Che pasca de’ corsier l’avida fame.

  XLVIII.

  E questi di sciagura aspra e nojosa

  Segno portar, che in apparenza è certo:

  Rotta del buon Rinaldo e sanguinosa

  380 La sopravvesta, ed ogni arnese aperto.

  Tosto si sparse (e chi potria tal cosa

  Tener celata?) un romor vario, e incerto.

  Corre il volgo dolente alle novelle

  384 Del guerriero, e dell’arme, e vuol vedelle.

  XLIX.

  Vede, e conosce ben l’immensa mole

  Del grande usbergo, e ‘l folgorar del lume,

  E l’armi tutte, ove è l’augel ch’al Sole

  388 Prova i suoi figlj e mal crede alle piume:

  Chè di vederle già primiere o sole,

  Nelle imprese più grandi, ebbe in costume:

  Ed or, non senza alta pietate ed ira,

  392 Rotte e sanguigne ivi giacer le mira.

  L.

  Mentre bisbiglia il campo, e la cagione

  Della morte di lui varia si crede;

  A se chiama Aliprando il pio Buglione,

  396 Duce di quei che ne portar le prede,

  Uom di libera mente, e di sermone

  Veracissimo e schietto, ed a lui chiede:

  Dì come, e donde tu rechi quest’arme,

  400 E di buono o di reo nulla celarme.

  LI.

  Gli rispose colui: Di quì lontano

  Quanto in due giorni un messaggiero andria,

  Verso il confin di Gaza, un picciol piano

  404 Chiuso tra colli alquanto è fuor di via:

  E in lui d’alto deriva, e lento e piano,

  Tra pianta e pianta, un fiumicel s’invia:

  E d’arbori e di macchie, ombroso e folto,

  408 Opportuno alle insidie il loco è molto.

  LII.

  Quì greggia alcuna cercavam che fosse

  Venuta ai paschi dell’erbose sponde;

  E in sull’erbe, miriam, di sangue rosse

  412 Giacerne un guerrier morto in riva all’onde.

  All’arme, ed all’insegne ogn’uom si mosse:

  Chè furon conosciute, ancorchè immonde.

  Io m’appressai per discoprirgli il viso;

  416 Ma trovai ch’era il capo indi reciso.

  LIII.

  Mancava ancor la destra: e ‘l busto grande

  Molte ferite avea dal tergo al petto:

  E non lontan con l’Aquila, che spande

  420 Le candide ali, giacea il voto elmetto.

  Mentre cerco d’alcuno a cui dimande,

  Un villanel sopraggiungea soletto:

  Che indietro il passo, per fuggirne, torse

  424 Subitamente che di noi s’accorse.

  LIV.

  Ma seguitato e preso, alla richiesta

  Che noi gli facevamo, alfin rispose

  Che ‘l giorno innanzi uscir della foresta

  428 Scorse molti guerrieri, onde ei s’ascose:

  E ch’un d’essi tenea recisa testa

  Per le sue chiome bionde, e sanguinose,

  La qual gli parve, rimirando intento,

  432 D’uom giovinetto, e senza peli al mento.

  LV.

  E che ‘l medesmo poco poi l’avvolse

  In un zendado dall’arcion pendente.

  Soggiunse ancor, ch’all’abito raccolse

  436 Ch’erano i cavalier di nostra gente.

  Io spogliar feci il corpo, e sì men dolse,

  Che piansi nel sospetto amaramente:

  E portai meco l’arme, e lasciai cura

  440 Ch’avesse degno onor di sepoltura.

  LVI.

  Ma se quel nobil tronco è quel ch’io credo,

  Altra tomba, altra pompa egli ben merta.

  Così detto, Aliprando ebbe congedo,

  444 Perocchè cosa non avea più certa.

  Rimase grave, e sospirò Goffredo;

  Pur nel tristo pensier non si raccerta:

  E con più chiari segni il monco busto

  448 Conoscer vuole, e l’omicida ingiusto.

  LVII.

  Sorgea la notte intanto, e sotto l’ali

  Ricopriva del Cielo i campi immensi:

  E ‘l sonno ozio dell’alme, oblio de’ mali,

  452 Lusingando sopía le cure, e i sensi;

  Tu sol punto, Argillan, d’acuti strali

  D’aspro dolor, volgi gran cose, e pensi:

  Nè l’agitato sen, nè gli occhj ponno

  456 La quiete raccorre, o ‘l molle sonno.

  LVIII.

  Costui pronto di man, di lingua ardito,

  Impetuoso, e fervido d’ingegno,

  Nacque in riva del Tronto, e fu nutrito,

  460 Nelle risse civil, d’odio e di sdegno.

  Poscia, in esiglio spinto, i colli e ‘l lito

  Empì di sangue, e depredò quel regno,

  Sinchè nell’Asia a guerreggiar sen venne,

  464 E per fama miglior chiaro divenne.

  LIX.

  Alfin questi
sull’alba i lumi chiuse:

  Nè già fu sonno il suo queto e soave;

  Ma fu stupor, ch’Aletto al cor gl’infuse,

  468 Non men che morte sia, profondo e grave.

  Sono le interne sue virtù deluse,

  E riposo dormendo anco non ave;

  Chè la furia crudel gli s’appresenta

  472 Sotto orribili larve, e lo sgomenta.

  LX.

  Gli figura un gran busto, ond’è diviso

  Il capo, e della destra il braccio è mozzo:

  E sostien con la manca il teschio inciso,

  476 Di sangue e di pallor, livido e sozzo.

  Spira, e parla spirando il morto viso,

  E ‘l parlar vien col sangue, e col singhiozzo:

  Fuggi Argillan, non vedi omai la luce?

  480 Fuggi le tende infami, e l’empio Duce.

  LXI.

  Chi dal fero Goffredo, e dalla frode

  Ch’uccise me, voi cari amici affida?

  D’astio dentro il fellon tutto si rode,

  484 E pensa sol come voi meco uccida.

  Pur, se cotesta mano a nobil lode

  Aspira, e in sua virtù tanto si fida,

  Non fuggir nò: plachi il Tiranno esangue

  488 Lo spirto mio col suo malvagio sangue.

  LXII.

  Io sarò teco ombra, di ferro e d’ira

  Ministra, e t’armerò la destra e ‘l seno.

  Così gli parla; e nel parlar gli spira

  492 Spirito novo di furor ripieno.

  Si rompe il sonno: e sbigottito ei gira

  Gli occhj gonfj di rabbia e di veleno:

  Ed armato ch’egli è, con importuna

  496 Fretta, i guerrier d’Italia insieme aduna.

  LXIII.

  Gli aduna là dove sospese stanno

  L’arme del buon Rinaldo, e con superba

  Voce, il furore e ‘l conceputo affanno

  500 In tai detti divulga, e disacerba:

  Dunque un popolo barbaro e tiranno

  Che non prezza ragion, che fe non serba,

  Che non fu mai di sangue e d’or satollo,

  504 Ne terrà ‘l freno in bocca, e ‘l giogo al collo?

  LXIV.

  Ciò che sofferto abbiam d’aspro e d’indegno

  Sette anni omai sotto sì iniqua soma,

  È tal, ch’arder di scorno, arder di sdegno

  508 Potrà da quì a mill’anni Italia e Roma.

  Taccio, che fu dall’arme e dall’ingegno

  Del buon Tancredi la Cilicia doma,

  E ch’ora il Franco a tradigion la gode:

  512 E i premj usurpa del valor la frode.

  LXV.

  Taccio, ch’ove il bisogno e ‘l tempo chiede

  Pronta man, pensier fermo, animo audace;

  Alcuno ivi di noi primo si vede

  516 Portar fra mille morti o ferro, o face.

  Quando le palme poi, quando le prede

  Si dispensan nell’ozio e nella pace,

  Nostri non sono già, ma tutti loro

  520 I trionfi, gli onor, le terre, l’oro.

  LXVI.

 

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