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Blackout

Page 8

by Gianluca Morozzi


  E allora, cazzo, trasformiamo il fango in oro!

  Cominciamo lo show!

  Ferro si stampa sulla faccia un sorrisetto sardonico e sicuro. Squadra Tomas, fermo e zitto, schiacciato contro la parete al lato opposto della cabina. In mezzo a loro Claudia sta cercando di sedersi nel senso della larghezza, incastrando le gambe nel poco spazio a sua disposizione

  «Bella maglietta» osserva Ferro, parlando molto lentamente. «Ti piace Bruce Springsteen? È il tuo idolo, Bruce Springsteen, è il tuo cantante preferito?»

  Tomas si riscuote, alza la testa. «Sı̀. Cioè, mi piace Born to Run.»

  Ferro si gratta la coscia, proprio sotto il coltello a serramanico in fondo alla tasca. «È uno a posto, Bruce Springsteen. È uno che conosce le giuste proporzioni tra il maestro e l’allievo. Sai qual è invece il mio cantante preferito?»

  «Elvis» interviene Claudia abbracciandosi le ginocchia. «Ho tirato a indovinare, eh.»

  «Chiaramente» sorride Ferro. «Sai quante canzoni di Elvis ha rifatto, Bruce Springsteen? Un sacco. Good Rockin’ Tonight. Viva Las Vegas. Can’t Help Falling in Love. Follow that Dream... Io colleziono tutti i pezzi di Elvis ripresi da altri artisti, tutte le versioni, anche le più irrispettose e degradanti. Il tuo Bruce Springsteen non ha la voce di Elvis, d’accordo, nessuno ha la voce di Elvis, però si sente che canta quelle canzoni con rispetto. A me piace vedere il rispetto nei confronti dei maestri. E poi lo sai, no, che Bruce Springsteen ha scavalcato il cancello di Graceland per incontrare Elvis?»

  «Non lo sapevo» ammette Tomas, che intanto pensa. «Surreale, veramente surreale. Stiamo facendo conversazione come fossimo in fila all’ufficio postale, parliamo dei nostri miti musicali anziché gridare o cercare un modo per uscire da qui, che alle otto ho un treno che mi parte, cazzo.»

  «Lo so io e non lo sai tu» ridacchia Ferro. «Allora te la riassumo. Il tuo amico Bruce ha scavalcato il cancello di Graceland per incontrare Elvis. È stato bloccato da un guardiano, e allora ha dovuto spiegare al guardiano chi era e cosa voleva, capisci? Era già famoso, ma ha accettato di farsi trattare come l’ultimo dei fan molesti per incontrare il suo idolo. Per questo dico che lo rispetto, il tuo amico Bruce.» Poi cambia tono, mormora come un vecchio precettore: «Se mai avrò un figlio, non lascerò mica che cresca ascoltando robaccia radiofonica preconfezionata. Se mai avrò un figlio, gli farò ascoltare il Re. Lo farò crescere con la musica giusta».

  «Non ha figli, lei?» indaga Claudia.

  Ferro mostra orgoglioso l’anulare sinistro. «Niente figli. Niente moglie. Niente fede» che infatti la fede se l’è tolta già in macchina, mentre correva a marcare la barista del Pink Cadillac, «sono libero come un tenero uccellino. Mi piace godermi la vita senza vincoli, senza legami» e dopo il colpo alla botte, rifila il colpo al cerchio «ma ho sempre il cuore pronto per l’amore. Io mi innamoro tutti i giorni, sull’autobus, al bar, per la strada. Una volta o l’altra sarà quella buona, magari.»

  E festeggia questo cumulo di cazzate sfilando una sigaretta dal pacchetto. L’ha appena stretta tra le labbra, quando nota lo sguardo severo di Claudia.

  «Mi scusi» scandisce la ragazza. «Sarebbe meglio non fumare, qua dentro. Non c’è aria.» E aggiunge mentalmente: «Povero idiota».

  Ferro la squadra con un’espressione indecifrabile, la sigaretta stretta tra i denti. Poi conviene: «Già. Non è una buona idea». Rimette la sigaretta nel pacchetto, il pacchetto nel taschino della camicia.

  «Ci mancava solo questa» pensa Claudia, «che già non si respira, manca l’aria, si muore di caldo, merda. Avrei voglia di fumare anch’io, cazzo, mi viene voglia di rimettermi a fumare, a stare qua dentro. Proprio adesso che ce l’avevo fatta a smettere. Ce l’avevo fatta, e adesso sono qua, chiusa nell’ascensore, e ho tremendamente bisogno di una paglia. Di un bicchier d’acqua, e di una paglia. Mi sembra di essere quel personaggio dell’Aereo più pazzo del mondo, quello che diceva ’Ho scelto il momento sbagliato per smettere di fumare’. Merda.»

  Ferro ritorna svelto in sella, dopo lo scivolone della sigaretta. Deve cavalcare la tigre, tenere l’attenzione fissa su di sé.

  «Vi ho detto che possiedo tre locali?» esclama, parlando a macchinetta. «Tre locali che al Re sarebbero piaciuti, sissignore. Abbiamo dovuto fare qualche concessione al barbarico gusto imperante, va bene, dove ci sono degli investimenti poi ci devono essere dei ritorni, ovvio, non siamo mica un’associazione benefica, diamo alle masse la musica che piace alle masse, un po’ di commerciale, un po’ di sudamericana, sono pur sempre locali di intrattenimento. Però c’è sempre qualche tocco personale, qualche zampata di classe, per dire, siete mai stati al Pink Cadillac?»

  Tomas riflette, risponde poco convinto: «Mah, una volta, mi pare».

  «Be’, è mio. Dovete proprio venirci, c’è una piscina rosa a forma di cadillac, la riempiamo di schiuma e ci facciamo ballare la gente. Diventano matti, sapete? Va di moda, il ballo nella schiuma. A settembre riapriamo il Graceland e il Memphis, dopo la chiusura estiva si riparte alla grande, abbiamo un sacco di idee, a proposito, mi presento, Aldo Ferro.»

  «Tomas.»

  «Claudia.»

  «Claudia» si ripete Ferro sbirciando abilmente nella sua scollatura. «Dov’è che portano quelle uniformi? Come si chiama quel bar, quello in pieno centro?»

  C’era andato col Dentista in quel bar, ne è sicuro. Si erano seduti a un tavolino d’angolo per l’aperitivo, e mentre sorseggiavano l’aperitivo il Dentista gli aveva nominato un discografico, uno famosissimo. Aveva elencato qualche disco prodotto da questo discografico famosissimo, tutti dischi schifosamente noti e commerciali.

  Poi il Dentista aveva abbassato ulteriormente la voce: «Lo sai?» aveva sussurrato. «Anche a lui piace girare qualche filmino.»

  «Al discografico?» si era stupito Ferro.

  «Già» aveva sogghignato il Dentista. «È uno timido, li gira solo nella sua villa e con attori consenzienti, però» aveva aggiunto finendo l’aperitivo, «sarà anche timido ma ha una strasorca di moglie» e aveva continuato, sghignazzando: «Si dice anche che abbia un dobermann ben addestrato, la strasorca. Molto ben addestrato.»

  Avevano riso sguaiati, prima di avventurarsi in truci commenti sulle divise delle bariste. Poi avevano fatto i complimenti al proprietario del bar, come si chiamava quel bar?, il Vivandiere, il bar del Vivandiere.

  «Tu, Claudia, lavori da Enzo? Lo conosco, Enzo. Lavori lı̀, vero?»

  Claudia rabbrividisce, d’istinto.

  Il Porco. Grazie per avermi ricordato che esiste, il Porco. Che la giornata non era già abbastanza schifosa così.

  «Sı̀» risponde a denti stretti. «Solo per l’estate. Per pagarmi la retta universitaria.»

  «È un grande, Enzo. Salutamelo.»

  Claudia storce la bocca, ricaccia indietro la smorfia disgustata. «Presenterò.»

  «Ci andavo con un mio amico, al Vivandiere. Adesso è morto, il mio amico. Brutta storia. Ci piacevano un sacco le divise delle bariste» e ammicca a Tomas, per automatica intesa virile. «Che anche l’occhio vuole la sua parte, e il vecchio Enzo lo sapeva, come si gratifica l’occhio del cliente. Eh, un grande, il vecchio Enzo.»

  «Già» brontola Claudia, cupissima, seria in viso.

  Ora la voce di Ferro rimbomba, tra le pareti grondanti sudore, sinistra, sgradevole. «Se fossi il tuo fidanzato» dice «eh, eh, se fossi il tuo fidanzato, non ti lascerei mica andare in giro con quell’uniforme. Ti chiuderei in casa a doppia mandata, piuttosto che mandarti in giro cosı̀.»

  Claudia inarca un sopracciglio. Ci mette un po’ a elaborare una risposta ragionata e non troppo palesemente irritata, e alla fine sibila: «Ci lavoro soltanto, con questa cosa addosso. E non fornisco motivi di gelosia. In nessuna situazione».

  Neutra, precisa. Brava. Non è un cliente. Puoi anche permetterti di essere un po’ sgarbata, se vuoi. Che cazzo.

  «Be’» insiste Ferro, «valà, se fossi il tuo fidanzato, non ti farei andare in giro mezza nuda. Sicuro.» La luce verde cupo scava strane ombre sul suo viso. Adesso respira pesantemente, co
me un orso.

  Claudia scandisce seccamente le parole: «Non c’è motivo. Di essere. Gelosi». E aggiunge, dopo una pausa: «Nessun motivo».

  Tomas funge da spettatore al dialogo tra i due, in fondo alla cabina, a meno di mezzo metro da Ferro, a pochi centimetri da Claudia. Sottilmente inquieto.

  Ha l’impressione che le pareti stiano richiudendosi. Su di lui. Quelle pareti cosı̀ vicine. Cosı̀ strette. Chiude gli occhi. Cerca di pensare ad altro, a Francesca, ad Amsterdam, a qualunque cosa.

  Ferro squadra Claudia con la sua faccia di quarzo.

  Per alcuni secondi lunghissimi.

  Poi la tensione sul suo viso si allenta, le ombre si sciolgono nel morbido verde. Alza le mani in segno di resa e sogghigna: «Okay, okay, hai vinto».

  Poi tace. Si appoggia alle porte.

  Stai calmo, stai calmo, controllati. Ci sono delle priorità, rispetta le priorità.

  Non ci sarebbero problemi se fossimo soli in ascensore, io e la ragazzina con i capelli verdi. La situazione sarebbe ideale, me la farei qui dentro, in piedi, nell’ascensore fermo. Che la tensione le fa eccitare ancora di più, ’ste troie.

  Mica avrei problemi, sono ancora bello carico, mica mi ha steso, la tripletta con Sonja. Quarant’anni di gloria, sempre pronto, lancia in resta e colpo in canna. Altro che quegli sfigatini tipo il ragazzo col piercing, con quel fisichino miserabile, figuriamoci, se prova a farsi una sega sviene. Che dice di essere fan di Bruce Springsteen, lo sfigato, e nemmeno conosceva l’aneddoto su Graceland. Bah.

  Vorrei vederlo sotto il torchio di una come Sonja. Non saprebbe neanche cosa combinarci, quello lì, con un aspirapolvere come Sonja.

  Se fossimo soli in ascensore, io e la tipina, non ci sarebbero problemi. Sicuro.

  Solo, appunto, c’è anche lo sfigato.

  E io mi devo comportare bene.

  Mica posso tirar fuori il coltello qua dentro. Quando verranno a tirarci fuori, dovrò uscire dall’ascensore come un cittadino modello e irreprensibile, un anonimo vicino di casa. Mica posso sputtanarmi, mica si può indagare su quello che c’è nel mio appartamento. Mia moglie neanche lo sa che ho un appartamento in questo palazzo. Non lo sa, e deve continuare a non saperlo.

  Devo essere integerrimo, pulito e irreprensibile. Uno che ha avuto la sfiga di restare chiuso in ascensore per un’ora o due, che volete che sia, non si va sui giornali o al tg per una cosa simile. Quindi, mica posso usare il coltello.

  E poi non mi piacerebbe, farla cedere con il coltello. Per andare con una donna, Aldo Ferro non ha mai avuto bisogno del coltello.

  Al massimo, se la situazione si prolunga, chiedo al ragazzino di voltarsi dall’altra parte. Intanto che io e la barista ci facciamo un tango.

  Se vuole ci guarda, il ragazzino. Cosı̀ apprende l’uso corretto dei ferri del mestiere.

  Oppure potrei limitarmi a gettare le basi, con la ragazzina dai capelli verdi.

  Così, appena usciamo dall’ascensore, congediamo civilmente il ragazzino e la barista mi invita in casa sua eccitata come una farfalla.

  Intanto, però, devo tenere a mente la direttiva primaria. E la direttiva primaria è: uscire di qua intonso e irreprensibile. Pronto a tornare da Alex.

  Che mi aspetta buono e paziente nella baracca. Guardando il mondo da quella che una volta era la sua bocca.

  «Nessuno ha dell’acqua?» boccheggia Ferro, con la lingua di fuori come se fosse sul punto di soffocare. Tomas allarga le braccia. Claudia risponde: «Io ho solo dei biscotti».

  «Niente acqua» scherza Ferro. «Ragazzi, se non ci tirano fuori in fretta, con ’sto caldo ci ridurremo a bere le nostre urine.»

  «Che schifo» sorride nervosamente Claudia, e stirare i muscoli della faccia in quel sorriso le costa una fatica terribile. Ferro non le piace, lo trova istintivamente ripugnante. Ma con quell’uomo ripugnante deve conviverci forzatamente, in attesa dei soccorsi. E se deve conviverci forzatamente, si dice, è inutile farsi il sangue cattivo e alzare un muro a ogni sua parola. È meglio collaborare per uscire da quella situazione, si dice.

  Per cui si sforza di sorridere a quella penosa battuta delle urine.

  Ed è uno sbaglio.

  Perché Ferro interpreta quel lieve sorriso come un tacito incoraggiamento. Incalza, gasato: «Al massimo ognuno beve le urine dell’altro, però vi avviso: io in vita mia, ho fatto di tutto e provato di tutto. Mi capite? Di tutto. Non garantisco sulla purezza di quel che sgorga dal mio corpo».

  Tomas contorce la faccia disgustato, Claudia commenta, paziente: «Non credo ci sarà bisogno di sperimentare. Ci tireranno fuori molto prima di dover bere le nostre urine».

  «Certo, certo» ride Ferro. «Molto prima di pisciarci in bocca l’un con l’altro, scusate il linguaggio, ah, ragazzi, nel caso invece dovessimo mangiarci a vicenda... sapete, come in quel film dell’aereo nelle Ande, siate buoni con me. Ho la pelle dura e piena di sostanze tossiche, mi sa che sono indigeribile e fibroso, non mangiatemi, dai. Anche se te, giovane virgulto, sei un po’ troppo magrino per riempirci lo stomaco. E la galanteria ci vieta categoricamente di mangiare una ragazza cosı̀ carina.»

  «Grazie» fa lei, distogliendo lo sguardo. «Ora mi sento rinfrancata. Veramente, veramente rinfrancata.»

  Ferro ha gli occhi che brillano. Ha preso il comando delle operazioni, e per quanto la situazione sia assurda, be’, è comunque sotto il suo controllo. Li ha tutti in pugno come se fosse al Pink Cadillac in una normale serata di danze nella schiuma, col fanclub abbarbicato al bancone del bar a bersi ogni sua parola. E allora si comporta come al bancone del bar. Racconta aneddoti. Tiene desta la platea.

  «A proposito di mangiarsi a vicenda, l’avete letta la storia del cannibale di Berlino? Quello che aveva messo l’annuncio su internet?»

  «Mi pare» dice Claudia.

  «Be’, se non la sapete ve la racconto io. Questo cannibale ha messo un annuncio su internet. Cercava qualcuno disposto a farsi mangiare da lui, qualcuno pienamente consenziente, capite? E un demente gli ha risposto, è incredibile ma gli ha risposto. Ha detto ’Sı̀, va bene, mi interessa, sono disposto a farmi mangiare da te’ oh, il cannibale non è stato mica contento. Ha voluto una foto del demente completamente nudo, voleva essere sicuro che gli piacesse quello che stava per mangiare, capite? E poi gli ha fatto firmare una dichiarazione di pieno consenso, tipo ’Io sottoscritto sono disposto a farmi mangiare, eccetera, eccetera’. Alla fine si sono incontrati. Si sono dati appuntamento a casa del cannibale.»

  Tomas spalanca gli occhi. «Lo ha mangiato?»

  Ferro tira rumorosamente su col naso. «Prima si sono ubriacati. Poi hanno preso delle droghe. Non mi ricordo se hanno anche scopato, credo di sı̀. Insomma, alla fine il cannibale ha castrato il demente con un coltello da cucina. E il demente, faccio notare, era sveglio, cosciente e consenziente.»

  «Vabbè, basta cosı̀, direi» protesta Claudia. Ferro la ignora, continua.

  «Non è mica finita. Dopo la castrazione il cannibale ha messo il pisello tagliato in una padella. Lo ha bollito. E lo hanno mangiato. Insieme. Giuro.»

  «È impossibile» osserva Claudia. «Un uomo che è stato appena castrato, dopo non rimane mica cosciente.»

  «Eh, infatti» fa eco Tomas. «C’è il dolore, e la perdita di sangue. Impossibile.»

  Ferro glissa sullo scetticismo di Claudia. Irride solo Tomas per la sua blanda protesta, lo sferza: «Che ne sai, te? Ci sono delle tecniche precise, sai? I medici di Atlantide riuscivano a tenere in vita un uomo per giorni e giorni, anche dopo averlo svuotato degli intestini, anche dopo averlo ridotto a un tronco. Ci sono dei libri antichi sulla Santa Inquisizione, su quel che succedeva nella Torre di Londra, illustrano un soggetto senza più gli occhi, senza la lingua, senza più braccia né gambe, con un buco al posto della pancia, eppure ancora vivo e lucido. Ci sono mille modi per tenere cosciente una persona anche dopo averla ridotta a frattaglie» e si ferma, prima di lasciarsi trascinare dall’entusiasmo e mostrarsi un po’ troppo esperto sull’argomento.

  Claudia lo guarda perplessa, sconcertata da quella tirata sulla tortura.

  M
erda. Sarebbe perfetto in un film horror di serie Z, nella parte del caposcout che racconta storie di fantasmi in mezzo al bosco. Con la torcia elettrica puntata in faccia, e i ragazzini terrorizzati intorno al falò.

  Un attimo prima che il mostro esca dal buio e li divori tutti, uno dopo l’altro.

  «Ma è vera questa storia?» domanda scettica, alla fine.

  «È vera sı̀. Il cannibale ha ripreso tutto, gli agenti che hanno visionato il filmato hanno vomitato per un giorno intero, comunque: alla fine il cannibale ha sgozzato il tizio, lo ha tagliato a pezzi, ha buttato via le parti fibrose e immangiabili, e ha iniziato a banchettare con il resto. Poco per volta. Ha conservato i pezzi nel congelatore, e...»

  «Si può parlare d’altro?» lo stoppa Claudia. «Del fatto che qui non si respira più, che manca l’aria, per esempio?»

  «Tutto qua?» minimizza Ferro. «Passami la chiave, giovane fanciullo. Quella grossa, quella che hai usato prima.»

  Tomas gli consegna meccanicamente la chiave della cantina. Ferro la incunea tra le porte, riapre il varco aiutandosi con la punta dello stivale.

  «Vuole una mano?» si offre Tomas.

  «Noo, bimbo, stai comodo e goditi lo spettacolo. Figurati se non riesco ad aprire due porte.»

  Ferro sta dissimulando uno sforzo tremendo, in realtà. Le maledette porte d’acciaio sembrano non volersi separare, premono come due presse contro i suoi muscoli, cercano di ricongiungersi con forza disumana. Ma Ferro non può apparire debole agli occhi di Claudia. Proprio non può.

  E allora respira a fondo, come in palestra sotto un pesante bilanciere, e con l’ultimo strappo apre trionfalmente le porte.

  «Ecco qua» ansima, impercettibilmente. «Adesso si respira. Mica aria di montagna, ma è già qualcosa.» Tiene aperte le porte con le braccia e con la schiena. Claudia e Tomas si avvicinano più possibile, respirano un po’ di quell’ossigeno vergine filtrato negli otto centimetri tra la cabina e la parete del vano.

  «Proviamo a gridare di nuovo?» propone il ragazzo.

 

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