Blackout

Home > Other > Blackout > Page 2
Blackout Page 2

by Gianluca Morozzi


  «Scomparso un ragazzo bolognese» dice il televideo. «Nessun indizio. La polizia indaga sui suoi ultimi spostamenti. » Eccetera. Eccetera.

  Ferro sogghigna, asciugandosi i capelli bagnati.

  Quando il sole comincia a calare dietro gli alberghi, Ferro risale in macchina, saluta la moglie, il figlio e i suoceri, torna verso la città canticchiando Burning Love.

  Risale per i colli, s’inerpica per i tornanti, raggiunge il Pink Cadillac sulla cima del colle più alto di tutti.

  Manca ancora un po’ all’inizio della serata. Il locale all’aperto più bello di Bologna si prepara a prendere vita, la pista del commerciale, la pista del latino-americano, il bar principale, il bar cubano, l’angolo per i massaggi shatzu, la celebre piscina a forma di cadillac pronta a riempirsi di schiuma. Ferro lascia la macchina nel parcheggio riservato al personale, saluta il custode. Dal parcheggio, quando il vento scosta le foglie degli alberi, tutte le luci della città brillano nel buio come piccoli soli dietro i rami.

  Ferro fa il giro del locale, saluta baristi, dj, animatrici, li carica in vista della serata, per ognuno ha una battuta e un incitamento personalizzato. Lo ha imparato quand’era allenatore, giocatore e presidente della sua squadretta di calcio amatoriale, e faceva il giro dello spogliatoio per galvanizzare ogni singolo giocatore, anche i panchinari, tutti.

  Per ultima, saluta la nuova barista.

  Sonja da Lecce, si chiama. Una mora burrosa di ventitré anni, i morbidi riccioli, quella sinuosa, inverosimile j nel mezzo del nome.

  Sempre piaciuti, ad Aldo Ferro, i riccioli lunghi fino al culo.

  Il suo socio Garbarino esce dall’ufficetto dietro il bar, gli passa accanto, fa un sorrisetto, bisbiglia: «Accettata la scommessa? »

  Ferro alza il pollice in segno di assenso, scivola dietro il bancone. Che deve esibire tutto il suo repertorio da Tom Cruise, e vincere la scommessa che ha per oggetto Sonja da Lecce.

  «Com’è abbronzato, signor Ferro» trilla Sonja. «È stato al mare?»

  «Sonja, pasticcino tenero, lo sai qual è la prima clausola per non farsi licenziare in questo posto?» dice Ferro, rassicurante, che sia chiaro che sta scherzando. «La prima clausola, indispensabile per non farsi licenziare, è dare sempre del tu al proprietario e chiamarlo Aldo.»

  Sonja sorride a sua volta, scoprendo denti bianchissimi e perfetti.

  «Come sei abbronzato, Aldo.»

  «Brava ragazza» sogghigna lui, con un piacevole calore che si diffonde dalle parti dell’inguine. «Mi piacciono le bariste che imparano in fretta, pasticcino tenero.»

  Poi ognuno prende la sua posizione nel Pink Cadillac, baristi, dj, animatrici, come una squadra schierata a centrocampo in attesa del fischio d’inizio.

  E la serata comincia.

  I bolognesi rimasti in città sbucano fuori dalle tane, dopo un sabato in casa con i ventilatori e l’aria condizionata al massimo. Scappano dalla fornace deserta e ribollente, arrivano sui colli sognando il fresco e la piscina a forma di cadillac rosa.

  Quasi subito appare il fanclub, come lo chiama Aldo Ferro. Tre avvocati gaudenti e brizzolati che stazionano in pianta stabile nei suoi locali, perché, come ripetono sempre, «Dove c’è Ferro ci si diverte».

  Ferro li saluta mandando baci scherzosi. Gli avvocati si abbarbicano al bancone, uno dei tre bisbiglia: «Aldo, cinquanta sulla barista nuova».

  Ferro guarda Sonja con la coda dell’occhio. Sta preparando un cocktail, non sente.

  «Mi date cinquanta se vinco» sibila con aria da demone, «ve ne do cento se perdo. Tanto per dire quanto sono sicuro di me.»

  L’avvocato sghignazza, gli stringe la mano: «Grandissimo, Ferro. Sempre grande, cazzo, sei sempre il più grande!» Ferro si allontana sculettando, tra le risate degli avvocati.

  Non ha mai perso una scommessa con il fanclub. Può mica deluderlo, il fanclub, quelli sono contenti, se perdono. Le scommesse sono incentrate sulla più assoluta lealtà, che spesso non c’è modo di verificare l’oggetto della scommessa, ma nessuno oserebbe mai barare. Non è mica un fatto di soldi. È una questione di etica personale.

  Di scommesse, Ferro ne ha in corso due. Una specifica con Garbarino, un’altra più generica con gli avvocati. Tutte e due, quella generica e quella specifica, hanno come oggetto la burrosa barista Sonja da Lecce.

  È ora di darsi da fare.

  Ferro inizia a sciorinare tutto il repertorio, tra l’entusiasmo incontenibile del fanclub. Prepara cocktail a ritmo di danza, fa roteare bicchieri nell’aria, a ogni giochetto di prestigio scruta di sbieco le reazioni di Sonja dai riccioli neri.

  Dalla pista latino-americana la musica arriva potente fino al bar, Ferro ne approfitta per iniziare il marcamento stretto. Ogni volta che sfiora Sonja volando da un cliente all’altro, accenna un passetto di ballo cingendola qualche istante per la vita. Lei ride. Non si sottrae. Buon segno.

  Ferro schizza da un angolo all’altro del bancone, saluta una faccia nota, poi un’altra faccia nota, prepara un gin lemon, cinge di nuovo Sonja, accenna a un altro passo di danza, stringe di più. Ogni tanto ammicca verso il fanclub, gli avvocati sghignazzano «Grandissimo Ferro, è in formissima», esultando per ogni sua coreografia spettacolare.

  Si sente a casa, Ferro. Lui è l’allenatore-giocatore del Pink Cadillac.

  Dopo un numero particolarmente elaborato, cinque tequila bum bum preparate con un magnifico gioco di piroette, Ferro alza gli occhi adrenalinico. Guarda il fanclub in estasi, Sonja ammirata, il mare di teste che sciama tra i due bar, il mare di teste nelle due piste, il mare di teste nella piscina piena di schiuma, e non c’è nessuna scossa cosı̀ forte e soddisfacente, non c’è niente di paragonabile al momento in cui il suo locale vibra in perfetta sincronia, come un organismo vivente. Niente di paragonabile.

  Ferro vince la scommessa col fanclub poco prima della chiusura, quando il Pink Cadillac è ormai quasi vuoto.

  Lui e Sonja scompaiono nei bagni riservati al personale. È un gioco da ragazzi. Lei è pronta e cedevole come un’ostrica sul bagnasciuga.

  Sonja lo invita a casa sua. Lı̀ Ferro va in rete altre due volte, sul letto a una piazza e mezzo sotto i poster di Ligabue. Va in rete prima nella porta canonica, poi nella porta sul retro.

  Vincendo, con quest’ultima marcatura, la specifica scommessa con Garbarino.

  Dopo, Sonja si addormenta quasi subito. Ferro rimane un po’ a guardare la radiosveglia che segna le 4:49, i numeri fosforescenti che illuminano Il piccolo principe sul comodino. Poi si addormenta, anche lui.

  Fa un sogno torbido e inquietante.

  Sogna di essere un carcerato, di evadere scavando un buco nel muro, un buco che dalla cella porta a un cunicolo naturale scavato nel cuore di una montagna. Un cunicolo cosı̀ stretto che a stento ci può strisciare dentro un uomo.

  Ferro scappa dalla cella strisciando all’indietro, sulla schiena, nel sogno. Puntellandosi con i piedi, aiutandosi con i gomiti.

  Non sa perché deve muoversi in quella scomoda posizione. Sa che il tunnel nella roccia è troppo stretto per potersi girare, e allora va avanti, sempre avanti, talloni, gomiti, talloni, gomiti, con la testa protesa nel buio. Striscia all’indietro per chilometri e chilometri.

  Ha un attacco di panico. Artiglia la roccia, nel mondo dei sogni. Artiglia il cuscino, nel mondo reale.

  Si è appena reso conto di avere una montagna, un’intera montagna sopra di sé. Di avere il peso di un’intera montagna, tutta sopra la sua povera carne e le sue fragili ossa. Rimane fermo a lungo, il naso e la bocca a pochi millimetri dalla roccia fredda.

  Poi sente un rumore proveniente dalla direzione della cella, la direzione dei suoi piedi. Qualcosa che striscia nel cunicolo.

  Come un verme enorme e disgustoso, che si avvicina con calma, senza alcuna fretta.

  Allora si muove più veloce, sempre più veloce, finché non ha i gomiti scorticati, la schiena scorticata, le mani scorticate, le scarpe lacerate sui talloni. Poi vede una luce. Impazzito di gioia continua a strisciare all’indietro, verso la luce ora fortissima.

  Finalmente esce dal t
unnel, con la testa e le spalle. Respira l’aria pura, guarda il cielo su di sé. Poi gira la testa verso il basso, per quanto può, con il corpo quasi tutto nel cunicolo.

  Il tunnel si apre sulla parete di una scogliera liscia. A picco sul mare in burrasca.

  Che infuria, centinaia di metri più sotto della sua testa. La sua testa sbuca ridicolmente nel bel mezzo della parete liscia della montagna.

  E lo strisciare disgustoso del verme, ormai, è vicinissimo ai suoi piedi.

  Si sveglia col cuore in gola, tremante, sudato. Fatica un po’ a uscire dall’incubo del verme e del cunicolo, a ritrovare la concretezza del cuscino, di Sonja addormentata, della radiosveglia che segna le 4:58.

  Si alza senza svegliare la ragazza, si fa una doccia.

  Rimane a lungo sotto il getto d’acqua. Disegnando dei cerchi concentrici col dito, sulla cabina appannata dal vapore.

  Si aspettava di veder arrivare la polizia al Pink Cadillac, a un certo punto della serata. Non che lo temesse. Se lo aspettava, tutto qui.

  Certo, Alex era nel locale da solo, senza amici. Magari era rimasto l’unico della sua compagnia a non essere scappato dalla città rovente, magari aveva cercato il fresco dei colli senza dirlo a nessuno.

  In ogni caso, fosse anche arrivata la polizia, non ci sarebbero stati problemi. Ferro avrebbe potuto dire, sı̀, mi pare di aver visto un ragazzo con la maglietta dei Sex Pistols, me lo ricordo per via della maglietta, gli ho servito una birra, poi l’ho perso nella folla, io sono stato dietro il bancone fino alla chiusura. Alibi perfetto.

  Nessuno aveva visto Ferro entrare nei bagni, pochi minuti dopo Alex. I bagni un po’ isolati dal resto del locale, dietro gli alberi alti, nel buio di una notte senza luna.

  Nessuno l’aveva visto uscire dai bagni con l’addormentato Alex, di questo era assolutamente certo. Nel caso aveva la scusa pronta, «Ha alzato un po’ il gomito» avrebbe detto, «lo sto portando a prendere un po’ d’aria per vedere se si riprende». Ma non aveva incrociato nessuno.

  Era passato da dietro, dalla staccionata tra gli alberi, per non incrociare il custode. Era emerso dalle ombre, aveva aperto in fretta il bagagliaio della macchina, la macchina lasciata nell’angolo più oscuro e remoto del parcheggio. Aveva chiuso Alex nel bagagliaio, attento a eventuali movimenti del custode. Poi era sgusciato di nuovo nell’ombra, sotto la staccionata, per emergere quasi subito al bancone del bar, allegro e compagnone. Pronto a fare giochetti alla Tom Cruise fino alla chiusura. Per poi rimettersi in macchina, guidare fino alla baracca, con Alex addormentato nel bagagliaio.

  Ferro esce dalla doccia, si riveste silenziosamente, senza svegliare Sonja.

  Esce. L’aria della notte è ancora tiepida.

  Guida con calma fino alla baracca in mezzo ai monti. Lascia l’auto accanto al sentiero, spegne il motore e i fari, ma non scende subito. Prima apre il portagioie, fa un altro tiro di coca. Poi indossa la maschera rossa e nera di Darth Maul, ed entra nella baracca.

  Alex ha smesso di strillare. Ora respira come un mantice, fortissimo, con un fremito violento da cavallo. Ha vomitato sulla sua stessa faccia, sui jeans, sulle scarpe.

  «Ve’ che schifo» si lamenta Aldo Ferro, cercando un paio di guanti. «Fai schifo, fai, ve’ che macello.» Prende tra due dita la faccia scorticata dalle ginocchia di Alex, la lava sotto il rubinetto. Accende la telecamera, si siede di fronte al ragazzo.

  Lo fissa in silenzio per qualche minuto, dritto negli occhi verdi, vacui e persi nella carne viva. Poi dice: «Ho pensato che non mi piaci per niente, conciato cosı̀».

  Si rigira tra le dita la maschera molliccia che era la faccia di Alex, poi continua.

  «Ti spiego. Da quando sono rimasto solo ho dovuto improvvisare, prima era il Dentista che decideva tutto, io mi limitavo ad ascoltarlo e a imitarlo. Era lui ad avere tutte le idee più creative, lui, lui aveva studiato.» S’interrompe, raddrizza la maschera da Darth Maul, poi riprende. «Lui aveva letto tutti quei libri medievali, sai, le torture della Santa Inquisizione. Riuscivano a fare delle cose che non ci crederesti, tecniche tramandate dall’antica Atlantide, diceva il Dentista. Gran cultura, il Dentista.» Si alza in piedi, apre un cassetto, prende una busta di plastica. Torna a sedersi, con la busta di plastica in una mano e la faccia di Alex nell’altra.

  «Quelli sapevano tener vivo e sveglio un uomo svuotato delle viscere, ti rendi conto? Tenerlo cosciente, anche dopo averlo ridotto a un tronco e un cranio semivuoto.» Apre la busta di plastica, lentamente, senza fretta. «Il Dentista, i metodi della Santa Inquisizione li conosceva tutti. Sapeva portare all’inferno un uomo ancora vivo. Avevamo fatto una scommessa, una volta, sul lavavetri. Lui diceva di poterlo tenere in vita più di dieci giorni, io dicevo che era impossibile, troppi, dieci giorni. Be’, sai quanto lo ha tenuto in vita? Quattordici giorni. Quattordici. E se non esageravo, se non mi facevo trasportare dall’entusiasmo, lo tenevamo al mondo ancora. Anche se di quel negrazzo, ti giuro, era rimasta meno della metà.»

  Fa una lunghissima pausa. Alex lo fissa con occhi da mucca al macello, senza produrre nessun suono.

  «Comunque» continua Aldo Ferro «il Dentista non c’è più. La baracca ce l’ho in mano io, adesso, e devo improvvisare. Prendere idee qua e là, dai film, dai fumetti, capisci. E ho deciso che, con la faccia scorticata cosı̀, fai veramente schifo al cazzo.»

  Giocherella un altro po’ con la maschera molliccia. «Perciò» scandisce, piano, trattenendo un sogghigno «ho deciso di riattaccarti la faccia.»

  Apre la busta di plastica.

  Prende il martello.

  E la scatola di chiodi.

  «Com’è che diceva il Dentista?» pensa Ferro a lavoro finito, sdraiato sul letto a fissare il soffitto. «Com’era quell’espressione che usava sempre?»

  «La libbra di carne...» diceva. «La libbra di carne, ci meritiamo la nostra libbra di carne. Lavoriamo come muli, diceva, e dopo aver lavorato come muli, ci meritiamo la nostra libbra di carne.» Poi metteva su una delle sue cassette, snuff movies, si chiamavano, a voler usare i termini tecnici.

  Per un po’ erano state belle, le cassette. Poi si erano annoiati, Ferro e il Dentista.

  «Non c’è fantasia», aveva sbuffato il Dentista di fronte all’ennesima tortura vistosamente derivativa, «non sanno stimolare lo spettatore. Io, saprei come fare.»

  E avevano iniziato a farsele da sé, le cassette.

  Lı̀, nella baracca. Con i due congelatori sotto la botola, con le videocamere. E tutti gli intrugli del Dentista.

  «E ora sono solo» pensava Ferro guardando il soffitto.

  Quel coglione, quel povero coglione. Il Dentista e sua figlia, gli arriva una partita di pasticconi mai sentiti nominare, mai testati, e quei due deficienti buttano giù tutto come fosse aspirina.

  In particolare gli dispiaceva per la figlia del Dentista. Sempre piaciuta la figlia del Dentista, c’aveva un culo, un culo da farci dei bei lavori di precisione.

  Una volta che stava guidando in mezzo a un temporale l’aveva vista, la figlia del Dentista. Fuori dalla palestra, alla fermata dell’autobus.

  Le aveva dato un passaggio, dopo un po’ aveva provato a baciarla. Aveva insistito e insistito, oh, quella non si era lasciata sfiorare, gli aveva concesso giusto una seghina molle e lenta, stando attenta a non sporcarsi.

  «Figa di legno» aveva pensato Ferro intanto che veniva.

  Il Dentista, di pozioni magiche, ne aveva accumulate per almeno dieci anni di filmini.

  Un po’ le tenevano nella baracca, un po’ nel vecchio appartamento da scapolo di Ferro. Di quell’appartamento pieno di pozioni magiche e di videocassette sua moglie, ovvio, non sapeva niente. Ogni tanto Ferro ci faceva un’apparizione, prelevava qualche pozione magica, depositava un nuovo video, e poi spariva.

  Nell’appartamento al ventesimo piano, fuori Borgo Panigale.

  Ferro scende tardi, già a metà pomeriggio. Ammira il lavoro, gli occhi verdi di Alex smorti e vacui dietro quella che era stata la sua bocca. Il viso inchiodato al contrario, perfettamente teso ai quattro angoli della faccia.

  Per raggiungere la perfe
zione, Alex dovrebbe mugolare qualcosa tipo «Usshidimi, usshidimi, per l’amor di dio». Invece, tace. Nemmeno il brontolare del suo respiro, solo un rumore sordo, ronzante, dal fondo della gola.

  Ferro va in cucina, riempie un bicchiere d’acqua del rubinetto. Torna da Alex, beve piano, a piccoli sorsi, sollevando appena la maschera di Darth Maul. Poi parla, a voce bassa.

  «Ti devo lasciare fino a stasera, piccolo giglio. Devo andare all’appartamento del Dentista, che la prossima tappa, nello schema che sto seguendo, è il taglio dello scroto.» Si avvicina. «Solo, piccolo fiore, col taglio dello scroto esce un casino di sangue. Il Dentista era bravo a gestire queste cose, l’emorragia era il suo pane quotidiano, io, in confidenza, sono un po’ meno attrezzato. E allora mi serve un po’ di aiuto dalla scienza, piccolo usignolo, vado a prendere qualche pozione magica supplementare, che non voglio mica che mi muori dopo tanto lavoro di forbici e coltello.» Poi si congeda: «Saluta i tuoi gioielli, bimbo, che sono le ultime ore che passate insieme».

  Uscendo, Ferro si pente di quella frase cosı̀ volgare. Ha rovinato tutto un discorso accuratamente studiato negli accenti, nel ritmo, nelle cadenze, cazzo, era il Dentista, quello bravo a parlare. Gli tocca cancellare qualche secondo di audio dalla videocassetta.

  Prende un altro po’ di coca dal portagioie. Punta la macchina verso la città.

  Ferro ha una tentazione, una tentazione fortissima.

  Rischiosa, certo, rischiosa da morire. Ma fedele allo schema.

  Dopo il taglio dello scroto, nel piano originario, per Alex non c’è futuro. Ci si è già divertiti abbastanza insieme, il video è venuto bene, si può chiuderla lı̀. Ferro non ha ancora pensato al modo più esaltante di ucciderlo, ma ogni cosa a suo tempo.

  Solo, sta nascendo un’idea folle, nella sua mente esaltata dalla coca e dall’adrenalina. Il modo più esaltante di ucciderlo, è lasciarlo vivo.

 

‹ Prev