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Jerusalem Delivered

Page 153

by Torquato Tasso


  L’ordine e ‘l loco suo fu ritenuto

  Dal Guascon; benchè, prossimo al periglio,

  620 All’improvviso ei sia colto e battuto.

  Nessun dente giammai, nessun artiglio

  O di silvestre, o d’animal pennuto

  Insanguinossi in mandra, o tra gli augelli,

  624 Come la spada del Soldan tra quelli.

  LXXIX.

  Sembra quasi famelica e vorace:

  Pasce le membra quasi, e ‘l sangue sugge.

  Seco Aladin, seco lo stuol seguace

  628 Gli assediatori suoi percuote e strugge.

  Ma il buon Raimondo accorre ove disface

  Soliman le sue squadre, e già nol fugge,

  Sebben la fera destra ei riconosce

  632 Onde percosso ebbe mortali angosce.

  LXXX.

  Pur di novo l’affronta, e pur ricade

  Pur ripercosso ove fu prima offeso:

  E colpa è sol della soverchia etade,

  636 A cui soverchio è de’ gran colpi il peso.

  Da cento scudi fu, da cento spade

  Oppugnato in quel tempo anco e difeso.

  Ma trascorre il Soldano, o che sel creda

  640 Morto del tutto, o ‘l pensi agevol preda.

  LXXXI.

  Sovra gli altri ferisce, e tronca, e svena,

  E in poca piazza fa mirabil prove.

  Ricerca poi, come furore il mena,

  644 A nova uccision materia altrove.

  Qual da povera mensa a ricca cena

  Uom, stimolato dal digiun, si move;

  Tal vanne a maggior guerra, ov’egli sbrame

  648 La sua di sangue infuriata fame.

  LXXXII.

  Scende egli giù per le abbattute mura,

  E s’indirizza alla gran pugna in fretta.

  Ma il furor ne’ compagni e la paura

  652 Riman, che i suoi nemici han già concetta:

  E l’una schiera d’asseguir procura

  Quella vittoria ch’ei lasciò imperfetta.

  L’altra resiste si; ma non è senza

  656 Segno di fuga omai la resistenza.

  LXXXIII.

  Il Guascon ritirandosi cedeva;

  Ma se ne gía disperso il popol Siro.

  Eran presso all’albergo, ove giaceva

  660 Il buon Tancredi, e i gridi entro s’udiro.

  Dal letto il fianco infermo egli solleva:

  Vien sulla vetta, e volge gli occhj in giro.

  Vede, giacendo il Conte, altri ritrarsi,

  664 Altri del tutto già fugati e sparsi.

  LXXXIV.

  Virtù ch’a’ valorosi unqua non manca,

  Perchè languisca il corpo fral, non langue;

  Ma le piagate membra in lui rinfranca

  668 Quasi in vece di spirito e di sangue.

  Del gravissimo scudo arma ei la manca:

  E non par grave il peso al braccio esangue.

  Prende con l’altra man l’ignuda spada

  672 (Tanto basta all’uom forte) e più non bada.

  LXXXV.

  Ma giù sen viene, e grida: ove fuggite,

  Lasciando il Signor vostro in preda altrui?

  Dunque i barbari chiostri, e le meschite

  676 Spiegheran per trofeo l’arme di lui?

  Or tornando in Guascogna al figlio dite,

  Che morì il padre, onde fuggiste vui.

  Così lor parla; e ‘l petto nudo e infermo

  680 A mille armati e vigorosi è schermo.

  LXXXVI.

  E col grave suo scudo, il qual di sette

  Dure cuoja di tauro era composto,

  E che alle terga poi di tempre elette

  684 Un coperchio d’acciajo ha sovrapposto;

  Tien dalle spade, e tien dalle saette,

  Tien da tutte arme il buon Raimondo ascosto:

  E col ferro i nemici intorno sgombra

  688 Sì, che giace sicuro, e quasi all’ombra.

  LXXXVII.

  Respirando risorge in spazio poco

  Sotto il fido riparo il Vecchio accolto.

  E si sente avvampar di doppio foco,

  692 Di sdegno il core, e di vergogna il volto.

  E drizza gli occhj accesi a ciascun loco,

  Per riveder quel fiero onde fu colto.

  Ma nol vedendo freme, e far prepara

  696 Ne’ seguaci di lui vendetta amara.

  LXXXVIII.

  Ritornan gli Aquitani, e tutti insieme

  Seguono il Duce al vendicarsi intento.

  Lo stuol che dianzi osava tanto, or teme:

  700 Audacia passa ov’era pria spavento.

  Cede chi rincalzò, chi cesse or preme.

  Così varian le cose in un momento.

  Ben fa Raimondo or sua vendetta, e sconta

  704 Pur di sua man con cento morti un’onta.

  LXXXIX.

  Mentre Raimondo il vergognoso sdegno

  Sfogar ne’ capi più sublimi tenta;

  Vede l’usurpator del nobil regno

  708 Che fra’ primi combatte, e gli s’avventa.

  E ‘l fere in fronte, e nel medesmo segno

  Tocca e ritocca, e ‘l suo colpir non lenta;

  Onde il Re cade, e, con singulto orrendo,

  712 La terra ove regnò morde morendo.

  XC.

  Poi ch’una scorta è lunge, e l’altra uccisa,

  In color che restar vario è l’affetto.

  Alcun, di belva infuriata in guisa,

  716 Disperato nel ferro urta col petto:

  Altri, temendo, di campar s’avvisa,

  E là rifugge ov’ebbe pria ricetto.

  Ma tra’ fuggenti il vincitor commisto

  720 Entra, e fin pone al glorioso acquisto.

  XCI.

  Presa è la Rocca; e su per l’alte scale

  Chi fugge è morto, o in su le prime soglie;

  E nel sommo di lei Raimondo sale,

  724 E nella destra il gran vessillo toglie:

  E incontra ai due gran campi il trionfale

  Segno della vittoria al vento scioglie.

  Ma già nol guarda il fier Soldan, chè lunge

  728 È di là fatto, ed alla pugna giunge.

  XCII.

  Giunge in campagna tepida e vermiglia,

  Che d’ora in ora più di sangue ondeggia,

  Sì che il regno di morte omai somiglia,

  732 Ch’ivi i trionfi suoi spiega, e passeggia.

  Vede un destrier che con pendente briglia,

  Senza rettor, trascorso è fuor di greggia;

  Gli gitta al fren la mano, e ‘l voto dorso

  736 Montando preme, e poi lo spinge al corso.

  XCIII.

  Grande, ma breve aita apportò questi

  Ai Saracini impauriti e lassi.

  Grande, ma breve fulmine il diresti,

  740 Che inaspettato sopraggiunga, e passi:

  Ma del suo corso momentaneo resti

  Vestigio eterno in dirupati sassi.

  Cento ei n’uccise e più; pur di due soli

  744 Non fia che la memoria il tempo involi.

  XCIV.

  Gildippe ed Odoardo, i casi vostri

  Duri ed acerbi e i fatti onesti e degni

  (Se tanto lice ai miei Toscani inchiostri)

  748 Consacrerò fra’ pellegrini ingegni:

  Sicchè ogni età, quasi ben nati mostri

  Di virtute e d’amor, v’additi e segni:

  E, col suo pianto, alcun servo d’Amore

  752 La morte vostra e le mie rime onore.

  XCV.

  La magnanima Donna il destrier volse

  Dove le genti distruggea quel crudo,

  E di due gran fendenti appieno il colse:

  756 Ferigli il fianco, e gli partì lo scudo.

  Grida il crudel, ch’all’abito raccolse

  Chi costei fosse: ecco la putta, e ‘l drudo.

  Meglio per te s’avessi il fuso e l’ago,

  760 Che in tua difesa aver la spada
e ‘l Vago.

  XCVI.

  Quì tacque; e di furor più che mai pieno,

  Drizzò percossa temeraria e fera

  Ch’osò, rompendo ogn’arme, entrar nel seno

  764 Che de’ colpi d’Amor degno sol’era.

  Ella repente abbandonando il freno,

  Sembiante fa d’uom che languisca e pera.

  E ben sel vede il misero Odoardo,

  768 Mal fortunato difensor, non tardo.

  XCVII.

  Che far dee nel gran caso? ira e pietade

  A varie parti in un tempo l’affretta.

  Questa, all’appoggio del suo ben che cade:

  772 Quella, a pigliar del percussor vendetta.

  Amore indifferente il persuade

  Che non sia l’ira o la pietà negletta.

  Con la sinistra man corre al sostegno,

  776 L’altra ministra ei fa del suo disdegno.

  XCVIII.

  Ma voler e poter che si divida,

  Bastar non può contra il Pagan sì forte:

  Tal che nè sostien lei, nè l’omicida

  780 Della dolce alma sua conduce a morte.

  Anzi avvien che ‘l Soldano a lui recida

  Il braccio, appoggio alla fedel consorte;

  Onde cader lasciolla: ed egli presse

  784 Le membra a lei con le sue membra stesse.

  XCIX.

  Come olmo a cui la pampinosa pianta

  Cupida s’avviticchi, e si marite;

  Se ferro il tronca, o turbine lo schianta,

  788 Trae seco a terra la compagna vite:

  Ed egli stesso il verde, onde s’ammanta,

  Le sfronda, e pesta l’uve sue gradite:

  Par che sen dolga, e più che ‘l proprio fato,

  792 Di lei gl’incresca che gli muore a lato.

  C.

  Così cade egli; e sol di lei gli duole,

  Che ‘l Cielo eterna sua compagna fece.

  Vorrian formar, nè pon formar parole:

  796 Forman sospiri di parole in vece.

  L’un mira l’altro: e l’un, pur come suole,

  Si stringe all’altro, mentre ancor ciò lece:

  E si cela in un punto ad ambi il díe:

  800 E congiunte sen van l’anime píe.

  CI.

  Allor scioglie la Fama i vanni al volo,

  Le lingue al grido, e ‘l duro caso accerta:

  Nè pur n’ode Rinaldo il romor solo,

  804 Ma da un messaggio ancor nova più certa.

  Sdegno, dover, benevolenza, e duolo

  Fan che all’alta vendetta ei si converta.

  Ma il sentier gli attraversa, e fa contrasto

  808 Sugli occhj del Soldano il grande Adrasto.

  CII.

  Gridava il Re feroce: ai segni noti

  Tu sei pur quegli alfin ch’io cerco e bramo.

  Scudo non è ch’io non riguardi e noti,

  812 Ed a nome tutt’oggi invan ti chiamo.

  Or solverò della vendetta i voti

  Col tuo capo al mio Nume. Omai facciamo

  Di valor, di furor quì paragone,

  816 Tu nemico d’Armida, ed io campione.

  CIII.

  Così lo sfida; e di percosse orrende

  Pria sulla tempia il fere, indi nel collo.

  L’elmo fatal (chè non si può) non fende,

  820 Ma lo scuote in arcion con più d’un crollo.

  Rinaldo lui sul fianco in guisa offende,

  Che vana vi saria l’arte d’Apollo.

  Cade l’uom smisurato, il Rege invitto:

  824 E n’è l’onore ad un sol colpo ascritto.

  CIV.

  Lo stupor, di spavento e d’orror misto,

  Il sangue e i cori ai circostanti agghiaccia:

  E Soliman, ch’estranio colpo ha visto,

  828 Nel cor si turba e impallidisce in faccia.

  E, chiaramente il suo morir previsto,

  Non si risolve e non sa quel che faccia:

  Cosa insolita in lui: ma chè non regge

  832 Degli affari quaggiù l’eterna legge?

  CV.

  Come vede talor torbidi sogni

  Ne’ brevi sonni suoi l’egro o l’insano:

  Pargli ch’al corso avidamente agogni

  836 Stender le membra, e che s’affanni invano:

  Che ne’ maggiori sforzi, a’ suoi bisogni

  Non corrisponde il piè stanco, e la mano.

  Scioglier talor la lingua, e parlar vuole;

  840 Ma non segue la voce, o le parole.

  CVI.

  Così allora il Soldan vorria rapire

  Pur se stesso all’assalto, e se ne sforza;

  Ma non conosce in se le solite ire,

  844 Nè sè conosce alla scemata forza.

  Quante scintille in lui sorgon d’ardire,

  Tante un secreto suo terror n’ammorza.

  Volgonsi nel suo cor diversi sensi:

  848 Non che fuggir, non che ritrarsi pensi.

  CVII.

  Giunge all’irresoluto il vincitore:

  E in arrivando (o che gli pare) avanza

  E di velocitade, e di furore,

  852 E di grandezza ogni mortal sembianza.

  Poco ripugna quel; pur, mentre muore,

  Già non oblia la generosa usanza.

  Non fugge i colpi, e gemito non spande:

  856 Nè atto fa, se non se altero e grande.

  CVIII.

  Poi che ‘l Soldan che spesso in lunga guerra,

  Quasi novello Anteo, cadde e risorse

  Più fero ogn’ora, alfin calcò la terra

  860 Per giacer sempre: intorno il suon ne corse.

  E Fortuna, che varia e instabil erra,

  Più non osò por la vittoria in forse.

  Ma fermò i giri, e sotto i Duci stessi

  864 S’unì co’ Franchi, e militò con essi.

  CIX.

  Fugge, non ch’altri, omai la regia schiera,

  Ov’è dell’Oriente accolto il nerbo.

  Già fu detta immortale; or vien che pera

  868 Ad onta di quel titolo superbo.

  Emireno a colui che ha la bandiera

  Tronca la fuga, e parla in modo acerbo:

  Non se’ tu quel ch’a sostener gli eccelsi

  872 Segni dei mio Signor fra mille i’ scelsi?

  CX.

  Rimedon, questa insegna a te non diedi

  Acciò che indietro tu la riportassi.

  Dunque, codardo, il capitan tuo vedi

  876 In zuffa co’ nemici, e solo il lassi?

  Che brami? di salvarti? or meco riedi;

  Chè per la strada presa a morte vassi.

  Combatta quì chi di campar desia:

  880 La via d’onor della salute è via.

  CXI.

  Riede in guerra colui ch’arde di scorno.

  Usa ei con gli altri poi sermon più grave:

  Talor minaccia e fere, onde ritorno

  884 Fa contra il ferro chi del ferro pave.

  Così rintegra del fiaccato corno

  La miglior parte, e speme anco pur have.

  E Tisaferno più ch’altri il rincora,

  888 Ch’orma non torse per ritrarsi ancora.

  CXII.

  Maraviglie quel dì fè Tisaferno.

  I Normandi per lui furon disfatti:

  Fè de’ Fiamminghi strano empio governo:

  892 Gernier, Ruggier, Gherardo a morte ha tratti.

  Poi ch’alle mete dell’onor eterno

  La vita breve prolungò co’ fatti;

  Quasi di viver più poco gli caglia,

  896 Cerca il rischio maggior della battaglia.

  CXIII.

  Vide ei Rinaldo; e benchè omai vermiglj

  Gli azzurri suoi color sian divenuti:

  E insanguinati l’Aquila gli artiglj

  900 E ‘l rostro s’abbia; i segni ha conosciuti.

  Ecco, disse, i grandissimi periglj.

  Quì prego il Ciel che ‘l mio ardimento ajuti
:

  E veggia Armida il desiato scempio.

  904 Macon, s’io vinco, i’ voto l’arme al tempio.

  CXIV.

  Così pregava; e le preghiere ir vote;

  Chè ‘l sordo suo Macon nulla n’udiva.

  Come il leon si sferza e si percuote,

  908 Per isvegliar la ferità nativa;

  Tale ei suoi sdegni desta, ed alla cote

  D’Amor gli aguzza, ed alle fiamme avviva.

  Tutte sue forze aduna, e si ristringe

  912 Sotto l’arme all’assalto, e ‘l destrier spinge.

  CXV.

  Spinse il suo contra lui, che in atto scerse

  D’assalitore, il cavalier Latino.

  Fè lor gran piazza in mezzo, e si converse

  916 Allo spettacol fero ogni vicino.

  Tante fur le percosse, e sì diverse

  Dell’Italico eroe, del Saracino,

  Ch’altri per maraviglia obliò quasi

  920 L’ire e gli affetti proprj e i proprj casi.

  CXVI.

  Ma l’un percuote sol, percuote e impiaga

  L’altro che ha maggior forza, armi più ferme.

  Tisaferno di sangue il campo allaga

  924 Con l’elmo aperto, e dello scudo inerme.

  Mira del suo campion la bella Maga

  Rotti gli arnesi, e più le membra inferme:

  E gli altri tutti impauriti in modo,

  928 Che frale omai gli stringe e debil nodo.

  CXVII.

  Già di tanti guerrier cinta e munita,

  Or rimasa nel carro era soletta.

  Teme di servitute, odia la vita,

  932 Dispera la vittoria, e la vendetta.

  Mezza tra furiosa e sbigottita

  Scende, ed ascende un suo destriero in fretta.

  Vassene, e fugge; e van seco pur anco

  936 Sdegno, ed Amor, quasi due veltri al fianco.

  CXVIII.

  Tal Cleopatra al secolo vetusto

  Sola fuggia dalla tenzon crudele,

  Lasciando incontra al fortunato Augusto,

  940 Ne’ maritimi rischj, il suo fedele,

  Che per amor fatto a se stesso ingiusto

  Tosto seguì le solitarie vele.

  E ben la fuga di costei secreta

  944 Tisaferno seguia; ma l’altro il vieta.

  CXIX.

  Al Pagan, poi che sparve il suo conforto,

  Sembra che insieme il giorno e ‘l Sol tramonte:

  Ed a lui che ‘l ritiene a sì gran torto,

  948 Disperato si volge, e ‘l fiede in fronte.

  A fabbricare il fulmine ritorto

  Via più leggier cade il martel di Bronte.

  E col grave fendente in modo il carca,

  952 Che ‘l percosso la testa al petto inarca.

  CXX.

  Tosto Rinaldo si dirizza ed erge,

  E vibra il ferro, e, rotto il grosso usbergo,

  Gli apre le coste, e l’aspra punta immerge

  956 In mezzo ‘l cor, dove ha la vita albergo.

  Tanto oltre va, che piaga doppia asperge

  Quinci al Pagano il petto, e quindi il tergo:

 

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