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Blackout

Page 5

by Gianluca Morozzi


  La sua famiglia era diventata una bomba a orologeria. Sua madre era capace di svegliarsi nel cuore della notte per urlare insulti al supermaxieroe, di piombare in camera di Francesca alle quattro del mattino, accendere tutte le luci e strillare: «È colpa tua! è tutta colpa tua! Dovevo cagarti fuori! dovevo cagarti fuori!»

  I momenti di tregua, Francesca lo sapeva, potevano essere spezzati da qualunque minimo pretesto. La lavatrice che perdeva acqua. Il microonde guasto.

  Un niente, bastava. A far scattare il timer che ticchettava nascosto in quella casa.

  E dopo era stato il turno di Tomas, nella gara di confidenze di quel primo incontro.

  Le aveva raccontato dei suoi genitori impiegati di banca, di quella loro tirannia morbida e sorridente, del modo in cui accettavano e tolleravano tutto, i capelli lunghi, il tatuaggio, il piercing, senza il minimo problema.

  Con quel loro sorrisetto new age. Con quello sguardo che significava: «Ma sı̀, sei giovane e idealista, fatti tutti i piercing che vuoi, copriti di tatuaggi, fatti crescere i capelli fino ai piedi, tanto il tuo destino ce l’hai marchiato addosso dal giorno in cui sei nato, sei destinato a diventare come noi, guarda come siamo felici, non c’è bisogno di costringerti a fare niente, non c’è bisogno di urlarti in faccia, non siamo quel tipo di genitori, tanto lo sappiamo come funzionano le cose, finirai la scuola e ti iscriverai a economia e commercio, farai colpo sulle studentesse del primo anno grazie alla tua aria genericamente alternativa, prenderai la laurea con un buon voto, non necessariamente il massimo dei voti, comunque un buon voto, farai finta di intraprendere una qualche carriera creativa, chitarrista, disegnatore di fumetti, e per mantenerti comincerai ad accettare qualche lavoro temporaneo, ma per poco, dirai, giusto il tempo di pagarmi il distorsore nuovo, e senza accorgertene ti troverai a lagnarti della sveglia la mattina e degli sbadigli la sera, al pub con gli amici, ti scoprirai incapace di rinunciare allo stipendio a fine mese, e poi accetterai il posto nella nostra banca, quella banca che ci ha dato da mangiare per tutti questi anni, la banca che ci ha aiutati a estinguere il mutuo sulla casa, ancora due anni e poi lo abbiamo estinto, il mutuo sulla casa, accetterai il posto in banca, e un direttore del personale amichevole e giovanile ti farà un discorso amichevole e giovanile, ti dirà ’Sai, in confidenza, io ho sei tatuaggi sotto questa camicia da duecentocinquanta carte, quando esco dalla banca io sono un’altra persona, salto sulla moto in jeans e maglietta e vado a ubriacarmi nei pub, solo, ti insegno il trucco, qui dentro devi travestirti, cambiare la tua esteriorità, solo quella, ma ricordati, questa camicia e questa cravatta e questi pantaloni non spostano una virgola di quello che sono, io quando esco da qua salto sulla moto, mi metto in jeans e maglietta e vado in una discoteca di Brescia a pogare l’hardcore’, e dopo parlerete di musica, tu e il giovane direttore del personale, accetterai di tagliarti i capelli e togliere il piercing, i tatuaggi mica si vedono sotto la giacca e la camicia, e dopo cinque anni ti accorgerai che la banca è la tua vita, che hai una famiglia e un mutuo da estinguere e sei felice cosı̀, sarai come noi, esattamente come noi, non vedi come siamo felici, non vedi come sorridiamo, che vibrazioni positive abbiamo?

  «Quindi fatti crescere i capelli quanto vuoi, copriti di tatuaggi, riempiti di piercing. Non ti diremo niente, non ci arrabbieremo. Diventerai come noi.

  «Non vedi come siamo felici?

  «Non vedi come sorridiamo?»

  E dopo quelle confessioni sulle rispettive famiglie, sulla panchina, al freddo, Tomas aveva accompagnato Francesca fino a casa. Si erano salutati con tre baci sulle guance. Poi aveva camminato un’ora fino alla stazione, e lı̀ aveva scoperto di aver perso l’ultimo treno per Bologna, di dover aspettare fino alle quattro del mattino.

  Non se n’era nemmeno accorto, non gli era pesato, aspettare il treno fino alle quattro. Non lo preoccupava la scuola, non aveva sonno, non aveva freddo.

  Pensava a Francesca. Carico, euforico, una cometa che squarciava il cielo opaco sopra la stazione.

  Tomas e Francesca, dopo quel primo incontro a Parma, avevano stretto le maglie della comunicazione a distanza. Telefonate, messaggini, squilli sul cellulare, posta elettronica, erano diventati ossessivi.

  Si erano incontrati altre volte, a Bologna, a Parma, a metà strada. Parlavano spesso dell’incubo nevrotico che era la famiglia di Francesca, delle dorate sabbie mobili che erano i genitori di Tomas. Qualche volta lei lo aveva salutato con un sorriso tenue, dicendo: «Ci sentiamo domani, se stanotte mia madre non mi accoltella nel sonno perché il rubinetto del bagno perde». Scherzava. In parte.

  «Un giorno scappiamo via» aveva detto lui una sera di primavera, mentre si godevano l’aria finalmente tiepida al parco Ducale. «Un giorno scappiamo, dai, ce ne andiamo a Londra, ti piace Londra?»

  E lei, sorridendo: «Perché non Amsterdam?»

  E lui: «Andiamo a Londra poi ad Amsterdam».

  E lei: «E Parigi, ci fa schifo a noi, Parigi?»

  E lui: «Andiamo ad Amsterdam, a Parigi, a Londra, poi da Londra partiamo per il Messico, cerchiamo il peyote in Messico, non torniamo più, non torniamo più, un giorno, un giorno scappiamo via».

  Una volta si erano confessati le rispettive fobie, sdraiati sulla spiaggia a guardare il cielo, in un mattino di scuola agilmente saltato.

  Tomas aveva iniziato a parlarle dei suoi attacchi di vertigini, di quell’estate che era andato in Irlanda a imparare l’inglese, e aveva fatto un’escursione alle Cliffs of Bunglass, e solo ad avvicinarsi al ciglio di quelle scogliere a picco sul mare aveva iniziato a tremare di terrore, bianco, le gambe molli, un attacco di panico come mai aveva avuto in vita sua.

  Francesca si era alzata di scatto, un gomito sulla sabbia, gli occhi spalancati.

  «Oddio» aveva detto, «mi è successa la stessa cosa, la stessa identica cosa, mentre guardavo un documentario sulle scogliere.»

  E allora Tomas aveva scodellato le sue teorie sulla reincarnazione. Si erano messi a fantasticare, a inventarsi una storia che giustificasse quella comune fobia per le scogliere. In un’altra vita, avevano ipotizzato sdraiati sulla spiaggia, Francesca era stata la moglie di un vecchio e ricco proprietario terriero, Tomas un affascinante pastore. Il vecchio li aveva sorpresi insieme, e li aveva fatti gettare da una scogliera.

  «O meglio» aveva rilanciato Tomas, ormai preso dall’ingranaggio, «il vecchio ci ha fatti inseguire dai suoi sgherri, noi siamo scappati verso le scogliere, e con l’oceano davanti e i bastardi alle spalle abbiamo fatto come Thelma e Louise, ci siamo gettati giù, mano nella mano.»

  Francesca aveva approvato, gli occhi fissi sulle nuvole. Poi si era girata a fissarlo, ironica.

  «E chi ci dice che io ero la moglie del ricco proprietario terriero e tu un affascinante pastore?» aveva suggerito. «Magari in quell’altra vita io ero l’affascinante pastore, e tu la moglie del vecchio riccastro.»

  «Niente in contrario» aveva accettato Tomas.

  «Baldracca» aveva riso Francesca.

  «Porco» aveva replicato lui.

  Ormai ne era convinto, Tomas.

  Nello stesso modo in cui aveva perso di vista Lisa Limone l’ultimo giorno di scuola e l’aveva ritrovata cinque anni dopo su un divanetto striato di luci stroboscopiche, cosı̀ aveva lasciato Francesca all’impatto con l’acqua, dopo un volo mano nella mano dalla scogliera, e l’aveva ritrovata dopo un imprecisato numero di cicli di vita, morte e rinascita, dietro il bancone di un pub di Parma. Con la maglietta di Matrix addosso, il giorno in cui suonava una cover band chiamata Red Mosquito. Non c’era altra spiegazione. Era cosı̀. Per forza.

  Tomas sfreccia per le stradine che hanno nomi di presidenti, in sella alla sua mitica vespa arancione. Con in testa le parole di Thunder Road, che Francesca aveva trovato bellissime. Specie l’ultima frase, sottolineata ed evidenziata in giallo.

  «È una città di perdenti» diceva l’ultima frase, quella che piaceva tanto a Francesca.

  È una città di perdenti, e io me ne sto andando per vincere.

  La vespa arancione svolta davanti al centro commerciale chiuso. Aggira un Transit
blu parcheggiato mezzo sul marciapiede e mezzo in strada. Si incunea tra i due palazzi gemelli, le torri bianche che svettano sul quartiere deserto e silenzioso.

  La vespetta arancione era stata un colpo di fulmine. Di quelli da primo giorno di primavera, quando Bologna si era scongelata dopo il lungo inverno e lui l’aveva vista, lı̀, abbandonata, sotto il portico di via del Borgo.

  Quella mattina, anziché a scuola, si era rintanato in un negozio di strumenti usati. A rimirare certe Fender, certe Gibson, certe acustiche, tutte le chitarre bellissime che non aveva i soldi per comprare.

  Tomas aveva in testa un sacco di idee, canzoni, abbozzi di testi, ritornelli scarabocchiati sui diari di scuola. Un giorno avrebbe avuto i soldi per comprarsi una Fender, una Gibson, un’acustica Takamine, avrebbe formato un gruppo di quelli seminali, devastante, leggendario.

  Immaginandosi sul palco a incendiare il pubblico con i suoi riff taglienti, aveva attraversato via del Borgo. Alla jeanseria di fronte c’era un cappello a poco prezzo che aveva tutta l’aria di voler stare in testa a un aspirante prodigioso chitarrista.

  E aveva visto la vespa arancione. Sotto il portico.

  Due settimane dopo era tornato al negozio di strumenti usati, aveva rimirato le Fender e le Gibson, aveva attraversato la strada. La vespa arancione era sempre lı̀, nella stessa, precisa, identica posizione.

  Non aveva resistito. Era entrato nella jeanseria.

  Il commesso con la maglietta dei Carcass stava leggendo una rivista di grind metal, i piedi sopra la cassa, un leccalecca in bocca. «Scusa» gli aveva chiesto Tomas, «non sai mica di chi è la vespa arancione che sta qui fuori da due mesi, se il proprietario ha intenzione di venderla, per caso?»

  Il commesso si era tolto dalla bocca il leccalecca mezzo consumato, aveva sghignazzato: «Due mesi? È lı̀ da un anno, quella vespa, i vigili bastardi non la cagano nemmeno più, quando vengono a multare i motorini sotto il portico fanno una strage, ma quella vespa nemmeno la guardano più, le merde umane».

  «Ma il proprietario?» l’aveva incalzato Tomas. «Si sa chi è il proprietario?»

  Il ragazzo aveva ridacchiato di nuovo, si era guardato intorno. Il negozio era vuoto, nessuno li ascoltava.

  «Guarda» aveva suggerito piano, «secondo me, o è rubata o il proprietario è schiattato, non lo so, fossi in te verrei qua di notte con un seghetto e me la porterei via, ci togli la targa, ce l’hai un amico che fa il meccanico?»

  E si era rimesso a leggere la rivista di grind metal, con il leccalecca in bocca e i piedi sulla cassa.

  Alle cinque di quella stessa notte, Tomas era comparso come un fantasma in via del Borgo. Con l’amico Culodigomma Famoso Meccanico, cosı̀ battezzato per la canzone di De Gregori, armato di tutti gli strumenti del mestiere.

  Pochi giorni nell’officina di Culodigomma, e la vespetta arancione era nuova e splendente.

  La vespetta arancione scende giù per lo scivolo del garage. Nel ventre scuro del palazzo bianco.

  Sotto venti piani bruciati dal sole.

  Tutto aveva iniziato a rotolare velocissimo una notte di inizio agosto, quando la corda si era spezzata, quando lui e Francesca avevano fatto il salto giù per la rupe, l’elastico si era teso allo spasimo e non era stato più possibile tornare indietro. Non avevano potuto fare altro che andare incontro all’oceano insieme, abbracciati, lontani da tutto, lontani da tutti.

  Tomas dormiva sempre col cellulare acceso accanto al cuscino, pronto a rispondere ai messaggi di Francesca o ai collaudati codici di squilli.

  Quella notte lei gli aveva telefonato alle due e mezzo. Disperata, stravolta.

  Scagliato di forza fuori dal sonno, Tomas ci aveva messo qualche secondo a distinguere delle parole tra i singhiozzi.

  «Basta, basta, basta» stava dicendo Francesca, «mi butto dalla finestra, mi butto dalla finestra... basta, è troppo, è troppo. »

  Tomas era scattato a sedere sul letto. L’elettricità gli aveva drizzato i peli sulla schiena, sinuosa come un serpente.

  «Stai calma» aveva iniziato a ripetere come un nastro rotto, «stai calma, stai calma, adesso vengo da te, vengo da te, aspettami, mi vesto, salto sulla vespa, prendo un treno, vengo a Parma, stai calma, stai calma.» E lei aveva continuato a singhiozzare: «No, no, mi butto cosı̀ finisce tutto, mi butto che cosı̀ finisce tutto, è troppo, è troppo». E lui di nuovo: «No, no, vengo da te, stai calma, stai calma, vengo da te». E lei: «È troppo, è troppo, non ce la faccio più, non ce la faccio più».

  Alla fine non c’era stato bisogno di saltare sulla vespa, e poi su un treno, e poi fino a casa di Francesca. Era bastato restare stretti e allacciati per tutta la notte, distanti e vicinissimi, aggrapparsi l’uno alla voce dell’altra, lasciar disperdere la tenebra, aspettare insieme il sole.

  Lui era anche riuscito a farla ridere, intorno alle cinque del mattino. Un riso misto a pianto, va bene, ma intanto il peggio era passato. La notte, per quella notte, era finita.

  Ma la corda tesa troppo a lungo si era spezzata, una volta per tutte.

  E Tomas e Francesca avevano iniziato a progettare la fuga.

  «Queste due corsie ci porteranno ovunque vogliamo andare» diceva quella canzone di Bruce Springsteen, quella che il cugino grande di Tomas gli aveva messo davanti agli occhi. «Salta su, prendi le mie mani, tienti stretta» diceva la canzone.

  Andarsene, dovevano andarsene, scappare via, «questa città è una trappola mortale» diceva quell’altra canzone, «questa città ti strappa le ossa dalla schiena, un giorno troveremo quel posto dove vogliamo veramente andare e cammineremo nel sole» diceva, «ma fino ad allora vagabondi come noi sono nati per correre», andarsene, andarsene, scappare via, via, via.

  La domenica di ferragosto, avevano deciso. La domenica di ferragosto era perfetta.

  I genitori di Tomas erano a un campus estivo new age, un corso di autostima con camminata finale sui carboni ardenti. Non sarebbero tornati prima di martedı̀.

  Tomas avrebbe lasciato un biglietto prima di andarsene, si sarebbe scusato per aver rubato i soldi dal cassetto, tra le altre cose. I suoi lo avrebbero capito e perdonato, magari. Pieni di buone vibrazioni come sarebbero stati, senza dubbio, dopo il campus estivo con camminata sui carboni ardenti.

  I genitori di Francesca, quella sera, andavano a cena dal fratello dell’ex supermaxieroe. Ufficialmente per riallacciare certi rapporti che erano stati parecchio tesi, negli ultimi anni. In realtà per chiedere un prestito a questo zio, proprietario di due ristoranti e vicino all’apertura del terzo.

  Il piano era perfetto.

  Tomas sarebbe salito sull’interregionale delle otto, alle otto e cinquantaquattro sarebbe sceso a Parma, dove già ci sarebbe stata Francesca. Pronta a saltare con lui sul treno delle nove e venticinque, il treno che li avrebbe portati via.

  Francesca avrebbe lasciato anche lei un bigliettino ai genitori. L’avrebbero trovato di ritorno dalla cena con lo zio, subito dopo essersi visti negare un prestito - non c’erano dubbi in proposito -, i nervi a fior di pelle, acidi e agitati. Ragione ulteriore per fuggire, andare, andare via, con quattro soldi, anche senza una meta. Una volta lontani dal veleno che in modo diverso li stava facendo morire, insieme, qualche posto l’avrebbero trovato.

  Tomas lascia la vespa in garage. Fa per chiudere il portellone. Si ferma.

  Potrebbe non vederla più per un bel po’, la sua vespa. Potrebbe anche essere l’ultima volta che la vede.

  Ha deciso di andare in stazione in autobus. O a piedi, addirittura. Non ha intenzione di lasciar morire la vespa fuori dalla stazione, di abbandonarla al suo destino. Meglio un autobus estivo che non passa mai. O un’ora e mezzo a piedi sotto il sole.

  Non ce la fa ad aspettare tutte quelle ore in casa, in attesa di saltare sul treno delle otto. È capacissimo di uscire una mezza vita prima del necessario, di camminare fino alla stazione, con la sacca da viaggio in spalla. Tutto, pur di accorciare l’attesa.

  Sospira, guarda la mitica vespa forse per l’ultima volta.

  Torna in garage, accarezza il telaio arancione, dice: «Ciao vecchia, comportati bene
, non fare niente che io non farei».

  Poi, lentamente, con un po’ di tristezza, richiude il portellone.

  Sale la scala di pietra che porta all’atrio, ripensa al viso deliziosamente asimmetrico di Francesca, a come sarà bella quando salirà sul treno, alla stazione di Parma.

  A quel pensiero, i suoi piedi decollano.

  Perché è il giorno più importante della sua vita, questo. Poche ore di attesa, poche ore da far passare in qualche modo.

  Sta per levitare fino all’ascensore, euforico, leggero, quando scorge con la coda dell’occhio una ragazza fuori dal portone. Armeggia con le chiavi, ha un’uniforme da barista o qualcosa del genere. La conosce, è quella del diciannovesimo piano, quella con la bocca minuscola e gli occhioni enormi. Quella che sua madre sostiene essere lesbica al cento per cento.

  Tomas sta per tirare dritto, ma è talmente felice e leggero che ha un momento di galanteria. Le apre il portone.

  E sorride.

  Tomas odia stare in ascensore con gli estranei. Sta quasi per imboccare le scale e farsela a piedi, ma poi ci ripensa. «La ragazza crederà che sono un cafone e che rifiuto la sua compagnia, che figura ci faccio?» si domanda pieno di vibrazioni galanti e gentili, un perfetto sincronizzato piccolo lord.

  E rimane ad aspettare con la presunta lesbica. «Pochi secondi in ascensore» pensa, «che sarà mai.»

  Stanno aspettando l’ascensore, lui e la probabile lesbica dai capelli verdi, quando il portone si apre di nuovo e vomita un tizio dalle basette assurde.

 

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