Blackout
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Ferro scuote la testa ma collabora, si curva un po’ in avanti e congiunge le mani, offrendole come appoggio alle scarpe da basket del ragazzo. Tomas monta su quell’improvvisato scalino, cerca un equilibrio, barcolla. Si mette in piedi. Claudia lo aiuta, lo sostiene tenendolo per i fianchi.
Tomas tocca l’acciaio sopra di loro, incolla i palmi su quella superficie liscia e incomincia a spingere. Ferro ansima, da sotto: «Forza, cazzo, forza, non ho più vent’anni, cazzo. Non posso mica tenerti su tutto il giorno».
Tomas lo ignora. È concentrato. Muove le mani come un ragno sull’acciaio.
Preme, lascia, soppesa, valuta. Cerca un punto più cedevole di altri, con sensibilità da scassinatore. Colpisce il cielino con un pugno, studia il suono prodotto, le vibrazioni. Sferra un altro pugno, qualche centimetro più in là.
«Spostatemi verso la parete» ordina, teso allo spasimo.
«Eh certo, cazzo» si lamenta Ferro «cosa siamo, un montacarichi? » ma obbedisce alla richiesta del ragazzo, improvvisamente diventato il punto focale della situazione, la speranza di libertà per tutti loro.
Si spostano di qualche centimetro verso il fondo della cabina, Ferro con le mani sotto le scarpe di Tomas, Claudia a far presa sui suoi fianchi sudati. Il torso nudo di Tomas aderisce alla parete, le sue dita s’insinuano nell’intersezione tra le facce del parallelepipedo che li imprigiona. Cerca un’imperfezione nella saldatura, un punto debole. Non lo trova.
La cabina è un corpo unico.
Inattaccabile.
Tomas freme di frustrazione. Tenta un’ultima ribellione contro la spietata concretezza della gabbia, una spinta brutale dal basso verso l’alto. Schiaccia le scarpe contro le mani di Ferro, spinge di pura forza, di pura rabbia, i denti stretti e gli occhi chiusi.
È come sfondare il tettuccio di un’auto dall’interno, con la sola forza delle braccia. Il metallo vince spietato sulla carne, inevitabilmente.
«Cazzo» sibila. «Niente. Niente di niente di niente.»
«Te l’avevo detto» sbotta Ferro. Fa scendere il ragazzo, poi si lascia cadere teatralmente accanto alla camicia nell’angolo.
Per un po’ c’è solo silenzio, spezzato dal respiro affaticato di Ferro e Tomas e dal borbottio rabbioso di Claudia, che fissa il cielino senza riuscire a rassegnarsi. Quella lastra di metallo, quella semplice lastra di metallo che li trattiene, li imprigiona, che congela le loro vite. Una semplice lastra di metallo.
Controllano ancora una volta i cellulari, fissi sull’interminabile ricerca di rete, e alla fine Ferro sentenzia: «Questo non è un semplice blackout».
Claudia lo guarda torva. «In che senso?»
«Che dura da troppo tempo. E poi l’allarme muto, e i cellulari inservibili, dai, affrontiamo la realtà. Qui siamo nel mezzo di un’invasione aliena.»
Claudia ridacchia. «Certo. Come no.»
«O un attacco degli estremisti islamici. Qualcosa di più raffinato di due aerei contro le torri, una bomba elettromagnetica, tipo. Una bomba elettromagnetica spiegherebbe il blackout, l’allarme muto, i cellulari che non funzionano.»
«Mi pare improbabile» sussurra Tomas, con un brivido. Ferro ripesca la monetina dalla tasca, la rigira tra i polpastrelli, la studia con attenzione.
«In verità, sono combattuto tra l’ipotesi degli estremisti islamici e quella dell’invasione aliena. Ognuna, se ci ragioniamo, ha indizi a favore e indizi contrari.»
«Basta» protesta Claudia. «Non è il caso di cominciare a terrorizzarci a vicenda.» Ferro la ignora.
«Analizziamo l’ipotesi degli estremisti islamici, allora. Immaginiamo un attacco combinato in due fasi distinte. Prima la bomba elettromagnetica, che alle 17:03 paralizza tutta la città, o tutta l’Italia, o l’intero mondo occidentale, noi questo non lo possiamo sapere. L’ascensore si ferma, i cellulari diventano pezzi di plastica e ferro, l’allarme un pulsante muto, giusto? Okay. E a questa prima fase dell’attacco segue la seconda, la bomba batteriologica. Là fuori, ragazzi, là sono crepati tutti quanti. Nessuno ci ha sentiti gridare, nemmeno la vecchia gattara, nemmeno gli sposini di Woodstock, per il semplice fatto che erano tutti impegnati a rantolare sul pavimento con le mani sulla gola, i telefoni inservibili e i cellulari neutralizzati. Noi ci siamo salvati perché siamo rinchiusi qua dentro, ma se uscissimo fuori creperemmo in pochi minuti. Questa ipotesi mi pare abbastanza plausibile.»
«Basta.» Claudia si raggomitola su se stessa. «Sono stupidaggini. Basta. Siamo già abbastanza nervosi senza bisogno di inventarci spiegazioni assurde.»
«Io invece» la ignora Ferro «io sono per la teoria dell’invasione aliena. E sapete perché appoggio la teoria dell’invasione aliena? Per l’aberrazione statistica. Quella, proprio, non saprei spiegarla in altro modo. L’assurda coincidenza di noi tre contemporaneamente nell’atrio ad aspettare l’ascensore, con il secondo ascensore improvvisamente fuori servizio, be’, questa cosa non è riconducibile né alla bomba elettromagnetica né all’attacco batteriologico. Gli alieni potrebbero aver usato un’onda telepatica per ammassare la popolazione terrestre, per radunarla in branchi, in piccoli gruppi. E ora stanno mangiando, negli appartamenti, per le strade, senza fretta, mentre noi siamo qua. Nell’ascensore. Al riparo.»
«BASTA» ripete Claudia. «Sono stupidaggini. Solo stupidaggini. Basta.»
«Chi può dirlo, cocca? È arrivata l’Apocalisse, e noi sprechiamo tempo giocando a testa o croce.» Il suo sguardo striscia di nuovo sulle cosce di Claudia, stavolta laido oltre ogni dire. Poi accarezza la moneta da un euro tra l’indice e il medio, sposta lo sguardo su Tomas. «Ehi, giovane fanciullo, giochiamo? Testa o croce?»
«No. Non ne ho più voglia.»
Ferro alza le spalle. «Come vuoi.»
Tomas ha gli occhi fissi sul cielino, alla ricerca di un cedimento strutturale, di un punto debole, come se volesse sfondarlo con la forza della mente. Ha sentito l’acciaio sotto le dita, solido e invincibile, una lastra di pietra di vulcano. Inamovibile, corpo unico con le pareti.
Si sta domandando cosa accadrebbe se colpisse sempre lo stesso punto, sempre lo stesso, un pugno dopo l’altro, fino a farsi sanguinare le mani. L’acciaio potrebbe cedere, si domanda?
Non ragiona, non respira. Quel poco d’aria che respira è fuoco liquido nei suoi poveri polmoni.
Si può diventare pazzi in questo modo. È una situazione inumana.
Si può diventare pazzi, pazzi, pazzi.
Cerca di recuperare le forze, sta aspettando di aver recuperato le forze. Una volta recuperate le forze tornerà tra le porte, a bersi l’aria benedetta che sale dal vano. Una volta recuperate le forze. Quando il caldo, la sete e la claustrofobia smetteranno di prosciugarlo come stanno facendo.
Per quasi mezz’ora nessuno parla, sprofondato nella propria personale forma di attesa. L’unico suono è il tintinnio della monetina che Ferro ha ripreso a lanciare in aria, ritmico, ossessivo.
18:45
Claudia è accucciata nel suo territorio di mezzo, scomodamente seduta con la testa tra le ginocchia.
Se non la smette di guardarmi le gambe, gli spacco la faccia.
Se non la finisce con quella monetina del cazzo, gli spacco la faccia.
Se non la pianta con le sue storielle horror, gli spacco la faccia.
Che cazzo combinano là fuori? Possibile che nessuno si sia accorto di niente?
Non sopporto più la loro puzza di sudore. La loro vicinanza. Doverli sfiorare a ogni movimento.
Non mi fido di quel porco con i basettoni. Non mi fido per niente. Il ragazzo sembra innocuo, ma del porco non mi fido per niente.
Vorrei una paglia. Ne fumo tre pacchetti, appena entro in casa. Scrivo a Bea con tre paglie in bocca. Giuro. Tre. Poi smetto di fumare, ci sono riuscita una volta, ci riuscirò anche la seconda.
Ma non adesso.
Adesso ho tutto il diritto di fumarmi tre pacchetti in fila. Devo averne ancora qualcuno in giro per casa, in fondo a un cassetto. I tabaccai sono chiusi, è domenica, è ferragosto, fuori è un deserto, solo serrande abbassate, marciapiedi asciugati dal sole, catrame che ribolle,
niente negozi, niente persone.
Devo avere ancora qualche pacchetto, in fondo a qualche cassetto.
Cazzo. Vorrei poter distendere le gambe.
Cazzo. Cazzo.
Claudia sta accucciata nel suo territorio. La faccia in mezzo alle ginocchia.
18:49
Tomas è di nuovo tra le porte, le tiene aperte con le gambe e con la schiena. Ha gli occhi fissi sull’inviolabile cielino.
Fammi uscire in tempo. Non chiedo altro.
Il treno parte tra un’ora e dieci. Se usciamo adesso posso correre in casa, prendere la sacca da viaggio, volare in stazione in vespa.
E se usciamo ed è troppo tardi?
Prendiamo in considerazione l’ipotesi di perdere il treno. Prendiamola in considerazione.
Devo telefonare a Francesca. Devo avvisarla.
Lei capirà. Certo. Non succederà niente. Al massimo prenderemo il treno successivo. Male che vada. Prendiamo il treno dopo. Il successivo. Quello dopo. Non cambia niente. Non succede niente.
Ho caldo e ho freddo. Ho la febbre. Devo avere la febbre. Sto male. Brucio. E ho freddo.
Dell’acqua. Vorrei tanto dell’acqua.
Se fossi arrivato a casa cinque minuti prima. O un minuto prima. O un minuto dopo.
Se non avessi aperto il portone alla tipa dai capelli verdi. Stupida. Potevi arrivare un minuto prima. O un minuto dopo. Con quella faccina aguzza, quella bocca minuscola, quegli occhioni da cartone animato giapponese.
Stupida.
Ho sete.
Tomas è piccolo e sottile tra le porte.
E le porte sembrano schiacciarlo in una morsa.
18:53
Ferro fissa la monetina che lascia le sue dita, vola nel verde, bellissima e rotonda come il sole, ricade sul palmo. Testa. Come sempre.
Sorride.
Non ci crede nemmeno lui, alle sue storie di estremisti islamici e invasioni aliene. Non fino in fondo, quantomeno.
Perché se davvero ne fosse convinto, se davvero sapesse che non c’è più niente fuori dal vano dell’ascensore, niente, se non montagne di cadaveri sterminati nell’attacco batteriologico, o alieni che stanano la gente nelle cantine, tirano fuori esseri umani urlanti per succhiarne il midollo come un’aragosta, be’, se sapesse che tutti questi scenari di morte sono reali, non avrebbe più remore né esitazioni. Cadute le esigenze di rispettabilità, riporrebbe la monetina nella tasca e stringerebbe le dita intorno al coltello a serramanico. Supererebbe in un attimo i quaranta centimetri di spazio tra lui e Tomas. E gli taglierebbe la gola come a un capretto.
Godendosi l’espressione incredula e soddisfatta su quel visino del cazzo.
Poi strapperebbe a Claudia quell’uniforme da puttana. Che bisogna proprio essere delle gran puttane per andare in giro con un’uniforme come quella, proprio delle gran puttane che hanno una gran voglia di essere scopate in tutti i buchi come cagne in calore. Glielo sbatterebbe dentro fino a farla urlare a quella gran puttana dai capelli verdi, glielo svuoterebbe tutto nella figa e nel culo e in quella minuscola bocca e tra le sue piccole tette, a quella gran puttana.
E dopo averlo svuotato tutto fino all’ultima goccia, be’. La prospettiva di restare nell’ascensore con la ragazza, il coltello e il cadavere sgozzato, da soli, con un sacco di tempo da far passare e un’immaginazione illimitata, aprirebbe un sacco di scenari interessanti e creativi.
Ma, per il momento, è Aldo Ferro ad avere il controllo. Quel corpo da sosia quarantenne di Elvis è ancora amministrato dal proprietario di tre locali chiamati Pink Cadillac, Graceland e Memphis, con un fedelissimo fanclub, marito infedele, padre severo ma giusto, l’Aldo Ferro che si preoccupa di tenere gli occhi indiscreti fuori dall’appartamento del ventesimo piano. Deciso a uscire da quell’ascensore perfettamente anonimo e pulito. È questo Aldo Ferro ad avere il controllo.
L’esperto cesellatore di facce inchiodate alla rovescia, l’autore di stupendi snuff movies nella baracca in mezzo ai boschi, il mostro dietro la maschera rossa di Darth Maul, ancora non è che una flebile voce in fondo alla testa. Una voce come lo stridore di una sega arrugginita, una sega arrugginita che affonda nella corteccia di una sequoia in una pioggia di scintille.
Una voce che dice: «Non c’è più niente là fuori, il mondo è morto, io, questa puttana, adesso me la scopo».
Ma la voce della Maschera Rossa è confinata sul fondo della testa, per il momento. Mentre Aldo Ferro, marito infedele, padre severo ma giusto, proprietario di tre locali di successo, lancia la moneta nell’aria color smeraldo.
Ancora.
E ancora.
TERZA ORA
19:13
Claudia è seduta con la testa tra le ginocchia. Sta cercando di non esistere per un po’.
Magari sarà un sussulto a svegliarmi, il sussulto dell’ascensore che si muove, di cavi e contrappesi che tornano in vita. Nell’attesa cerco di dormire, che cosı̀ esco da questo schifo di luce verde, da quest’aria che sembra fango bagnato, dalla puzza di sudore. Vado via per un po’, vi lascio soli, addio.
Quand’era bambina, nella casa di campagna delle vacanze, Claudia andava a caccia di lucertole con suo fratello. Lui era un cacciatore bravissimo: si appiattiva nell’erba, aspettava nel silenzio più assoluto, e in breve tempo si rialzava trionfante. Tenendo una preda per la coda, le corte zampette che si agitavano nell’aria.
Chiudeva la lucertola in un grosso barattolo di vetro, quello in cui il nonno teneva le olive, avvitava il coperchio, e poi correva di nuovo ad appiattirsi nell’erba. Claudia provava a imitarlo, ma era troppo piccola e lenta; le code di quegli schifosi eredi dei dinosauri le sgusciavano sempre tra le dita.
Suo fratello, al contrario, era implacabile. La sua furia cacciatrice si placava solo quando nel barattolo c’erano tre lucertole, il numero perfetto per i loro esperimenti.
A questo punto sigillavano il barattolo, stringendo per bene il coperchio. E iniziavano a osservare.
Le tre lucertole si muovevano a scatti da un angolo all’altro, s’incollavano al vetro, guardando fuori con gli occhietti stolidi e crudeli. Alternavano momenti di improvvisa frenesia ad altri di assoluta immobilità, l’istante prima erano appiattite contro le pareti del barattolo come dei Garfield a ventosa sul finestrino di una macchina, l’istante dopo si agitavano come mercurio impazzito, intrecciando le code, sfiorandosi con i musi triangolari.
Quando la nonna li richiamava in casa per la cena, Claudia e suo fratello rispondevano a malincuore e nascondevano il barattolo nella legnaia. Mangiavano in fretta, impazienti di tornare a seguire l’esperimento, tornavano di corsa nella legnaia, a guardare il barattolo con gli occhi sbarrati e il ghigno cattivo.
Speravano sempre di vedere le lucertole divorarsi a vicenda. Non succedeva mai.
Suo nonno entrava sempre nella legnaia troppo presto, scuoteva la testa, li sgridava, e l’esperimento si interrompeva.
Una volta o l’altra sarebbe accaduto, si dicevano Claudia e suo fratello. Il nonno sarebbe entrato nella legnaia troppo tardi, l’esperimento sarebbe andato avanti fino in fondo, le lucertole si sarebbero fatte a pezzi a vicenda. Completamente impazzite.
Claudia chiude gli occhi, abbracciandosi gli stinchi. Cerca di dormire.
Solo, in quella posizione, con le ginocchia sotto il mento, la stramaledetta uniforme tende a risalire inesorabilmente lungo i fianchi. Se non vuole mostrare le mutandine dei grandi magazzini al viscido sosia di Elvis, deve afferrare i lembi con le mani e tirare verso il basso, sulle cosce.
E adesso?
Come cazzo faccio a dormire se devo preoccuparmi di non restare mezza nuda? Se devo tenere tesa sulle gambe questa maledetta, cortissima divisa?
Sospira. Odia ferocemente il Porco del bar, odia altrettanto ferocemente il porco che respira pesante a pochi centimetri da lei.
Dormire non se ne parla, non c’è via d’uscita «Siamo chiusi in trappola» gridano i suoi nervi grattugiati. Chiusi in trappola come le lucertole.
Come la bambina che graffiava i mattoni.
Te la ricordi, la bambina che graffiava i mattoni?
T
i ridurrai cosı̀? A graffiare i mattoni con le unghie?
Ti ridurrai cosı̀? Come la bambina?
Un brivido si arrampica sulla sua spina dorsale. Cerca di pensare ad altro. Bea. Qualcosa che le ricordi Bea. Uno dei film preferiti di Bea.
Bea che adora Woody Allen, specie nei film con Diane Keaton. Bea, che reputa Mia Farrow nient’altro che una pazza nevrotica.
Pensa a uno dei film preferiti di Bea, Misterioso omicidio a Manhattan.
Quella scena con Woody Allen e Diane Keaton nell’ascensore fermo tra due piani, lui che ha un attacco di claustrofobia e cerca di autoconvincersi di essere in uno spazio aperto, gemendo «Sono uno stallone e corro libero nei prati». Bea rideva come una pazza su quella scena, rideva cosı̀ forte che sembrava grufolare.
Claudia prova a fare come Woody Allen, a immaginarsi in uno scenario gentile. In spazi aperti. Cerca di visualizzare nei dettagli il primo incontro con Bea. La grande piazza, l’aria pura, il cielo, le gambe distese. Potersi muovere senza sfiorare corpi sudati, o pannelli d’acciaio. Senza uniformi che risalgono sui fianchi a ogni movimento.
Visualizza tutti i dettagli, gli odori, le luci.
Solo, si accorge subito, se avvia quello scenario di realtà virtuale, non riesce a bloccarlo a metà. Lo scenario arriva sempre fino in fondo.
Fino alla bambina che graffiava i mattoni.
(Ti ridurrai come la bambina? a graffiare i mattoni con le unghie?)
Stringe i denti. È entrata in un loop mentale da cui è impossibile uscire, un circolo vizioso che la riporta sempre, inevitabilmente alla bambina. E allora cerca di uscire dal circolo vizioso con uno strappo violento, uno Snap! dentro la testa, come un cavo di metallo che si spezza.
Rinuncia all’idea di proiettarsi in grandi spazi aperti, torna all’idea originaria. Prova a dormire, a uscire dall’ascensore almeno in sogno.