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Jerusalem Delivered

Page 139

by Torquato Tasso


  Questi il Sol poi raffina, e il licor molle

  304 Stringe in candide masse, e in auree zolle.

  XXXIX.

  E miran d’ogni intorno al ricco fiume

  Di care pietre il margine dipinto;

  Onde, come a più fiaccole s’allume,

  308 Splende quel loco, e ‘l fosco orror n’è vinto.

  Quivi scintilla con ceruleo lume

  Il celeste zaffiro, ed il giacinto:

  Vi fiammeggia il carbonchio, e luce il saldo

  312 Diamante, e lieto ride il bel smeraldo.

  XL.

  Stupidi i Guerrier vanno, e nelle nove

  Cose sì tutto il lor pensier s’impiega,

  Che non fanno alcun motto; alfin pur move

  316 La voce Ubaldo, e la sua scorta prega:

  Deh, Padre, dinne ove noi siamo: ed ove

  Ci guidi: e tua condizion ne spiega;

  Ch’io non so se ‘l ver miri, o sogno od ombra;

  320 Così alto stupore il cor m’ingombra.

  XLI.

  Risponde: sete voi nel grembo immenso

  Della terra che tutto in se produce.

  Nè già potreste penetrar nel denso

  324 Delle viscere sue senza me duce.

  Vi scorgo al mio palagio, il qual accenso

  Tosto vedrete di mirabil luce.

  Nacqui io Pagan; ma poi nelle sante acque

  328 Rigenerarmi a Dio per grazia piacque.

  XLII.

  Nè in virtù fatte son d’Angioli stigj

  L’opere mie maravigliose e conte.

  Tolga Dio ch’usi note o suffumigj,

  332 Per isforzar Cocíto, o Flegetonte.

  Ma spiando men vo da’ lor vestigj

  Qual’ in sè virtù celi o l’erba, o ‘l fonte:

  E gli altri arcani di Natura ignoti

  336 Contemplo, e delle stelle i varj moti.

  XLIII.

  Perocchè non ognor lunge dal Cielo

  Tra sotterranei chiostri è la mia stanza;

  Ma sul Libano spesso, e sul Carmelo

  340 In aerea magion fo dimoranza.

  Ivi spiegansi a me, senza alcun velo,

  Venere e Marte in ogni lor sembianza:

  E veggio come ogni altra o presto o tardi

  344 Roti: o benigna o minaccevol guardi.

  XLIV.

  E sotto i piè mi veggio or folte or rade

  Le nubi, or negre ed or pinte da Iri:

  E generar le piogge e le rugiade

  348 Risguardo: e come il vento obliquo spiri:

  Come il folgor s’infiammi: e per quai strade

  Tortuose, in giù spinto, ei si raggiri:

  Scorgo comete, e fochi altri sì presso,

  352 Ch’io soleva invaghir già di me stesso.

  XLV.

  Di me medesmo fui pago cotanto,

  Ch’io stimai già che il mio saper misura

  Certa fosse e infallibile di quanto

  356 Può far l’alto fattor della Natura.

  Ma quando il vostro Piero al fiume santo

  M’asperse il crine, e lavò l’alma impura,

  Drizzò più su il mio guardo, e ‘l fece accorto;

  360 Ch’ei per se stesso è tenebroso e corto.

  XLVI.

  Conobbi allor ch’augel notturno al Sole

  È nostra mente ai rai del primo vero:

  E di me stesso risi e delle fole

  364 Che già cotanto insuperbir mi fero.

  Ma pur seguito ancor, come egli vuole,

  Le solite arti, e l’uso mio primiero.

  Ben sono in parte altr’uom da quel ch’io fui:

  368 Ch’or da lui pendo, e mi rivolgo a lui;

  XLVII.

  E in lui m’acqueto; egli comanda e insegna,

  Mastro insieme e signor sommo e sovrano:

  Nè già per nostro mezzo oprar disdegna

  372 Cose degne talor della sua mano.

  Or sarà cura mia ch’al campo vegna

  L’invitto eroe dal suo carcer lontano;

  Ch’ei la m’impose, e già gran tempo aspetto

  376 Il venir vostro, a me per lui predetto.

  XLVIII.

  Così con lor parlando al loco viene

  Ov’egli ha il suo soggiorno e ‘l suo riposo.

  Questo è in forma di speco, e in se contiene

  380 Camare e sale, grande e spazioso.

  E ciò che nudre entro le ricche vene

  Di più chiaro la terra e prezioso,

  Splende ivi tutto: ed ei n’è in guisa ornato,

  384 Ch’ogni suo fregio è non fatto, ma nato.

  XLIX.

  Non mancar quì cento ministri e cento

  Che accorti e pronti a servir gli osti foro.

  Nè poi in mensa magnifica d’argento

  388 Mancar gran vasi, e di cristallo, e d’oro.

  Ma quando sazio il natural talento

  Fu de’ cibi, e la sete estinta in loro:

  Tempo è ben, disse ai cavalieri il mago,

  392 Che il maggior desir vostro omai sia pago.

  L.

  Quivi ricominciò: l’opre e le frodi

  Note in parte a voi son dell’empia Armida:

  Come ella al campo venne, e con quai modi

  396 Molti guerrier ne trasse, e lor fu guida.

  Sapete ancor che di tenaci nodi

  Gli avvinse poscia, albergatrice infida:

  E ch’indi a Gaza gl’inviò con molti

  400 Custodi, e che tra via furon disciolti.

  LI.

  Or vi narrerò quel ch’appresso occorse;

  Vera istoria, da voi non anco intesa.

  Poichè la maga rea vide ritorse

  404 La preda sua, già con tant’arte presa,

  Ambe le mani per dolor si morse;

  E fra se disse, di disdegno accesa:

  Ah vero unqua non fia, che d’aver tanti

  408 Miei prigion liberati egli si vanti:

  LII.

  Se gli altri sciolse, ei serva, ed ei sostegna

  Le pene altrui serbate, e ‘l lungo affanno.

  Nè questo anco mi basta; i’ vuò che vegna

  412 Sugli altri tutti universale il danno.

  Così tra se dicendo, ordir disegna

  Questo, ch’or udirete, iniquo inganno.

  Viensene al loco ove Rinaldo vinse

  416 In pugna i suoi guerrieri, e parte estinse.

  LIII.

  Quivi egli avendo l’arme sue deposto,

  Indosso quelle d’un Pagan si pose:

  Forse perchè bramava irsene ascosto

  420 Sotto insegne men note e men famose.

  Prese l’armi la maga, e in esse tosto

  Un tronco busto avvolse, e poi l’espose:

  L’espose in riva a un fiume, ove doveva

  424 Stuol de’ Franchi arrivare; e ‘l prevedeva.

  LIV.

  E questo antiveder potea ben ella,

  Che mandar mille spie solea d’intorno;

  Onde spesso del campo avea novella,

  428 E s’altri indi partiva, o fea ritorno;

  Oltrechè con gli spirti anco favella

  Sovente, e fa con lor lungo soggiorno.

  Collocò dunque il corpo morto in parte

  432 Molto opportuna a sua ingannevol’arte.

  LV.

  Non lunge un sagacissimo valletto

  Pose, di panni pastorai vestito:

  E impose lui ciò ch’esser fatto o detto

  436 Fintamente doveva; e fu eseguito.

  Questi parlò co’ vostri, e di sospetto

  Sparse quel seme in lor, ch’indi nutrito

  Fruttò risse e discordie, e quasi alfine

  440 Sediziose guerre e cittadine.

  LVI.

  Che fu, com’ella disegnò, creduto

  Per opra del Buglion Rinaldo ucciso:

  Benchè alfine il sospetto, a torto avuto,

  444 Del ver si dileguasse al primo avviso.

  Cotal d’Armida
l’artificio astuto

  Primieramente fu qual io diviso.

  Or udirete ancor come seguisse

  448 Poscia Rinaldo, e quel ch’indi avvenisse.

  LVII.

  Qual cauta cacciatrice Armida aspetta

  Rinaldo al varco: ei sull’Oronte giunge,

  Ove un rio si dirama, e, un’isoletta

  452 Formando, tosto a lui si ricongiunge:

  E in su la riva una colonna eretta

  Vede, e un picciol battello indi non lunge.

  Fissa egli tosto gli occhj al bel lavoro

  456 Del bianco marmo, e legge in lettre d’oro:

  LVIII.

  O chiunque tu sia, che voglia o caso

  Peregrinando adduce a queste sponde;

  Maraviglia maggior l’orto o l’occaso

  460 Non ha di ciò che l’isoletta asconde.

  Passa, se vuoi vederla: è persuaso

  Tosto l’incauto a girne oltra quell’onde.

  E perchè mal capace era la barca,

  464 Gli scudieri abbandona, ed ei sol varca.

  LIX.

  Come è là giunto, cupido e vagante

  Volge intorno lo sguardo, e nulla vede,

  Fuorch’antri, ed acque, e fiori, ed erbe, e piante;

  468 Onde quasi schernito esser si crede.

  Ma pur quel loco è così lieto, e in tante

  Guise l’alletta, ch’ei si ferma e siede

  E disarma la fronte, e la ristaura

  472 Al soave spirar di placid’aura.

  LX.

  Il fiume gorgogliar frattanto udío

  Con nuovo suono, e là con gli occhj corse;

  E muover vide un’onda in mezzo al rio

  476 Che in se stessa si volse, e si ritorse:

  E quinci alquanto d’un crin biondo uscío,

  E quinci di donzella un volto sorse,

  E quinci il petto, e le mammelle, e de la

  480 Sua forma infin dove vergogna cela.

  LXI.

  Così dal palco di notturna scena

  O Ninfa o Dea tarda sorgendo appare.

  Questa, benchè non sia vera Sirena

  484 Ma sia magica larva, una ben pare

  Di quelle che già presso alla Tirrena

  Piaggia abitar l’insidioso mare:

  Nè men ch’in viso bella, in suono è dolce:

  488 E così canta, e ‘l Cielo e l’aure molce.

  LXII.

  O giovinetti, mentre Aprile e Maggio

  V’ammantan di fiorite e verdi spoglie;

  Di gloria e di virtù fallace raggio

  492 La tenerella mente ah non v’invoglie.

  Solo chi segue ciò che piace è saggio,

  E in sua stagion degli anni il frutto coglie;

  Questo grida natura: or dunque voi

  496 Indurerete l’alma ai detti suoi?

  LXIII.

  Folli, perchè gettate il caro dono,

  Che breve è sì, di vostra età novella?

  Nomi senza soggetto, idoli sono

  500 Ciò che pregio e valore il mondo appella.

  La fama che invaghisce a un dolce suono

  Voi superbi mortali, e par sì bella,

  È un Eco, un sogno, anzi del sogno un’ombra

  504 Ch’ad ogni vento si dilegua e sgombra.

  LXIV.

  Goda il corpo sicuro, e in lieti oggetti

  L’alma tranquilla appaghi i sensi frali:

  Oblii le noje andate, e non affretti

  508 Le sue miserie in aspettando i mali.

  Nulla curi, se ‘l Ciel tuoni o saetti:

  Minacci egli a sua voglia, e infiammi strali.

  Questo è saper, questa è felice vita:

  512 Sì l’insegna natura, e sì l’addita.

  LXV.

  Sì canta l’empia; e ‘l giovinetto al sonno

  Con note invoglia sì soavi e scorte.

  Quel serpe a poco a poco, e si fa donno

  516 Sovra i sensi di lui possente e forte.

  Nè i tuoni omai destar, non ch’altri, il ponno

  Da quella queta immagine di morte.

  Esce d’aguato allor la falsa maga,

  520 E gli va sopra, di vendetta vaga.

  LXVI.

  Ma quando in lui fissò lo sguardo, e vide

  Come placido in vista egli respira:

  E ne’ begli occhj un dolce atto che ride,

  524 Benchè sian chiusi, (or che fia s’ei gli gira?)

  Pria s’arresta sospesa: e gli s’asside

  Poscia vicina, e placar sente ogn’ira

  Mentre il risguarda: e in su la vaga fronte

  528 Pende omai sì, che par Narciso al fonte.

  LXVII.

  E quei ch’ivi sorgean vivi sudori

  Accoglie lievemente in un suo velo:

  E, con un dolce ventilar, gli ardori

  532 Gli va temprando dell’estivo Cielo.

  Così (chi ‘l crederia?) sopíti ardori

  D’occhj nascosi distemprar quel gelo

  Che s’indurava al cor più che diamante,

  536 E di nemica ella divenne amante.

  LXVIII.

  Di ligustri, di giglj, e delle rose

  Le quai fiorian per quelle piaggie amene,

  Con nov’arte congiunte, indi compose

  540 Lente ma tenacissime catene.

  Queste al collo, alle braccia, ai piè gli pose:

  Così l’avvinse, e così preso il tiene:

  Quinci, mentre egli dorme, il fa riporre

  544 Sovra un suo carro, e ratta il Ciel trascorre.

  LXIX.

  Nè già ritorna di Damasco al regno,

  Nè dove ha il suo castello in mezzo all’onde;

  Ma, ingelosita di sì caro pegno

  548 E vergognosa del suo amor, s’asconde

  Nell’Oceano immenso, ove alcun legno

  Rado o non mai va dalle nostre sponde,

  Fuor tutti i nostri lidi: e quivi eletta

  552 Per solinga sua stanza è un’isoletta.

  LXX.

  Un’isoletta la qual nome prende,

  Con le vicine sue, dalla Fortuna.

  Quinci ella in cima a una montagna ascende

  556 Disabitata, e d’ombre oscura e bruna.

  E per incanto a lei nevose rende

  Le spalle, e i fianchi: e senza neve alcuna

  Gli lascia il capo verdeggiante e vago:

  560 E vi fonda un palagio appresso un lago;

  LXXI.

  Ove, in perpetuo April, molle amorosa

  Vita seco ne mena il suo diletto.

  Or da così lontana e così ascosa

  564 Prigion trar voi dovete il giovinetto:

  E vincer della timida e gelosa

  Le guardie, ond’è difeso il monte e ‘l tetto.

  E già non mancherà chi là vi scorga,

  568 E chi per l’alta impresa arme vi porga.

  LXXII.

  Troverete, del fiume appena sorti,

  Donna giovin di viso, antica d’anni:

  Ch’ai lunghi crini in su la fronte attorti

  572 Fia nota, ed al color vario de’ panni.

  Questa per l’alto mar fia che vi porti

  Più ratta che non spiega aquila i vanni,

  Più che non vola il folgore: nè guida

  576 La troverete al ritornar men fida.

  LXXIII.

  A piè del monte, ove la maga alberga,

  Sibilando strisciar novi Pitoni,

  E cinghiali arricciar l’aspre lor terga,

  580 Ed aprir la gran bocca orsi e leoni

  Vedrete; ma scuotendo una mia verga,

  Temeranno appressarsi ove ella suoni.

  Poi via maggior (se dritto il ver s’estima)

  584 Troverete il periglio in su la cima.

  LXXIV.

  Un fonte sorge in lei che vaghe e monde

  Ha l’acque sì, che i riguardanti asseta;

  Ma dentro ai freddi suoi cristalli asconde

  588 Di tosco estran malva
gità secreta;

  Chè un picciol sorso di sue lucide onde

  Inebria l’alma tosto, e la fa lieta:

  Indi a rider uom muove, e tanto il riso

  592 S’avanza alfin, ch’ei ne rimane ucciso.

  LXXV.

  Lunge la bocca disdegnosa e schiva

  Torcete voi dall’acque empie omicide

  Nè le vivande poste in verde riva

  596 V’allettin poi, nè le donzelle infide:

  Chè voce avran piacevole e lasciva,

  E dolce aspetto che lusinga e ride.

  Ma voi, gli sguardi e le parole accorte

  600 Sprezzando, entrate pur nelle alte porte.

  LXXVI.

  Dentro è di muri inestricabil cinto,

  Che mille torce in se confusi giri:

  Ma in breve foglio io ve ‘l darò distinto

  604 Sì che nessun error fia che v’aggiri.

  Siede in mezzo un giardin del laberinto,

  Che par che da ogni fronde amore spiri.

  Quivi in grembo alla verde erba novella

  608 Giacerà il cavaliero e la donzella.

  LXXVII.

  Ma come essa, lasciando il caro amante,

  In altra parte il piede avrà rivolto;

  Vuò ch’a lui vi scopriate, e d’adamante

  612 Un scudo, ch’io darò, gli alziate al volto;

  Sicch’egli vi si specchi, e ‘l suo sembiante

  Veggia, e l’abito molle onde fu involto:

  Chè a tal vista potrà vergogna e sdegno

  616 Scacciar dal petto suo l’amor indegno.

  LXXVIII.

  Altro che dirvi omai nulla m’avanza,

  Se non ch’assai sicuri ir ne potrete,

  E penetrar dell’intricata stanza

  620 Nelle più interne parti e più secrete:

  Perchè non fia che magica possanza

  A voi ritardi il corso, o ‘l passo viete:

  Nè potrà pur (cotal virtù vi guida!)

  624 Il giunger vostro antiveder Armida.

  LXXIX.

  Nè men sicura dagli alberghi suoi

  L’uscita vi sarà poscia e ‘l ritorno.

  Ma giunge omai l’ora del sonno, e voi

  628 Sorger diman dovete a par col giorno.

  Così lor disse; e gli menò dipoi

  Ove essi avean la notte a far soggiorno.

  Ivi lasciando lor lieti e pensosi,

  632 Si ritrasse il buon vecchio a’ suoi riposi.

  Canto quindicesimo

  ARGOMENTO.

  Dal Mago instrutti, i duo guerrier sen vanno

  Dove il pino fatal gli attende in porto:

  Spiegan la vela, e pria del gran Tiranno

  D’Egitto i legni e l’apparecchio han scorto:

  Poi tale il vento, e tale il nocchiero hanno,

  Che ben lungo viaggio estiman corto.

  All’Isola remota alfine spinti,

  Da lor le forze sono e i vezzi vinti.

  CANTO DECIMOQUINTO.

  Già richiamava il bel nascente raggio

  All’opre ogni animal che in terra alberga;

 

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