Tempo forse già fu, che gravi e strane
Ne potevan parer sì fatte offese;
Quasi lievi or le passo: orrenda immane
524 Ferità leggierissime le ha rese.
Hanno ucciso Rinaldo, e con le umane
L’alte leggi divine han vilipese.
E non fulmina il Cielo? e non l’inghiotte
528 La terra entro la sua perpetua notte?
LXVII.
Rinaldo han morto, il qual fu spada e scudo
Di nostra fede; ed ancor giace inulto?
Inulto giace: e sul terreno ignudo
532 Lacerato il lasciaro, ed insepulto.
Ricercate saper chi fosse il crudo?
A chi puote, o compagni, esser occulto?
Deh chi non sa quanto al valor Latino
536 Portin Goffredo invidia, e Baldovino?
LXVIII.
Ma chè cerco argomenti? Il Cielo io giuro,
Il Ciel che n’ode, e ch’ingannar non lice;
Ch’allor che si rischiara il mondo oscuro,
540 Spirito errante il vidi ed infelice.
Che spettacolo, oimè, crudele e duro!
Quai frode di Goffredo a noi predice!
Io ‘l vidi, e non fu sogno: e ovunque or miri,
544 Par che dinanzi agli occhj miei s’aggiri.
LXIX.
Or che faremo noi? dee quella mano,
Che di morte sì ingiusta è ancora immonda,
Reggerci sempre? o pur vorrem lontano
548 Girne da lei dove l’Eufrate inonda?
Dove a popolo imbelle in fertil piano
Tante ville e città nutre, e feconda:
Anzi a noi pur; nostre saranno, io spero,
552 Nè co’ Franchi comune avrem l’impero.
LXX.
Andianne, e resti invendicato il sangue
(Se così parvi) illustre ed innocente.
Benchè se la virtù, che fredda langue,
556 Fosse ora in voi, quanto dovrebbe, ardente;
Questo, che divorò pestifero angue
Il pregio e ‘l fior della Latina gente,
Daria con la sua morte, e con lo scempio
560 Agli altri mostri memorando esempio.
LXXI.
Io io vorrei, se ‘l vostro alto valore,
Quanto egli può, tanto voler osasse,
Ch’oggi per questa man nell’empio core,
564 Nido di tradigion, la pena entrasse.
Così parla agitato, e nel furore
E nell’impeto suo ciascuno ei trasse.
Arme arme freme il forsennato, e insieme
568 La gioventù superba arme arme freme.
LXXII.
Rota Aletto fra lor la destra armata,
E col foco il velen ne’ petti mesce.
Lo sdegno, la follia, la scellerata
572 Sete del sangue ogn’or più infuria, e cresce;
E serpe quella peste, e si dilata,
E degli alberghi Italici fuor n’esce:
E passa fra gli Elvezj, e vi s’apprende,
576 E di là poscia anco agl’Inglesi tende.
LXXIII.
Nè sol l’estrane genti avvien che muova
Il duro caso, e ‘l gran pubblico danno:
Ma le antiche cagioni all’ira nuova
580 Materia insieme, e nutrimento danno.
Ogni sopito sdegno or si rinnuova:
Chiamano il popol Franco empio e tiranno:
E in superbe minacce esce diffuso
584 L’odio, che non può starne omai più chiuso.
LXXIV.
Così nel cavo rame umor che bolle
Per troppo foco, entro gorgoglia e fuma:
Nè capendo in se stesso, alfin s’estolle
588 Sovra gli orli del vaso, e inonda, e spuma.
Non bastano a frenar il volgo folle
Que’ pochi, a cui la mente il vero alluma.
E Tancredi, e Camillo eran lontani,
592 Guglielmo, e gli altri in podestà soprani.
LXXV.
Corrono già precipitosi all’armi
Confusamente i popoli feroci:
E già s’odon cantar bellici carmi
596 Sediziose trombe in fere voci.
Gridano intanto al pio Buglion che s’armi,
Molti di qua di là nunzj veloci;
E Baldovino innanzi a tutti armato
600 Gli s’appresenta, e gli si pone a lato.
LXXVI.
Egli ch’ode l’accusa, i lumi al Cielo
Drizza, e pur come suole, a Dio ricorre:
Signor, tu che sai ben con quanto zelo
604 La destra mia dal civil sangue abborre;
Tu squarcia a questi della mente il velo,
E reprimi il furor che sì trascorre:
E l’innocenza mia, che costà sopra
608 È nota, al mondo cieco anco si scopra.
LXXVII.
Tacque: e, dal Cielo infuso, ir fra le vene
Sentissi un novo inusitato caldo:
Colmo d’alto vigor, d’ardita spene
612 Che nel volto si sparge, e ‘l fa più baldo,
E da’ suoi circondato, oltre sen viene
Contra chi vendicar credea Rinaldo:
Nè perchè d’arme e di minacce senta
616 Fremito d’ogni intorno, il passo allenta.
LXXVIII.
Ha la corazza indosso, e nobil veste
Riccamente l’adorna oltra ‘l costume:
Nudo è le mani e ‘l volto, e di celeste
620 Maestà vi risplende un novo lume:
Scuote l’aurato scettro; e sol con queste
Arme acquetar quegl’impeti presume.
Tal si mostra a coloro, e tal ragiona:
624 Nè come d’uom mortal la voce suona.
LXXIX.
Quali stolte minacce, e quale or odo
Vano strepito d’arme? e chi ‘l commove?
Così quì riverito, e in questo modo
628 Noto son io dopo sì lunghe prove?
Ch’ancor v’è chi sospetti, e chi di frodo
Goffredo accusi, e chi le accuse approve?
Forse aspettate ancor ch’a voi mi pieghi,
632 E ragioni v’adduca, e porga preghi?
LXXX.
Ah non sia ver che tanta indegnitate
La terra, piena del mio nome, intenda:
Me questo scettro, me delle onorate
636 Opre mie la memoria, e ‘l ver difenda:
E per or la giustizia alla pietate
Ceda, nè sovra i rei la pena scenda.
Agli altri merti or questo error perdono,
640 Ed al vostro Rinaldo anco vi dono.
LXXXI.
Col sangue suo lavi il comun difetto
Solo Argillan, di tante colpe autore:
Che mosso a leggierissimo sospetto,
644 Sospinti gli altri ha nel medesmo errore.
Lampi e folgori ardean nel regio aspetto,
Mentre ei parlò, di maestà d’orrore;
Talchè Argillano attonito e conquiso
648 Teme (chi ‘l crederia?) l’ira d’un viso.
LXXXII.
E ‘l volgo, ch’anzi irriverente, audace
Tutto fremer s’udia d’orgoglj e d’onte;
E ch’ebbe al ferro, all’aste ed alla face
652 Che ‘l furor ministrò, le man sì pronte;
Non osa (e i detti alteri ascolta, e tace)
Fra timor e vergogna alzar la fronte:
E sostien ch’Argillano, ancorchè cinto
656 Dell’arme lor, sia da’ ministri avvinto.
LXXXIII.
Così leon, ch’anzi l’orribil coma
Con muggíto scotea superbo e fero;
Se poi vede il maestro onde fu doma
660 La natia ferità del core altero;
Può del giogo soffrir l’ignobil soma,
E teme le minacce, e ‘l duro impero:
Nè i gran velli, i gran denti, e l’unghie ch’hanno
&n
bsp; 664 Tanta in se forza, insuperbire il fanno.
LXXXIV.
È fama che fu visto, in volto crudo
Ed in atto feroce e minacciante
Un alato guerrier tener lo scudo
668 Della difesa al pio Buglion davante:
E vibrar fulminando il ferro ignudo,
Che di sangue vedeasi ancor stillante.
Sangue era forse di città, e di regni
672 Che provocar del Cielo i tardi sdegni.
LXXXV.
Così, cheto il tumulto, ognun depone
L’arme, e molti con l’arme il mal talento.
E ritorna Goffredo al padiglione,
676 A varie cose, a nove imprese intento:
Ch’assalir la cittate egli dispone,
Pria che ‘l secondo, o ‘l terzo dì sia spento:
E rivedendo va l’incise travi,
680 Già in machine conteste orrende, e gravi.
Canto nono
ARGOMENTO.
Trova la Furia Solimano, e ‘l move
A far a’ Franchi aspra notturna guerra.
Il giusto Dio, che l’infernali prove
Mira dal Ciel, manda Michele in terra.
Così, poichè il soccorso si rimove
Dell’Inferno ai Pagani, e si disserra
A lor danni il drappel che seguì Armida,
Fugge, e di vincer Soliman diffida.
CANTO NONO.
Ma il gran mostro infernal che vede queti
Que’ già torbidi cori, e l’ire spente:
E cozzar contra ‘l fato, e i gran decreti
4 Svolger non può dell’immutabil mente;
Si parte, e, dove passa, i campi lieti
Secca, e pallido il Sol si fa repente:
E d’altre furie ancora e d’altri mali
8 Ministro, a nova impresa affretta l’ali.
II.
Ella, che dall’esercito Cristiano,
Per industria sapea de’ suoi consorti,
Il figliuol di Bertoldo esser lontano,
12 Tancredi e gli altri più temuti e forti;
Disse: che più s’aspetta? or Solimano
Inaspettato venga, e guerra porti.
Certo (o ch’io spero) alta vittoria avremo
16 Di campo mal concorde, e in parte scemo.
III.
Ciò detto, vola ove fra squadre erranti,
Fattosen duce, Soliman dimora:
Quel Soliman di cui non fu, tra quanti
20 Ha Dio rubelli, uom più feroce allora:
Nè, se per nova ingiuria i suoi giganti
Rinnovasse la terra, anco vi fora:
Questi fu Re de’ Turchi, ed in Nicea
24 La sede dell’imperio aver solea.
IV.
E distendeva, incontro ai Greci lidi,
Dal Sangario al Meandro il suo confine:
Ove albergar già Misi, e Frigj, e Lidj,
28 E le genti di Ponto, e le Bitine.
Ma poi che contra i Turchi, e gli altri infidi
Passar nell’Asia l’armi peregrine,
Fur sue terre espugnate, ed ei sconfitto
32 Ben fu due fiate in general conflitto.
V.
E ritentata avendo invan la sorte,
E spinto a forza dal natío paese,
Ricoverò del Re d’Egitto in corte,
36 Ch’oste gli fu magnanimo e cortese:
Ed ebbe a grado che guerrier sì forte
Gli s’offrisse compagno all’alte imprese;
Proposto avendo già vietar l’acquisto
40 Di Palestina ai cavalier di Cristo.
VI.
Ma prima ch’egli apertamente loro
La destinata guerra annunziasse:
Volle che Solimano, a cui molto oro
44 Diè per tal uso, gli Arabi assoldasse.
Or mentre ei d’Asia, e dal paese Moro
L’oste accogliea, Soliman venne, e trasse
Agevolmente a se gli Arabi avari,
48 Ladroni, in ogni tempo, e mercenarj.
VII.
Così fatto lor duce, or d’ogn’intorno
La Giudea scorre, e fa prede e rapine:
Sicchè ‘l venire è chiuso e ‘l far ritorno
52 Dall’esercito Franco alle marine.
E rimembrando ognor l’antico scorno,
E dell’imperio suo l’alte ruine,
Cose maggior nel petto acceso volve;
56 Ma non ben s’assicura, o si risolve.
VIII.
A costui viene Aletto: e da lei tolto
È ‘l sembiante d’un uom d’antica etade.
Vota di sangue, empie di crespe il volto,
60 Lascia barbuto il labbro, e ‘l mento rade:
Dimostra il capo in lunghe tele avvolto;
La veste oltra ‘l ginocchio al piè gli cade,
La scimitarra al fianco, e ‘l tergo carco
64 Della faretra, e nelle mani ha l’arco.
A costui viene Aletto; e da lei tolto
È ‘l sembiante d’un Uom d’antica etade.
IX.
Noi, gli dice ella, or trascorriam le vote
Piaggie, e le arene sterili e deserte:
Ove nè far rapina omai si puote,
68 Nè vittoria acquistar che loda merte.
Goffredo intanto la Città percuote,
E già le mura ha con le torri aperte:
E già vedrem, s’ancor si tarda un poco,
72 Insin di qua le sue ruine, e ‘l foco.
X.
Dunque accesi tugurj, e gregge, e buoi
Gli alti trofei di Soliman saranno?
Così racquisti il regno? e così i tuoi
76 Oltraggj vendicar ti credi, e ‘l danno?
Ardisci, ardisci: entro ai ripari suoi,
Di notte, opprimi il barbaro Tiranno.
Credi al tuo vecchio Araspe, il cui consiglio
80 E nel regno provasti, e nell’esiglio.
XI.
Non ci aspetta egli e non ci teme, e sprezza
Gli Arabi, ignudi in vero e timorosi:
Nè creder mai potrà che gente avvezza
84 Alle prede alle fughe, or cotanto osi:
Ma fieri gli farà la tua fierezza
Contra un campo che giaccia inerme, e posi.
Così gli disse; e le sue furie ardenti
88 Spirogli al seno, e si mischiò tra’ venti.
XII.
Grida il Guerrier, levando al Ciel la mano,
O tu, che furor tanto al cor m’irriti,
Ned uom sei già, sebben sembiante umano
92 Mostrasti; ecco io ti seguo ove m’inviti.
Verrò, farò là monti ov’ora è piano;
Monti d’uomini estinti, e di feriti:
Farò fiumi di sangue. Or tu sia meco,
96 E reggi l’arme mie per l’aer cieco.
XIII.
Tace, e senza indugiar le turbe accoglie,
E rincora parlando il vile e ‘l lento:
E nell’ardor delle sue stesse voglie
100 Accende il campo a seguitarlo intento.
Dà il segno Aletto della tromba, e scioglie
Di sua man propria il gran vessillo al vento.
Marcia il campo veloce, anzi sì corre,
104 Che della fama il volo anco precorre.
XIV.
Va seco Aletto, e poi lo lascia, e veste
D’uom che rechi novelle abito e viso:
E nell’ora che par che ‘l mondo reste
108 Fra la notte e fra ‘l dì dubbio e diviso,
Entra in Gerusalemme, e, tra le meste
Turbe passando, al Re dà l’alto avviso
Del gran campo che giunge, e del disegno;
112 E del notturno assalto e l’ora, e ‘l segno.
XV.
Ma già distendon l’ombre orrido velo
Che di rossi vapor si sparge e tigne.
La terra, in vece del notturno gelo,
116 Bagnan rugiade tepide e sanguigne.<
br />
S’empie di mostri, e di prodigj il Cielo:
S’odon fremendo errar larve maligne:
Votò Pluton gli abissi, e la sua notte
120 Tutta versò dalle Tartaree grotte.
XVI.
Per sì profondo orror verso le tende
Degl’inimici il fier Soldan cammina.
Ma quando a mezzo dal suo corso ascende
124 La notte, onde poi rapida dechina;
A men d’un miglio, ove riposo prende
Il sicuro Francese, ei s’avvicina.
Quì fè cibar le genti, e poscia, d’alto
128 Parlando, confortolle al crudo assalto.
XVII.
Vedete là di mille furti pieno
Un campo più famoso assai che forte:
Che quasi un mar nel suo vorace seno
132 Tutte dell’Asia ha le ricchezze assorte.
Questo ora a voi (nè già potria con meno
Vostro periglio) espon benigna sorte.
L’arme, e i destrier d’ostro guerniti e d’oro
136 Preda fian vostra, e non difesa loro.
XVIII.
Nè questa è già quell’oste, onde la Persa
Gente, e la gente di Nicea fu vinta;
Perchè, in guerra sì lunga e sì diversa,
140 Rimasa n’è la maggior parte estinta:
E s’anco integra fosse, or tutta immersa
In profonda quiete, e d’arme è scinta.
Tosto s’opprime chi di sonno è carco:
144 Chè dal sonno alla morte è un picciol varco.
XIX.
Su su venite: io primo aprir la strada
Vuò, su i corpi languenti, entro ai ripari:
Ferir, da questa mia, ciascuna spada
148 E l’arti usar di crudeltate impari.
Oggi fia che di Cristo il regno cada:
Oggi libera l’Asia: oggi voi chiari.
Così gl’infiamma alle vicine prove:
152 Indi tacitamente oltre lor move.
XX.
Ecco tra via le sentinelle ei vede
Per l’ombra mista d’una incerta luce:
Nè ritrovar, come sicura fede
156 Avea, puote improvviso il saggio Duce.
Volgon quelle, gridando, indietro il piede,
Scorto che sì gran turba egli conduce:,
Sicchè la prima guardia è da lor desta,
160 Che, com’ può meglio, a guerreggiar s’appresta.
XXI.
Dan fiato allora ai barbari metalli
Gli Arabi, certi omai d’essere sentiti.
Van gridi orrendi al Cielo, e de’ cavalli
164 Col suon del calpestio misti i nitriti.
Gli alti monti muggir, muggir le valli,
E risposer gli abissi ai lor muggiti:
E la face innalzò di Flegetonte
168 Aletto, e ‘l segno diede a quei del monte.
XXII.
Corre innanzi il Soldano, e giunge a quella
Confusa ancora e inordinata guarda,
Rapido sì, che torbida procella
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