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Jerusalem Delivered

Page 134

by Torquato Tasso


  Il Soldan ch’è presente, e non infinge

  92 La generosa invidia onde egli è pieno,

  Disse: nè questa spada invan si cinge,

  Verravvi a paro, o poco dietro almeno.

  Ah, rispose Clorinda, andremo a questa

  96 Impresa tutti? e se tu vien, chi resta?

  XIII.

  Così gli disse; e con rifiuto altero

  Già s’apprestava a ricusarlo Argante:

  Ma ‘l Re il prevenne, e ragionò primiero

  100 A Soliman con placido sembiante:

  Ben sempre tu, magnanimo guerriero,

  Ne ti mostrasti a te stesso sembiante,

  Cui nulla faccia di periglio unquanco

  104 Sgomentò, nè mai fosti in guerra stanco.

  XIV.

  E so che, fuori andando, opre faresti

  Degne di te; ma sconvenevol parmi

  Che tutti usciate, e dentro alcun non resti

  108 Di voi che sete i più famosi in armi.

  Nemmen consentirei ch’andasser questi,

  Chè degno è il sangue lor che si risparmi,

  Se o men util tal opra, o mi paresse

  112 Che finita per altri esser potesse.

  XV.

  Ma poichè la gran torre, in sua difesa,

  D’ogn’intorno le guardie ha così folte;

  Che da poche mie genti esser offesa

  116 Non puote, e inopportuno è uscir con molte;

  La coppia che s’offerse all’alta impresa

  E in simil rischio si trovò più volte,

  Vada felice pur; ch’ella è ben tale,

  120 Che sola più che mille insieme vale.

  XVI.

  Tu, come al regio onor più si conviene,

  Con gli altri, prego, in su le porte attendi.

  E quando poi (chè n’ho sicura spene)

  124 Ritornino essi, e desti abbian gl’incendj:

  Se stuol nemico seguitando viene,

  Lui risospingi, e lor salva e difendi.

  Così l’un Re diceva; e l’altro cheto

  128 Rimaneva al suo dir, ma non già lieto.

  XVII.

  Soggiunse allora Ismeno: attender piaccia

  A voi, ch’uscir dovete, ora più tarda;

  Sinchè, di varie tempre, un misto i’ faccia

  132 Ch’alla machina ostil s’appigli e l’arda.

  Forse allora avverrà che parte giaccia

  Di quello stuol che la circonda e guarda.

  Ciò fu concluso; e in sua magion ciascuno

  136 Aspetta il tempo al gran fatto opportuno.

  XVIII.

  Depon Clorinda le sue spoglie inteste

  D’argento, e l’elmo adorno, e l’armi altere:

  E, senza piuma o fregio, altre ne veste

  140 (Infausto annunzio) rugginose e nere:

  Perocchè stima agevolmente in queste

  Occulta andar fra le nemiche schiere.

  È quivi Arsete eunuco il qual, fanciulla,

  144 La nudrì dalle fasce e dalla culla.

  XIX.

  E per l’orme di lei l’antico fianco

  D’ogn’intorno traendo, or la seguia.

  Vede costui l’arme cangiate, ed anco

  148 Del gran rischio s’accorge ove ella gía:

  E se n’affligge: e per lo crin, che bianco

  In lei servendo ha fatto, e per la pia

  Memoria de’ suo’ uficj istando, prega

  152 Che dall’impresa cessi: ed ella il nega.

  XX.

  Onde ei le dice alfin: poichè ritrosa

  Sì la tua mente nel suo mal s’indura,

  Che nè la stanca età, nè la pietosa

  156 Voglia, nè i preghi miei, nè il pianto cura;

  Ti spiegherò più oltre: e saprai cosa,

  Di tua condizion, che t’era oscura:

  Poi tuo desir ti guidi, o mio consiglio;

  160 Ei segue, ed ella innalza attenta il ciglio.

  XXI.

  Resse già l’Etiopia, e forse regge

  Senapo ancor, con fortunato impero:

  Il qual del figlio di Maria la legge

  164 Osserva, e l’osserva anco il popol nero.

  Quivi io Pagan fui servo, e fui tra gregge

  D’ancelle avvolto in femminil mestiero,

  Ministro fatto della regia moglie,

  168 Che bruna è sì, ma il bruno il bel non toglie.

  XXII.

  N’arde il marito, e dell’amore al foco

  Ben della gelosia s’agguaglia il gelo.

  Si va in guisa avanzando appoco appoco

  172 Nel tormentoso petto il folle zelo,

  Che da ogn’uom la nasconde; in chiuso loco

  Vorria celarla ai tanti occhj del Cielo.

  Ella, saggia ed umíl, di ciò che piace

  176 Al suo Signor, fa suo diletto e pace.

  XXIII.

  D’una pietosa istoria, e di devote

  Figure la sua stanza era dipinta.

  Vergine bianca il bel volto, e le gote

  180 Vermiglia, è quivi presso un drago avvinta.

  Con l’asta il mostro un cavalier percuote:

  Giace la fera nel suo sangue estinta.

  Quivi sovente ella s’atterra, e spiega

  184 Le sue tacite colpe, e piange e prega.

  XXIV.

  Ingravida frattanto, ed espon fuori

  (e tu fosti colei) candida figlia.

  Si turba; e degl’insoliti colori,

  188 Quasi d’un novo mostro, ha maraviglia.

  Ma perchè il Re conosce e i suoi furori,

  Celargli il parto alfin si riconsiglia:

  Ch’egli avria dal candor, che in te si vede,

  192 Argomentato in lei non bianca fede.

  XXV.

  Ed in tua vece una fanciulla nera

  Pensa mostrargli, poco innanzi nata.

  E perchè fu la torre, ove chius’era,

  196 Dalle donne e da me solo abitata;

  A me, che le fui servo e con sincera

  Mente l’amai, ti diè non battezzata.

  Nè già poteva allor battesmo darti:

  200 Chè l’uso nol sostien di quelle parti.

  XXVI.

  Piangendo, a me ti porse, e mi commise

  Ch’io lontana a nutrir ti conducessi.

  Chi può dire il suo affanno, e in quante guise

  204 Lagnossi, e raddoppiò gli ultimi amplessi?

  Bagnò i bacj di pianto, e fur divise

  Le sue querele da i singulti spessi.

  Levò alfin gli occhj, e disse: O Dio, che scerni

  208 L’opre più occulte, e nel mio cor t’interni:

  XXVII.

  Se immaculato è questo cor, se intatte

  Son queste membra e ‘l marital mio letto;

  Per me non prego, chè mille altre ho fatte

  212 Malvagità; son vile al tuo cospetto:

  Salva il parto innocente, al quale il latte

  Nega la madre del materno petto.

  Viva, e sol d’onestate a me somigli:

  216 L’esempio di fortuna altronde pigli.

  XXVIII.

  Tu, celeste guerrier, che la donzella

  Togliesti del serpente agli empj morsi;

  S’accesi ne’ tuo’ altari umil facella,

  220 S’auro o incenso odorato unqua ti porsi;

  Tu per lei prega sì, che fida ancella

  Possa in ogni fortuna a te raccorsi.

  Quì tacque, e ‘l cor le si rinchiuse e strinse,

  224 E di pallida morte si dipinse.

  XXIX.

  Io piangendo ti presi, e in breve cesta

  Fuor ti portai tra fiori e frondi ascosa:

  Ti celai da ciascun, chè nè di questa

  228 Diedi sospetto altrui, nè d’altra cosa.

  Me n’andai sconosciuto, e per foresta

  Camminando di piante orride ombrosa,

  Vidi una tigre, che minacce ed ire

  232 Avea negli occhj, incontro a me v
enire.

  XXX.

  Sovra un albero i’ salsi, e te su l’erba

  Lasciai; tanta paura il cor mi prese!Giunse l’orribil fera, e, la superba

  236 Testa volgendo, in te lo sguardo intese.

  Mansuefece, e raddolcío l’acerba

  Vista con atto placido e cortese.

  Lenta poi s’avvicina, e ti fa vezzi

  240 Con la lingua: e tu ridi e l’accarezzi.

  XXXI.

  Ed ischerzando seco, al fero muso

  La pargoletta man sicura stendi.

  Ti porge ella le mamme, e, come è l’uso

  244 Di nutrice, s’adatta, e tu le prendi.

  Intanto io miro timido e confuso,

  Come uom faria novi prodigj orrendi.

  Poichè sazia ti vede omai la belva

  248 Del suo latte, si parte e si rinselva:

  XXXII.

  Ed io giù scendo e ti ricolgo, e torno

  Là ‘ve prima fur volti i passi miei:

  E preso in picciol borgo alfin soggiorno,

  252 Celatamente ivi nutrir ti fei.

  Vi stetti insin che ‘l Sol, correndo intorno,

  Portò a’ mortali e dieci mesi e sei.

  Tu con lingua di latte anco snodavi

  256 Voci indistinte, e incerte orme segnavi.

  XXXIII.

  Ma sendo io colà giunto ove dechina

  L’etate omai cadente alla vecchiezza;

  Ricco e sazio dell’or che la Regina,

  260 Nel partir, diemmi con regale ampiezza;

  Da quella vita errante e peregrina

  Nella patria ridurmi ebbi vaghezza:

  E tra gli antichi amici in caro loco

  264 Viver, temprando il verno al proprio foco.

  XXXIV.

  Partomi, e ver l’Egitto, ove son nato,

  Te conducendo meco, il corso invio:

  E giungo ad un torrente, e riserrato

  268 Quinci da i ladri son, quindi dal rio.

  Che debbo far? te dolce peso amato

  Lasciar non voglio, e di campar desio.

  Mi getto a nuoto, ed una man ne viene

  272 Rompendo l’acqua, e te l’altra sostiene.

  XXXV.

  Rapidissimo è il corso, e in mezzo l’onda

  In se medesma si ripiega e gira;

  Ma giunto ove più volge e si profonda,

  276 In cerchio ella mi torce, e giù mi tira.

  Ti lascio allor; ma t’alza e ti seconda

  L’acqua, e secondo all’acqua il vento spira,

  E t’espon salva in su la molle arena;

  280 Stanco anelando io poi vi giungo appena.

  XXXVI.

  Lieto ti prendo: e poi la notte, quando

  Tutte in alto silenzio eran le cose,

  Vidi in sogno un guerrier che, minacciando,

  284 A me sul volto il ferro ignudo pose.

  Imperioso disse: io ti comando

  Ciò che la madre sua primier t’impose

  Che battezzi l’infante; ella è diletta

  288 Del Cielo, e la sua cura a me s’aspetta.

  XXXVII.

  Io la guardo e difendo: io spirto diedi

  Di pietate alle fere, e mente all’acque.

  Misero te, se al sogno tuo non credi

  292 Ch’è del Ciel messaggiero; e quì si tacque.

  Svegliaimi e sorsi, e di là mossi i piedi,

  Come del giorno il primo raggio nacque:

  Ma perchè mia fe vera, e l’ombre false

  296 Stimai, di tuo battesmo a me non calse,

  XXXVIII.

  Nè de i preghi materni; onde nudrita

  Pagana fosti, e ‘l vero a te celai.

  Crescesti, e, in arme valorosa e ardita,

  300 Vincesti il sesso e la natura assai:

  Fama e terre acquistasti: e qual tua vita

  Sia stata poscia, tu medesma il sai:

  E sai non men che servo insieme e padre

  304 Io t’ho seguita fra guerriere squadre.

  XXXIX.

  Jer poi su l’alba alla mia mente, oppressa

  D’alta quiete e simile alla morte,

  Nel sonno s’offerì l’imago stessa;

  308 Ma in più turbata vista, e in suon più forte,

  Ecco (dicea) fellon, l’ora s’appressa

  Che dee cangiar Clorinda e vita e sorte:

  Mia sarà mal tuo grado, e tuo fia il duolo.

  312 Ciò disse, e poi n’andò per l’aria a volo.

  XL.

  Or odi dunque tu, che ‘l Ciel minaccia

  A te, diletta mia, strani accidenti.

  Io non so: forse a lui vien che dispiaccia

  316 Ch’altri impugni la fe de’ suoi parenti:

  Forse è la vera fede. Ah giù ti piaccia

  Depor quest’arme e questi spirti ardenti.

  Quì tace e piagne: ed ella pensa e teme;

  320 Chè un altro simil sogno il cor le preme.

  XLI.

  Rasserenando il volto, alfin gli dice:

  Quella fe seguirò che vera or parmi:

  Che tu col latte già della nutrice

  324 Sugger mi festi, e che vuoi dubbia or farmi:

  Nè per temenza lascerò (nè lice

  A magnanimo cor) l’impresa e l’armi.

  Non se la morte, nel più fer sembiante

  328 Che sgomenti i mortali, avessi innante.

  XLII.

  Poscia il consola: e perchè il tempo giunge

  Ch’ella deve ad effetto il vanto porre;

  Parte, e con quel guerrier si ricongiunge

  332 Che si vuol seco al gran periglio esporre.

  Con lor s’aduna Ismeno, e instiga e punge

  Quella virtù che per se stessa corre:

  E lor porge di zolfo e di bitumi

  336 Due palle, e in cavo rame ascosi lumi.

  XLIII.

  Escon notturni, e piani, e per lo colle

  Uniti vanno a passo lungo e spesso;

  Tanto che a quella parte ove s’estolle

  340 La machina nemica omai son presso.

  Lor s’infiamman gli spirti, e ‘l cor ne bolle,

  Nè può tutto capir dentro se stesso.

  Gl’invita al foco, al sangue un fero sdegno.

  344 Grida la guardia, e lor dimanda il segno.

  XLIV.

  Essi van cheti innanzi; onde la guarda,

  All’arme all’arme in alto suon raddoppia.

  Ma più non si nasconde, e non è tarda

  348 Al corso allor la generosa coppia.

  In quel modo che fulmine o bombarda,

  Col lampeggiar, tuona in un punto e scoppia;

  Muovere, ed arrivar, ferir lo stuolo,

  352 Aprirlo, e penetrar, fu un punto solo.

  XLV.

  E forza è pur che, fra mill’arme e mille

  Percosse, il lor disegno alfin riesca;

  Scopriro i chiusi lumi, e le faville

  356 S’appreser tosto all’accensibil’ esca,

  Ch’ai legni poi le avvolse, e compartille.

  Chi può dir come serpa, e come cresca

  Già da più lati il foco? e come folto

  360 Turbi il fumo alle stelle il puro volto?

  XLVI.

  Vedi globi di fiamme oscure e miste,

  Fra le rote del fumo, in Ciel girarsi.

  Il vento soffia, e vigor fa ch’acquiste

  364 L’incendio, e in un raccolga i fochi sparsi.

  Fere il gran lume con terror le viste

  De’ Franchi, e tutti son presti ad armarsi.

  La mole immensa e sì temuta in guerra,

  368 Cade; e breve ora opre sì lunghe atterra.

  XLVII.

  Due squadre de’ Cristiani intanto al loco

  Dove sorge l’incendio accorron pronte.

  Minaccia Argante: io spegnerò quel foco

  372 Col vostro sangue, e volge lor la fronte.

  Pur ristretto a Clorinda appoco appoco

  Cede, e raccoglie i passi a sommo
il monte.

  Cresce più che torrente a lunga pioggia

  376 La turba, e li rincalza, e con lor poggia.

  XLVIII.

  Aperta è l’aurea porta, e quivi tratto

  È il Re, ch’armato il popol suo circonda,

  Per raccorre i guerrier da sì gran fatto,

  380 Quando al tornar fortuna abbian seconda.

  Saltano i due sul limitare, e ratto

  Diretro ad essi il Franco stuol v’inonda.

  Ma l’urta e scaccia Solimano: e chiusa

  384 È poi la porta, e sol Clorinda esclusa.

  XLIX.

  Sola esclusa ne fu, perchè in quell’ora

  Ch’altri serrò le porte, ella si mosse:

  E corse, ardente e incrudelita, fuora

  388 A punir Arimon che la percosse.

  Punillo; e ‘l fero Argante avvisto ancora

  Non s’era ch’ella sì trascorsa fosse:

  Chè la pugna e la calca e l’aer denso

  392 Ai cor togliea la cura, agli occhj il senso.

  L.

  Ma poi che intepidì la mente irata

  Nel sangue del nemico, e in se rivenne,

  Vide chiuse le porte, e intorniata

  396 Sè da’ nemici: e morta allor si tenne.

  Pur veggendo ch’alcuno in lei non guata,

  Nov’arte di salvarsi le sovvenne.

  Di lor gente s’infinge, e fra gl’ignoti

  400 Cheta s’avvolge; e non è chi la noti.

  LI.

  Poi, come lupo tacito s’imbosca

  Dopo occulto misfatto, e si desvia:

  Dalla confusion, dall’aura fosca

  404 Favorita e nascosa ella sen gía.

  Solo Tancredi avvien che lei conosca.

  Egli quivi è sorgiunto alquanto pria;

  Vi giunse allor ch’essa Arimone uccise:

  408 Vide, e segnolla, e dietro a lei si mise.

  LII.

  Vuol nell’armi provarla: un uom la stima

  Degno, a cui sua virtù si paragone.

  Va girando colei l’alpestre cima

  412 Verso altra porta, ove d’entrar dispone.

  Segue egli impetuoso; onde assai prima

  Che giunga, in guisa avvien che d’armi suone

  Ch’ella si volge, e grida: o tu, chè porte,

  416 Chè corri sì? Risponde: guerra, e morte.

  LIII.

  Guerra e morte avrai, disse, io non rifiuto

  Darlati, se la cerchi: e ferma attende.

  Non vuol Tancredi, che pedon veduto

  420 Ha il suo nemico, usar cavallo, e scende.

  E impugna l’uno e l’altro il ferro acuto,

  Ed aguzza l’orgoglio, e l’ire accende.

  E vansi a ritrovar non altrimenti

  424 Che due tori gelosi, e d’ira ardenti.

  LIV.

  Degne d’un chiaro Sol, degne d’un pieno

  Teatro, opre sarian sì memorande.

  Notte, che nel profondo oscuro seno

  428 Chiudesti e nell’oblio fatto sì grande,

  Piacciati ch’io ne ‘l tragga, e in bel sereno

 

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