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Jerusalem Delivered

Page 149

by Torquato Tasso


  Ito se n’è, che di David s’appella:

  E quì fa de’ guerrier l’avanzo accorre,

  308 E sbarra intorno e questa strada e quella:

  E ‘l Tiranno Aladino anco vi corre.

  Come il Soldan lui vede, a lui favella:

  Vieni, o famoso Re, vieni, e là sovra

  312 Alla rocca fortissima ricovra.

  XL.

  Chè dal furor delle nemiche spade

  Guardar vi puoi la tua salute, e ‘l regno.

  Oimè, risponde, oimè, che la Cittade

  316 Strugge dal fondo suo barbaro sdegno:

  E la mia vita, e ‘l nostro imperio cade.

  Vissi, e regnai: non vivo or più, nè regno.

  Ben si può dir: noi fummo; a tutti è giunto

  320 L’ultimo dì, l’inevitabil punto.

  XLI.

  Ov’è, Signor, la tua virtute antica?

  (Disse il Soldan tutto cruccioso allora)

  Tolgaci i regni pur sorte nemica;

  324 Chè ‘l regal pregio è nostro, e in noi dimora.

  Ma colà dentro omai dalla fatica

  Le stanche e gravi tue membra ristora.

  Così gli parla; e fa che si raccoglia

  328 Il vecchio Re nella guardata soglia.

  XLII.

  Egli ferrata mazza a due man prende,

  E si ripon la fida spada al fianco.

  E stassi al varco intrepido, e difende

  332 Il chiuso delle strade al popol Franco.

  Eran mortali le percosse orrende:

  Quella che non uccide, atterra almanco.

  Già fugge ogn’un dalla sbarrata piazza,

  336 Dove appressar vede l’orribil mazza.

  XLIII.

  Ecco, da fera compagnia seguíto,

  Sopraggiungeva il Tolosan Raimondo.

  Al periglioso passo il vecchio ardito

  340 Corse, e sprezzò di quei gran colpi il pondo.

  Primo ei ferì; ma invano ebbe ferito:

  Non ferì invano il feritor secondo;

  Chè in fronte il colse, e l’atterrò col peso

  344 Supin, tremante, a braccia aperte, e steso.

  XLIV.

  Finalmente ritorna anco ne’ vinti

  La virtù che ‘l timore avea fugata:

  E i Franchi vincitori o son rispinti,

  348 O pur caggiono uccisi in su l’entrata.

  Ma il Soldan, che giacere infra gli estinti

  Il tramortito duce ai piè si guata,

  Grida ai suoi cavalier: costui sia tratto

  352 Dentro alle sbarre, e prigionier sia fatto.

  XLV.

  Si movon quegli ad eseguir l’effetto;

  Ma trovan dura e faticosa impresa:

  Perchè non è d’alcun de’ suoi negletto

  356 Raimondo, e corron tutti in sua difesa.

  Quinci furor, quindi pietoso affetto

  Pugna: nè vil cagione è di contesa.

  Di sì grand’uom la libertà, la vita,

  360 Questi a guardar, quegli a rapir invita.

  XLVI.

  Pur vinto avrebbe a lungo andar la prova

  Il Soldano ostinato alla vendetta;

  Ch’alla fulminea mazza oppor non giova

  364 O doppio scudo, o tempra d’elmo eletta:

  Ma grande aita, a’ suoi nemici, e nova

  Di qua di là vede arrivare in fretta:

  Chè da’ due lati opposti, in un sol punto,

  368 Il sopran Duce e ‘l gran Guerriero è giunto.

  XLVII.

  Come pastor quando, fremendo intorno

  Il vento e i tuoni, e balenando i lampi,

  Vede oscurar di mille nubi il giorno,

  372 Ritrae la greggia dagli aperti campi:

  E sollecito cerca alcun soggiorno

  Ove l’ira del Ciel sicuro scampi;

  Ei col grido indrizzando e con la verga

  376 Le mandre innanzi, agli ultimi s’atterga;

  XLVIII.

  Così il Pagan, che già venir sentía

  L’irreparabil turbo e la tempesta,

  Che di fremiti orrendi il Ciel feria,

  380 D’arme ingombrando e quella parte e questa;

  Le custodite genti innanzi invia

  Nella gran torre, ed egli ultimo resta.

  Ultimo parte, e sì cede al periglio,

  384 Ch’audace appare in provvido consiglio.

  XLIX.

  Pur a fatica avvien che si ripari

  Dentro alle porte, e le riserra appena;

  Chè già, rotte le sbarre, ai limitari

  388 Rinaldo vien, nè quivi anco s’affrena.

  Desio di superar chi non ha pari

  In opra d’arme, e giuramento il mena:

  Chè non oblia, che in voto egli promise

  392 Di dar morte a colui che ‘l Dano uccise.

  L.

  E ben allor allor l’invitta mano

  Tentato avria l’inespugnabil muro:

  Nè forse colà dentro era il Soldano

  396 Dal fatal suo nemico assai sicuro;

  Ma già suona a ritratta il Capitano:

  Già l’orizonte d’ogn’intorno è scuro.

  Goffredo alloggia nella terra, e vuole

  400 Rinnovar poi l’assalto al novo Sole.

  LI.

  Diceva ai suoi, lietissimo in sembianza,

  Favorito ha il gran Dio l’armi Cristiane:

  Fatto è il sommo de’ fatti, e poco avanza

  404 Dell’opra, e nulla del timor rimane.

  La torre (estrema, e misera speranza

  Degl’infedeli) espugnerem dimane.

  Pietà frattanto a confortar v’inviti,

  408 Con sollecito amor, gli egri e i feriti.

  LII.

  Ite, e curate quei c’han fatto acquisto

  Di questa patria a noi col sangue loro.

  Ciò più conviensi ai cavalier di Cristo,

  412 Che desio di vendetta o di tesoro.

  Troppo, ahi troppo di strage oggi s’è visto,

  Troppa in alcuni avidità dell’oro.

  Rapir più oltra, e incrudelir i’ vieto.

  416 Or divulghin le trombe il mio divieto.

  LIII.

  Tacque: e poi se n’andò là dove il Conte

  Riavuto dal colpo anco ne geme.

  Nè Soliman con meno ardita fronte

  420 Ai suoi ragiona, e ‘l duol nell’alma preme:

  Siate, o compagni, di Fortuna all’onte

  Invitti, insin che verde è fior di speme:

  Chè sotto alta apparenza di fallace

  424 Spavento, oggi men grave il danno giace.

  LIV.

  Prese i nemici han sol le mura e i tetti

  E ‘l volgo umil, non la Cittade han presa:

  Chè nel capo del Re, ne’ vostri petti,

  428 Nelle man vostre è la Città compresa.

  Veggio il Re salvo, e salvi i suoi più eletti:

  Veggio che ne circonda alta difesa.

  Vano trofeo d’abbandonata terra

  432 Abbiansi i Franchi, alfin perdran la guerra.

  LV.

  E certo i’ son che perderanla alfine;

  Chè nella sorte prospera insolenti

  Fian volti agli omicidj, alle rapine,

  436 Ed agl’ingiuriosi abbracciamenti:

  E saran di leggier tra le ruine,

  Tra gli stupri e le prede oppressi e spinti,

  Se in tanta tracotanza omai sorgiunge

  440 L’oste d’Egitto: e non puote esser lunge.

  LVI.

  Intanto noi signoreggiar co’ sassi

  Potrem della Città gli alti edificj:

  Ed ogni calle, onde al Sepolcro vassi,

  444 Torran le nostre machine ai nemici.

  Così, vigor porgendo ai cor già lassi,

  La speme rinnovò negl’infelici.

  Or mentre quì tai cose eran passate,

  448 Errò Vafrin tra mille schiere armate.

  LVII.


  All’esercito avverso eletto in spia,

  Già declinando il Sol, partì Vafrino:

  E corse oscura e solitaria via

  452 Notturno e sconosciuto peregrino.

  Ascalona passò, che non uscia

  Dal balcon d’Oriente anco il mattino.

  Poi, quando è nel meriggio il solar lampo,

  456 A vista fu del poderoso campo.

  LVIII.

  Vide tende infinite, e ventilanti

  Stendardi in cima azzurri e persi e gialli;

  E tante udì lingue discordi, e tanti

  460 Timpani e corni e barbari metalli,

  E voci di cammelli, e d’elefanti,

  Tra ‘l nitrir de’ magnanimi cavalli,

  Che fra se disse: quì l’Africa tutta

  464 Translata viene, e quì l’Asia è condutta.

  LIX.

  Mira egli alquanto pria come sia forte

  Del campo il sito, e qual vallo il circonde.

  Poscia non tenta vie furtive e torte:

  468 Nè dal frequente popolo s’asconde;

  Ma, per dritto sentier, tra regie porte

  Trapassa, ed or dimanda ed or risponde.

  A dimande a risposte astute e pronte

  472 Accoppia baldanzosa audace fronte.

  LX.

  Di qua di là sollecito s’aggira

  Per le vie, per le piazze, e per le tende.

  I guerrier, i destrier, l’arme rimira;

  476 L’arti, e gli ordini osserva, e i nomi apprende.

  Nè di ciò pago, a maggior cose aspira:

  Spia gli occulti disegni, e parte intende.

  Tanto s’avvolge, e così destro e piano,

  480 Ch’adito s’apre al padiglion soprano.

  LXI.

  Vede, mirando quì, sdruscita tela,

  Ond’ha varco la voce, onde si scerne:

  Che là proprio risponde, ove son de la

  484 Stanza regal le ritirate interne:

  Sicchè i secreti del signor mal cela

  Ad uom ch’ascolti dalle parti esterne.

  Vafrin vi guata, e par ch’ad altro intenda,

  488 Come sia cura sua conciar la tenda.

  LXII.

  Stavasi il Capitan la testa ignudo,

  Le membra armato, e con purpureo ammanto.

  Lunge due paggj avean l’elmo e lo scudo.

  492 Preme egli un’asta, e vi s’appoggia alquanto.

  Guardava un uom di torvo aspetto e crudo,

  Membruto, ed alto, il qual gli era da canto.

  Vafrino è attento, e di Goffredo a nome

  496 Parlar sentendo, alza gli orecchj al nome.

  LXIII.

  Parla il Duce a colui: dunque sicuro

  Sei così tu di dar morte a Goffredo?

  Risponde quegli: io sonne, e in corte giuro

  500 Non tornar mai, se vincitor non riedo.

  Preverrò ben color che meco furo

  Al congiurare: e premio altro non chiedo,

  Se non ch’io possa un bel trofeo dell’armi

  504 Drizzar nel Cairo, e sottopor tai carmi:

  LXIV.

  Queste arme in guerra al Capitan Francese,

  Distruggitor dell’Asia, Ormondo trasse,

  Quando gli trasse l’alma; e le sospese,

  508 Perchè memoria ad ogni età ne passe.

  Non fia (l’altro dicea) che ‘l Re cortese

  L’opera grande inonorata lasse.

  Ben ei darà ciò che per te si chiede;

  512 Ma congiunto l’avrai d’alta mercede.

  LXV.

  Or apparecchia pur l’armi mentite:

  Chè ‘l giorno omai della battaglia è presso.

  Son, rispose, già preste; e quì finite

  516 Queste parole, e ‘l Duce tacque, ed esso.

  Restò Vafrino, alle gran cose udite,

  Sospeso e dubbio, e rivolgea in se stesso

  Qual’arti di congiura, e quali sieno

  520 Le mentite arme, e nol comprese appieno.

  LXVI.

  Indi partissi; e quella notte intera

  Desto passò, ch’occhio serrar non volse.

  Ma, quando poi di novo ogni bandiera

  524 All’aure mattutine il campo sciolse,

  Anch’ei marciò con l’altra gente in schiera:

  Fermossi anch’egli ov’ella albergo tolse:

  E pur anco tornò di tenda in tenda

  528 Per udir cosa, onde il ver meglio intenda.

  LXVII.

  Cercando trova in sede alta e pomposa

  Fra cavalieri Armida, e fra donzelle:

  Che stassi in se romíta, e sospirosa

  532 Fra se co’ suoi pensier par che favelle.

  Su la candida man la guancia posa,

  E china a terra le amorose stelle.

  Non sa se pianga o no: ben può vederle

  536 Umidi gli occhj, e gravidi di perle.

  LXVIII.

  Vedele incontra il fero Adrasto assiso

  Che par ch’occhio non batta e che non spiri;

  Tanto da lei pendea: tanto in lei fiso

  540 Pasceva i suoi famelici desiri!

  Ma Tisaferno, or l’uno or l’altro in viso

  Guardando, or vien che brami, or che s’adiri:

  E segna il mobil volto or di colore

  544 Di rabbioso disdegno, ed or d’amore.

  LXIX.

  Scorge poscia Altamor che, in cerchio accolto

  Fra le donzelle, alquanto era in disparte.

  Non lascia il desir vago a freno sciolto;

  548 Ma gira gli occhj cupidi con arte.

  Volge un guardo alla mano, uno al bel volto:

  Talora insidia più guardata parte:

  E là s’interna ove mal cauto apria,

  552 Fra due mamme, un bel vel secreta via.

  LXX.

  Alza alfin gli occhj Armida, e pur alquanto

  La bella fronte sua torna serena;

  E repente fra i nuvoli del pianto

  556 Un soave sorriso apre, e balena.

  Signor, dicea, membrando il vostro vanto,

  L’anima mia puote scemar la pena:

  Chè d’esser vendicata in breve aspetta:

  560 E dolce è l’ira in aspettar vendetta.

  LXXI.

  Risponde l’Indian: la fronte mesta

  Deh, per Dio, rasserena, e ‘l duolo alleggia:

  Ch’assai tosto avverrà che l’empia testa

  564 Di quel Rinaldo a piè tronca ti veggia:

  O menarolti prigionier con questa

  Ultrice mano, ove prigion tu ‘l chieggia.

  Così promisi in voto; or l’altro, ch’ode,

  568 Motto non fa; ma tra suo cor si rode.

  LXXII.

  Volgendo in Tisaferno il dolce sguardo:

  Tu, che dici, Signor? colei soggiunge.

  Risponde egli infingendo: io, che son tardo,

  572 Seguiterò il valor così da lunge

  Di questo tuo terribile e gagliardo:

  E con tai detti amaramente il punge.

  Ripiglia l’Indo allor: ben è ragione,

  576 Che lunge segua, e tema il paragone.

  LXXIII.

  Crollando Tisaferno il capo altero

  Disse: o foss’io signor del mio talento:

  Libero avessi in questa spada impero;

  580 Chè tosto e’ si parria chi sia più lento.

  Non temo io te, nè i tuoi gran vanti, o fero;

  Ma il Cielo, e ‘l mio nemico amor pavento.

  Tacque; e sorgeva Adrasto a far disfida;

  584 Ma la prevenne, e s’interpose Armida.

  LXXIV.

  Diss’ella: o Cavalier, perchè quel dono,

  Donatomi più volte, anco togliete?

  Miei campion sete voi; pur esser buono

  588 Dovria tal nome a por tra voi quiete.

  Meco s’adira, chi s’adira: io sono

  Nell’offese l’offesa; e voi ‘l sapete.

  Così lor parla; e cos�
� avvien che accordi

  592 Sotto giogo di ferro alme discordi.

  LXXV.

  È presente Vafrino, e ‘l tutto ascolta:

  E, sottrattone il vero, indi si toglie.

  Spia dell’alta congiura, e lei ravvolta

  596 Trova in silenzio, e nulla ne raccoglie.

  Chiedene improntamente anco talvolta:

  E la difficoltà cresce le voglie.

  O quì lasciar la vita egli è disposto,

  600 O riportarne il gran secreto ascosto.

  LXXVI.

  Mille e più vie d’accorgimento ignote,

  Mille e più pensa inusitate frodi.

  E pur con tutto ciò non gli son note

  604 Dell’occulta congiura o l’arme, o i modi.

  Fortuna alfin (quel ch’ei per se non puote)

  Isviluppò d’ogni suo dubbio i nodi.

  Sì ch’ei distinto e manifesto intese,

  608 Come l’insidie al pio Buglion sian tese.

  LXXVII.

  Era tornato ov’è pur anco assisa,

  Fra’ suoi campioni, la nemica amante:

  Ch’ivi opportun l’investigarne avvisa,

  612 Ove traean genti sì varie e tante.

  Or quì s’accosta a una donzella, in guisa

  Che par che v’abbia conoscenza innante;

  Par v’abbia d’amistade antica usanza,

  616 E ragiona in affabile sembianza.

  LXXVIII.

  Egli dicea, quasi per gioco, anch’io

  Vorrei d’alcuna bella esser campione:

  E troncar penserei col ferro mio

  620 Il capo o di Rinaldo o del Buglione.

  Chiedila pure a me, se n’hai desio,

  La testa d’alcun barbaro barone.

  Così comincia, e pensa appoco appoco

  624 A più grave parlar ridurre il gioco.

  LXXIX.

  Ma in questo dir sorrise, e fè, ridendo,

  Un cotal atto suo nativo usato.

  Una dell’altre allor quì sorgiungendo,

  628 L’udì, guardollo, e poi gli venne a lato;

  Disse: involarti a ciascun’altra intendo:

  Nè ti dorrai d’amor male impiegato.

  In mio campion t’eleggo; ed in disparte,

  632 Come a mio cavalier, vuò ragionarte.

  LXXX.

  Ritirollo, e parlò: riconosciuto

  Ho te, Vafrin, tu me conoscer dei:

  Nel cor turbossi lo scudiero astuto;

  636 Pur si rivolse, sorridendo, a lei:

  Non t’ho (che mi sovvenga) unqua veduto;

  E degna pur d’esser mirata sei.

  Questo so ben, ch’assai vario da quello,

  640 Che tu dicesti, è il nome, ond’io m’appello.

  LXXXI.

  Me, su la piaggia di Biserta apríca,

  Lesbin produsse, e mi nomò Almanzorre:

  Tosto, disse ella, ho conoscenza antica,

  644 D’ogni esser tuo: nè già mi voglio apporre.

  Non ti celar da me, ch’io sono amica,

  Ed in tuo pro vorrei la vita esporre.

  Erminia son, già di Re figlia, e serva

 

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