Presentazione
Un torrido ferragosto a Bologna. La città è deserta, solo il caldo e l’umidità regnano sulle strade vuote. In un palazzo di venti piani, una grande torre bianca che svetta su un quartiere popolare, tre persone entrano insieme in ascensore. Di colpo si spengono le luci, e i tre si ritrovano intrappolati tra l’undicesimo e il dodicesimo piano. Claudia è una studentessa omosessuale, che per pagarsi gli studi è costretta a fare la cameriera in un bar. Vive nel palazzo con Bea, un’attrice che sta girando un film in un paese lontano. Claudia ha solo voglia di rientrare nel suo appartamento, farsi una doccia, bere un bicchier d’acqua, sfuggire a quel caldo inumano. Tomas è un ragazzo di sedici anni che sta scappando di casa. Deve raggiungere Francesca per fuggire con lei verso una nuova vita, ha fretta di fare i bagagli, correre in stazione e partire senza meta, come in una canzone di Bruce Springsteen. Vive nel palazzo con i genitori. Ferro è proprietario di tre noti locali, marito e padre, ma anche efferato serial killer e produttore di snuff movies casalinghi. Non vive in quella casa, ma vi custodisce i ferri del mestiere. Ferro ha molta fretta: deve tornare in un suo covo, dove, incatenato, c’è il protagonista del suo ultimo film.
Quella che inizia nell’ascensore bloccato, tra il caldo, la sete, la lotta per l’aria, i cellulari impazziti, è una beffarda e crudele suspense story, un grottesco e virulento conversation piece, che col passare delle ore assume contorni surreali, minacciando di precipitare a ogni istante nel puro orrore, in un incubo senza fine.
Gianluca Morozzi è nato nel 1971 a Bologna, dove vive. Ha pubblicato romanzi, racconti e graphic novel, tra cui ricordiamo, apparsi da Guanda, L’era del porco, Despero, Colui che gli dei vogliono distruggere, Il vangelo del coyote e il saggio L’Emilia o la dura legge della musica.
NARRATORI DELLA FENICE
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ISBN 978-88-6088-313-1
© Gianluca Morozzi, tramite Nabu International Literary Agency
© 2004 Ugo Guanda Editore S.p.A., Viale Solferino 28, Parma
www.guanda.it
Prima edizione digitale 2010
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A Giorgio ed Elena
«E se vi fosse data la possibilità di fare qualunque cosa, senza che nessuno possa giudicarvi o punirvi, senza che nessuno vi dica ’Basta! Smettetela!’, fin dove vi spingereste? Più avanti di quanto siamo andati noi?»
Grant Morrison, The Invisibles
FERRO
Ferro lava il coltello sotto il rubinetto fischiettando Don’t Be Cruel, e il sangue scende nello scarico in rivoletti di un rosso scolorito e pallido.
Per Aldo Ferro la musica è iniziata con Elvis ed è finita con Elvis, non c’era niente prima di Elvis, non c’è stato niente dopo Elvis. Se Gesù è già sceso in Terra, dice sempre, dopo non ci si accontenta del primo profeta che passa per strada. Questa sparata fa sempre colpo, con le amiche di sua moglie.
Esce dal bagno giocherellando col coltello. La baracca è illuminata solo da una lampadina che pende nuda dal soffitto, le finestre sono oscurate dalle coperte inchiodate nel legno. Fuori, dietro gli alberi, il cielo nero sbiadisce nel color asfalto che precede l’alba.
Il ragazzo legato alla sedia non si è ancora svegliato. Aldo Ferro gli gira intorno, con le sue scarpe di serpente, i basettoni, la camicia dagli intarsi country, gli aloni di sudore sotto le ascelle. Non che faccia caldo, nella baracca tra le montagne si respira, mica come in città, che l’afa di agosto fa boccheggiare anche alle cinque del mattino. No, è stato il lavoro di precisione a farlo sudare. Tutta la notte ci ha perso, su quel lavoro di precisione.
Il ragazzo muove appena la testa, mugola flebilmente. Aldo Ferro sorride. Canticchia la classica Heartbreak Hotel, accenna a un legnoso balletto col coltello in mano, un po’ come mr Pink prima di tagliare l’orecchio al poliziotto.
Ferro, Le iene l’ha visto in versione integrale. Mica con le censure televisive e balle simili, che c’era mr Pink - o era mr Orange? - che ballava Stuck in the Middle with You davanti al poliziotto, poi, di colpo, un fotogramma fisso del soffitto, bastardi. Nella versione originale si vedeva perfettamente il taglio dell’orecchio.
Un primo barlume di luce arancione filtra da dietro le tende. Il ragazzo apre faticosamente gli occhi.
Ferro stira le labbra in un sorriso cattivo. È ora di cominciare lo show.
Posiziona la telecamera, una di quelle professionali, che funzionano bene anche con le luci basse. Ferro non riesce mai a concentrarsi, con le luci troppo alte.
Trascina un’altra sedia di fronte al ragazzo, si siede col bracciolo girato al contrario. Si copre la faccia con la maschera di Darth Maul di suo figlio, accende la telecamera, punta la torcia elettrica in faccia al ragazzo.
«Sveglia, bimbo, è già mattina. Giù dal letto, che i biscottini del Mulino Bianco sono in tavola.»
Il ragazzo si chiama Alex. Ha un tatuaggio tribale sul bicipite destro, tre piercing all’orecchio, la maglietta dei Sex Pistols, gli occhi verde Irlanda. È legato alla sedia di legno per i polsi e le caviglie. Si gira infastidito dalla luce, ancora stordito dai sedativi.
«Dai, che fai tardi a scuola» sghignazza Aldo Ferro. «Mi sa che non hai ancora realizzato, ti stai chiedendo dove ti trovi, cosa succede, vero? È capitato anche a me con l’anestesia totale, sai, quando mi hanno operato. Calcoli. Una brutta roba, adesso sto bene. Mi son svegliato che non capivo dov’ero e cos’era successo.»
Raccoglie da terra qualcosa che assomiglia a una maschera molliccia. La appende al bracciolo della sedia, grottesca e inanimata, poi torna a parlare. «Ti aiuto, dai. Ricostruiamo il tuo percorso, cosı̀ ti svegli per benino.»
Alex non dice niente. Muove in cerchio la testa intorpidita, cerca un appiglio col mondo reale. Ferro continua a parlare, con voce bassa, insinuante.
«Senti me, bimbo. Ricordi dov’eri ieri sera? Se non te lo ricordi te lo dico io, ieri sera eri al Pink Cadillac. Quel bel locale all’aperto, quello sui colli, con la piscina a forma di cadillac rosa. Sei venuto lı̀ per cercare il fresco, immagino, si moriva di caldo giù in città. Te lo ricordi, il Pink Cadillac? Ti ricordi che sei venuto al bancone del bar, hai chiesto una birra?» Alex muove lentissimamente la testa su e giù. Ferro sorride.
«Perfetto. Allora, sei venuto al bancone del bar, hai chiesto una birra, e dietro il bancone c’ero io. Il Pink Cadillac è il mio locale, ogni tanto mi piace andare ad aiutare le bariste. Una volta ero bravo a fare i cocktail, presente Tom Cruise in quel film?, io ero uguale, sapevo fare tutti i giochini, quelle robe da giocoliere, insomma, la birra te l’ho versata io. Dopo averci messo una certa pasticca.» Ghigna, scopre i denti sotto la maschera di Darth Maul. «Per essere onesti è stato un testa a testa, ero molto indeciso tra te e un altro ragazzo. Uno che sembrava Kurt Cobain, aveva i capelli davanti alla faccia, l’aria da cane bastonato, mi ispirava abbastanza anche lui. Sai perché ho scelto te, alla fine? Perché hai vinto il ballottaggio con quell’altro sfigato?» Si sporge in avanti. «Per quella maglietta del cazzo. Per i Sex Pistols. Quei coglioni punk che spandevano merda su Elvis.» Si gratta il mento, fa caldo, sotto la maschera. «Ti ho guardato finire la birra, ti ho osservato da lontano, ho aspettato che la pasticca facesse effetto. E quando sei andato in bagno tutto barcollante, più morto che vivo, sono venuto a raccoglierti. Ti ho caricato in macchina. E ti ho portato qui.» Ridacchia. «Vedi, caro. Se stasera uscivi di casa con una maglietta dell’Hard Rock Cafe, del Brasile campione del mondo, dei Rolling Stones, adesso qua c’era il sosia triste di Kurt Cobain. Che è come dire, se ci pensi, sto camminando per strada, mi fermo un attimo ad allacciarmi la scarpa, e il vaso di fiori mi cade a un centimetro
dal naso anziché sulla testa. Oppure, arrivo a un incrocio proprio mentre scatta il rosso, in una frazione di secondo decido se frenare o accelerare, e mica lo posso sapere che dall’altra parte sta arrivando un Tir guidato da un ubriaco, no? E che su questa scelta di una frazione di secondo ruota tutto il mio destino, e neanche tu lo potevi sapere, che magari quella maglietta non è nemmeno tua e i Sex Pistols ti fanno schifo, magari è di tuo fratello e in casa non ce n’erano altre pulite, sfiga, ma è servita a farmi fare una scelta, tutto qua. E, chiaramente, sto parlando tanto per darti il tempo di ritornare del tutto cosciente, che ti voglio sveglio, io. Se uno fa un lavoro di fino vuole che sia apprezzato, allora, dimmi, ci sei, riesci a parlare?»
«Sci» biascica Alex. Aldo Ferro sorride.
«Molto bene.» Prende tra pollice e indice la maschera molliccia appesa al bracciolo. Sposta il fascio di luce dalla faccia di Alex, gli mostra la maschera sotto la luce della lampadina. «Sai cos’è questa?»
Alex non parla per un po’, poi dice: «No».
«Mai letto Garth Ennis? Preacher? Texas o morte?»
«No.»
«No, eh? Leggi solo manga, te, massimo qualche Dylan Dog, giusto? Guardala bene. Non ti ricorda niente? Non ricordi quando l’hai vista l’ultima volta?»
«No», deglutisce Alex.
«Non l’hai vista, per esempio, ieri mattina? Mentre ti pettinavi, ti lavavi i denti? Mentre ti guardavi allo specchio?»
Alex realizza, lentamente, molto lentamente.
Gli occhi verde Irlanda si spalancano. Poco a poco. In un contrasto pittorico con la carne viva.
Mentre guarda il suo viso penzolare tra il pollice e l’indice di Aldo Ferro.
Mentre Ferro dice: «Oh, potevo essere molto più bastardo e non lasciarti nemmeno le palpebre, che dopo ti ci volevo vedere a chiudere gli occhi», dalla gola di Alex esce uno stranissimo stridore lancinante. Come il pianto di un maiale sgozzato, un grido da donna, acuto e interminabile.
Ferro ridacchia, si alza in piedi, dice: «Ascolta, ve’, io vado un po’ a dormire, che il lavoro di cesello stanca. A pranzo sono al mare dai suoceri, mica posso dormirgli sul tavolo, ai suoceri. La faccia te la lascio qua, sulle ginocchia. Se fai il bravo e non fai casino, magari domani te la riattacco».
Sale di sopra, si mette a letto.
Ignorando il grido acutissimo ai piedi delle scale. Costante, interminabile.
Ferro dorme due ore, poi scende di sotto, saluta Alex, salta in macchina. Guida verso il mare canticchiando Can’t Help Falling in Love.
A mezzogiorno è sul terrazzo della casa di Cattolica, con la moglie Gloria, il figlio Jacopo, i suoceri. Mangia il pesce lentamente, lo accompagna con piccoli sorsi di vino bianco. Il suocero legge il giornale e fuma il sigaro, la suocera fa la spola tra terrazza e cucina borbottando inascoltata «A tavola non si legge e non si fuma».
«Allora, Franco?» bofonchia Ferro a bocca piena, rivolto al suocero. «Che dice il giornale, bombardiamo qualche nuovo paese del Medioriente?»
«Gli facciamo un culo cosı̀, a quei beduini» risponde il suocero, il Generale, senza staccare gli occhi dal giornale. «Gli facciamo un culo cosı̀.»
«Niente parolacce davanti al bambino» fa Gloria, impegnata a ripulire il pesce dalle lische. Ferro guarda il figlio che mangia velocissimo, butta giù la frittura senza quasi masticarla.
«Gloria» dice, «nostro figlio sta diventando grasso come un vitello. Non dovreste dargliele tutte vinte, te e tua madre, che questo ci diventa obeso.» Jacopo continua a mangiare come se non si stesse parlando di lui. Gloria alza le spalle, beve un bicchiere di bianco, cambia discorso.
«Ma devi proprio lavorare anche a ferragosto, tu?» domanda, masticando. «Per una sera non ti può sostituire Garbarino? »
Aldo Ferro ride a bocca aperta: «Amore, io a Garbarino non gli affiderei nemmeno il telecomando del garage. Figurarsi il locale, a ferragosto, poi».
Gloria sbuffa, Jacopo vuota un bicchiere di Coca in un sorso, rutta rumorosamente. Gloria gli rifila uno scappellotto sulla nuca, Jacopo continua a mangiare come un’idrovora, del tutto indifferente.
Sotto la terrazza la spiaggia si svuota lentamente, i bagnanti tornano agli alberghi per il pranzo. Ferro si stiracchia, si massaggia la pancia, ha mangiato troppo, cazzo. E poi il vino bianco, l’aria di mare, il sole, già pregusta il sonnellino del dopopranzo, steso al sole, col rumore delle onde in sottofondo.
«Gli facciamo un culo cosı̀, a quei beduini» ribadisce il Generale, gli occhi fissi sul quotidiano.
«Niente parolacce davanti al bambino» ripete meccanica Gloria, lottando con le lische.
Più tardi sono tutti e cinque in spiaggia a godersi il primo sole del pomeriggio. Ferro è steso sul lettino, rilassato, imbevuto di olio abbronzante, il cappellino della Ferrari, gli occhiali scuri, il costume rosso a slip. Accanto a lui, sulla sdraio, Gloria risolve le parole crociate mezza all’ombra. Jacopo è seduto sulla sabbia sotto l’ombrellone, legge Dylan Dog impiastricciando le pagine con la cioccolata fusa del suo Magnum Double. I suoceri sono poco più in là su due sedie da mare, lei rapita dal nuovo numero di Intimità, il Generale in camicia a righe e calzoncini marroni, impettito, dritto sulla schiena, le braccia conserte. Ha gli occhi fissi su un punto imprecisato al di là del mare, ogni tanto scruta torvo i ragazzini che giocano a pallone vicino al bagnasciuga.
«Allora, Aldo, sei proprio convinto?» chiede Gloria, senza alzare gli occhi dalle parole crociate.
«Ne abbiamo già parlato» borbotta Ferro, sonnecchiante.
«Non capisco perché vuoi che tuo figlio si senta diverso dagli altri» si lamenta lei. «Già Jacopo ha il complesso di essere grasso.»
«Te l’ho detto cinquemila volte. Smettete di ingozzarlo, te e tua madre.» Abbassa la voce: «Secondo tua madre si dimostra l’amore per i nonni solo vuotando due piatti di ogni cosa, smettete di ingozzarlo, vedrai che cala di peso e gli passano i complessi. Altro che comprargli il cellulare, il cellulare a un bambino, ma dai».
«Come se gli altri bambini non ce l’avessero, il cellulare. Il figlio della parrucchiera ce l’ha. Il figlio della Rita ce l’ha.» «Non mi stai mica citando degli esempi illuminanti, sai?»
«Che c’entra, Aldo? I bambini a quell’età vogliono solo essere uguali ai loro amici. Se il compagno di scuola ha una cosa e loro no, si sentono inferiori. È stato cosı̀ per le scarpe da ginnastica, te la ricordi la storia delle scarpe da ginnastica? E per quello zainetto da terzo mondo con cui pretendevi di mandarlo a scuola, povero Jacopo. Di cellulari piccoli, economici ce ne sono quanti ne vuoi, te li tirano dietro, ne ho visti due al centro commerciale l’altro giorno, stavo per comprarne uno senza neanche chiedertelo, guarda.»
«Gloria, dai, ti pare che ne faccio una questione di soldi? Come se non ne avessimo, di soldi per comprare un telefonino. È un fatto di principio, lo fate crescere viziato, quel bambino. Vuole il telefonino? E allora se lo guadagna. Mi lava la macchina, ridipinge la stanza, fa le pulizie in casa. Dare per avere. Lui dimostra di avere volontà, di sapersi sudare le cose, e noi gli compriamo il telefonino. C’è qualcosa di sbagliato in questo ragionamento?»
Gloria sbuffa, scuote la testa. «Tu vivi ancora ai tempi di tuo padre, mi sa. Starei più tranquilla anch’io, se Jacopo avesse il telefonino quando torna a casa da scuola.»
Ferro ridacchia. «Eh, certo, quattro fermate di autobus. Chissà che può succedergli in quattro fermate di autobus, a nostro figlio.»
Gloria ha un’illuminazione, appoggia la Settimana enigmistica, guarda il marito a occhi spalancati. «Ecco cosa facciamo! Io a Jacopo regalo il mio cellulare, che ormai è cosı̀ vecchio che mi vergogno a tirarlo fuori dalla borsa, e ne compro uno nuovo per me. Uno di quelli che fanno anche le foto, che dopo puoi spedire le foto come gli sms. Che ne dici?»
Ferro si volta a pancia in giù, gira la visiera del cappellino. «Che siete tutti suonati, con questa storia dei cellulari. Un telefono è un telefono. Col telefono si telefona, mica si fanno le foto. Un telefono è un telefono.»
«Ce l’ha anche la Paola, il cellulare che fa le foto», fa
Gloria, mogia.
«Gloria, amore. Stai diventando come tuo figlio, precisa identica. Vuoi essere uguale alle tue amiche per non sentirti inferiore a loro.»
Gloria alza le spalle seccata, smette di parlare, torna a fare le parole crociate.
Un ambulante nero si ferma all’ombrellone davanti ai suoceri di Ferro, mostra degli occhiali da sole, dei braccialettini, dice «Allora amico?» un paio di volte. Il Generale increspa le labbra, guarda nel vuoto, finge di non vederlo e non sentirlo. Rimane in quella posa finché il ragazzo non si trascina verso l’ombrellone successivo.
Ferro si rilassa, col sole che picchia sulle spalle.
Pensa a com’era Gloria prima di slargarsi sui fianchi, pensa alla sera in cui l’ha conosciuta. Quando le aveva offerto una sigaretta ai bordi della pista delle Grotte, mentre il dj pompava un pezzo dei Communards in versione dance, ed era rimasto ipnotizzato da quegli incredibili occhi color turchese.
Alla prima volta che lei era salita sulla sua auto, e lui aveva messo nello stereo quel pezzo di Springsteen, Gloria’s Eyes. Che era anche orribile quel pezzo, anche se Bruce Springsteen, Ferro, lo rispettava. Era un fan di Elvis, Bruce Springsteen. Uno che sapeva riconoscere le giuste proporzioni tra il maestro e l’allievo. Uno che aveva scavalcato le mura di Graceland per incontrare il Re, per fargli sentire un pezzo che aveva scritto per lui, e quando le guardie li avevano bloccati il suo amico aveva dovuto urlare «Lui è Bruce Springsteen, è famoso, è comparso su Time e Newsweek!»
Pensando a Elvis e a Bruce Springsteen, piacevolmente, Ferro si addormenta.
Nel tardo pomeriggio rientra in casa, si fa una doccia, lentamente, senza fretta, lavando via sabbia e sudore dalla pelle. Esce dalla doccia in accappatoio, accende la TV. Cerca il tasto del televideo. Va alla pagina delle ultime notizie.
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