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Blackout

Page 15

by Gianluca Morozzi


  La lama ha trovato la carne.

  Il primo sangue è del vecchio capobranco, dai denti robusti e affilati. Il giovane maschio barcolla e cade all’indietro, sul fondo della tana. La femmina assiste nervosa alla lotta.

  La Maschera Rossa accoglie il dolore. Il dolore porta all’odio, e l’odio alimenta il fuoco.

  Il prossimo colpo, il prossimo colpo è dritto nel cuore.

  Tomas scompare.

  Non c’è più alcun residuo del sedicenne timido ed educato, del ragazzo innamorato in fuga per il Nordeuropa. Quando la lama taglia la carne tra il collo e la spalla, Tomas scappa terrorizzato in qualche posto soffice e sicuro dietro al suo cervello. Si lascia cadere, lascia il posto al puro istinto.

  Cosa sta succedendo? È buio. Non vedo niente.

  Di chi sono queste urla? Chi ha colpito chi?

  Devo togliermi dalle porte.

  Devo togliermi dalle porte.

  Perché non rispondono?

  I miei muscoli?

  I miei nervi?

  Poi, una fioca luce illumina la scena.

  E mostra a Claudia quello che mai al mondo avrebbe voluto vedere.

  Aldo Ferro cerca lo Zippo nella tasca. Calmo, trionfante.

  In equilibrio sul piede sinistro e sulla punta del destro.

  Rischiara l’interno dell’ascensore con la fiammella. Si gode lo scenario di vittoria.

  E gli schizzi di sangue sulle pareti d’acciaio.

  Claudia guarda Ferro in piedi davanti a lei, ghignante nella fiamma.

  Come i dannati nel libro di suo nonno, l’Inferno, quello con le illustrazioni. Le tombe arrossate dalle fiamme eterne, le tinte ocra, le luci baluginanti come il riflesso di un camino.

  Davanti a Ferro, Tomas è a terra come una marionetta dai fili spezzati. Ha sangue sulla faccia, sulla spalla e sul petto. Gli occhi sbarrati. Il respiro convulso.

  È all’Inferno, Claudia. All’Inferno.

  Ferro si piega in avanti. Appoggia il ginocchio destro sul pavimento per far riposare la caviglia, sorveglia Claudia con la coda dell’occhio. Che non tenti colpi strani.

  Si avvicina a Tomas, al ragazzo che lo ha ferito con la sua ridicola chiave.

  Ha mancato la giugulare di pochi centimetri. Colpa del buio e del dolore alla caviglia, non avrebbe mai e poi mai mancato il bersaglio, non fosse stato per il buio e per il dolore alla caviglia. Lo avrebbe sgozzato come un maiale, con una semplice rotazione del polso.

  «Oh, be’» pensa. «C’è tutto il tempo di rimediare.»

  Accarezza il pomo d’adamo di Tomas con la punta del coltello.

  La pallina d’acciaio nello sterno di Claudia comincia a soffiar fuori un vento gelato. I suoi nervi sembrano ghiacciarsi, diventare tutt’uno con l’acciaio che la circonda.

  È fredda come neve, adesso. Non si muove. Aspetta.

  Ferro sta per affondare la lama nella carne, ma indugia.

  Gli è venuta un’idea migliore.

  Potrebbe lasciarlo vivo ancora un po’, il ragazzino col piercing.

  E farlo giocare con la ragazza con i capelli verdi.

  Dopo aver fatto ingoiare alla ragazza quelle arie da stronzetta, quegli atteggiamenti tipo io sono una donna emancipata, non ho mica paura degli uomini, potrebbe costringerla a fare dei giochini molto interessanti col suo amichetto. Divertendosi a guardarli.

  Ha deciso.

  Ritrae la lama dalla gola di Tomas, sogghigna e si gira verso Claudia.

  Con lo Zippo in una mano, e il coltello nell’altra.

  Umiliata dal Porco del bar.

  Umiliata dal pazzo per strada.

  Umiliata dall’uomo sul bus.

  Quasi stuprata dal mostro sudato.

  Ha respirato melma.

  E ha bevuto da un cioccolatino.

  Ha superato il limite della sopportazione umana, e ora Claudia non ne può più.

  La pallina d’acciaio si espande con uno schiocco. Sfonda la sua cassa toracica, i suoi nervi, i suoi muscoli. Ogni sua cellula diventa d’acciaio, la schiena d’acciaio su porte d’acciaio, le gambe d’acciaio trattengono porte d’acciaio.

  I suoi muscoli si contraggono, quando il mostro le si para davanti. Soffiandole addosso il suo fiato di acido fenico.

  «Buongiorno, principessa» ansima Ferro, a pochi centimetri da lei. Si sorregge appoggiando un gomito alla semiporta di sinistra, il peso del corpo sul piede sinistro, il destro che tocca terra soltanto con la punta. Giocherella col coltello tra le dita della mano destra. «Non ho portato i fiori e i cioccolatini, scusami tanto. Poi è la domenica di ferragosto, i cinema son chiusi, e ci metteremmo un po’ a trovare un ristorantino a lume di candela. Spero mi perdonerai se salteremo qualche preliminare di corteggiamento.»

  «Aspetta.»

  «Se intanto vuoi levarti da quelle cazzo di porte, potrebbe essere più comodo per tutti e due. Se invece ti eccitano le robe d’acciaio, bah, nessun problema, ho visto di peggio, certe vacche che mi sono scopato si facevano appendere al soffitto come quarti di bue, per cui, se vuoi stare lı̀ in mezzo, io non ho proprio un cazzo di problema. C’è meno spazio. Ti farà più male. Tutto qua.»

  «Aspetta.»

  «O sei una di quelle che gode solo se lavoro un pochino di coltello? Nessunissimo problema. Dimmi da dove vuoi che si cominci, e io comincio.»

  «No, voglio dire» e Claudia abbassa la voce «non c’è bisogno di farsi male. Se collaboro, magari, la cosa può essere molto più gradevole per tutti e due.»

  E poggia la mano destra sulla fibbia della cintura di Ferro, proprio sotto il suo ventre nudo e sudato. Accarezza morbidamente la fibbia, trattenendo le porte con le spalle e le ginocchia.

  Ferro guarda compiaciuto quelle dita sottili, improvvisamente accondiscendenti. Ridacchia: «Bene, bene, brava, bis. Sei un agnellino, sei. Perché non mi ripeti quello che hai detto prima, zoccoletta? Perché non ripeti quelle dolci parole, aspetta, vado a memoria, imbecille, su e giù di mano vacci da solo, spruzza contro la parete, eh? Perché non le ripeti, con quella tua piccola boccuccia? Dai. Fammele sentire. Che poi ce l’ho io, qualcosa da farti sentire».

  (Ecco ho rovinato tutto di nuovo. Il Dentista, questa frase scontata e volgare non l’avrebbe detta mai. Era lui quello bravo a parlare, io non ho imparato, cazzo.)

  Claudia lo fissa dritto negli occhi, sempre accarezzando la fibbia della cintura.

  «Se vuoi che mi tolga dalle porte» dice, suadente, «allora mi tolgo dalle porte.»

  Poi stringe le dita sulla fibbia.

  E tira verso di sé.

  Con tutta la forza che ha nel braccio.

  «Sfrutta il peso del tuo avversario contro di lui» diceva il maestro di judo. Prima di intrufolarsi a sorpresa nella sua doccia per offrirsi di insaponarle la schiena.

  La gamba destra di Claudia scatta come una molla, rigida e tesa.

  Colpisce la caviglia sinistra di Ferro.

  Disancora dal terreno il piede che sorregge il peso del suo corpo.

  Mentre il braccio destro tira. Con tutta la forza che ha.

  «Uh?» è il singulto che esce dalla gola di Ferro, quando sente la terra sparirgli sotto i piedi.

  S’inclina in avanti come un albero tagliato, vittima dei meccanismi antichi di una leva perfetta.

  Poi, Claudia rotola fuori dalle porte.

  Appallottolandosi il più possibile.

  Il tutto si svolge in una frazione di secondo.

  Ferro agita le mani nell’aria, sbilanciato in avanti.

  Claudia si raccoglie sotto la sua pancia, lontana dal binario di scorrimento.

  Le porte d’acciaio, senza più il corpo della ragazza a fare da opposizione, si chiudono come una tagliola.

  Ai due lati della testa di Aldo Ferro.

  Un suono rimbomba nella cabina.

  L’orribile crac! di un melone maturo, che si schianta sull’asfalto cadendo dal settimo piano di un palazzo.

  Dilettante. Stupido dilettante.

  Era il Dentista, quello bravo. Era lui, l’uomo d’azione. Tu sei sempre stato la copia, l’emulo. Lui non si sarebbe mai fatto fre
gare da una ragazza. Tu ti sei fatto fregare da una ragazza. Nemmeno in un film di serie Z ci si fa fregare da una ragazza.

  Quella stupida caviglia. È tutta colpa di quella stupida caviglia.

  E del timpano rotto.

  Ti sei fatto fregare da una ragazza e da un bambinetto col piercing. Il Dentista non avrebbe mai fatto una figura del genere.

  Rialzati, adesso. Rialzati, sposta il peso sul piede sinistro. Tu hai il coltello. Loro no. Rialzati. Basta giochini. Falli a pezzi, tutti e due.

  Aspetta!

  Cosa succede? L’ascensore? L’ascensore si muove? Scende?

  Non capisco. È l’ascensore che sta scendendo, o sono io che mi sono liquefatto e sto colando giù per il vano come petrolio?

  Guarda, guarda, siamo scesi al decimo piano, guarda chi c’è, al decimo piano, c’è Sonja, la barista leccese, abita qua, ma pensa. Ero convinto che abitasse in quell’appartamento con i poster di Ligabue e il letto a una piazza e mezzo, non mi ero mica accorto che l’appartamento stava proprio in questo palazzo, tu pensa.

  Alex? Al nono piano c’è Alex?

  Credevo di averlo lasciato nella baracca, Alex. Si è trascinato fin qua, legato alla sedia. Bravo. È stato proprio bravo. Mica facile, trascinarsi fin qua legato alla sedia. Con la faccia inchiodata al contrario. È stato bravo.

  Il Dentista, ma tu guarda, c’è il Dentista, all’ottavo piano. Credevo fosse morto, il Dentista. Credevo fosse morto, e invece sta all’ottavo piano.

  E quello legato alla sedia non è mica Alex. È lo Spacciatore.

  Eh, eh, non si è mica accorto di essere stato svuotato, lo Spacciatore. Non ha più le braccia né i piedi. Aspetta che si veda riflesso nello specchio.

  Mio figlio, appena nato. Non era mica grasso, appena nato. Era bello quand’è nato, mio figlio. Chissà come ha fatto a diventare così grasso.

  Gloria? Mi sto sposando con Gloria?

  Non mi sono già sposato una volta, con Gloria? E lei che insisteva per sposarsi in chiesa, che suo padre era così tradizionalista, e invece ci stiamo sposando al sesto piano. Chissà cosa dirà suo padre, che ci sposiamo al sesto piano del palazzo.

  Sta scendendo troppo in fretta, questo ascensore. Troppo, troppo in fretta. Stai a vedere che si sono spezzati i cavi, cazzo, cazzo, ci schianteremo al suolo, è il colmo. Chi è quel ragazzo che prende a calci i lampioni per strada? Sono io?

  La cucina di mia nonna? Perché il tavolo è cosı̀ alto? Perché tutto sembra cosı̀ grande?

  Nooo, cazzo, ecco, lo sapevo, si sono spezzati i cavi. Abbiamo superato il pianoterra, ora cadiamo nel seminterrato.

  È buio, nel seminterrato. È tutto buio. Non si vede più niente.

  Siamo fermi? Ci siamo fermati?

  Di chi sono queste voci? Le conosco, queste voci.

  Cosa stanno dicendo? Che mi aspettavano?

  Chi siete?

  Ho paura.

  Voi, nel buio. Chi siete?

  Chi siete? Vi conosco.

  Ho paura.

  E fuori dall’ascensore fermo, fuori dal palazzo bianco di venti piani, fuori dalla città che inizia finalmente a respirare la frescura della notte, nella baracca in mezzo ai boschi, Alex guarda il mondo attraverso quella che un tempo era la sua bocca. Aspettando il ritorno della Maschera Rossa.

  Da quando è impazzito, due ore prima, non teme più la lama del coltello. Attende tranquillo, guarda la luce delle stelle dietro le tende inchiodate alle finestre, e aspetta.

  Due ore prima, le pozioni del Dentista hanno esaurito il loro effetto. E Alex, scagliato fuori dal gioco di contrappesi degli antidolorifici e dei calmanti, ha preso coscienza di quello che gli è successo. Fisicamente, e psicologicamente.

  La consapevolezza di essere stato ridotto a un pupazzo vivente e l’ondata di inumano dolore hanno bruciato i suoi nervi, in una vampata furibonda. Come una lampadina che brucia, è stato il suo ultimo pensiero cosciente. Né più né meno di una lampadina che brucia. Alcune sinapsi particolarmente carine hanno abdicato e salutato il mondo. E Alex, semplicemente e giustamente, è del tutto impazzito.

  Adesso sta aspettando l’uomo con la maschera rossa.

  Aveva promesso di castrarlo con il suo coltello, molte ore prima. Se lo ricorda bene, Alex, si ricorda quelle parole ovattate nel vapore dei calmanti e degli antidolorifici. Solo, l’uomo con la maschera rossa non torna.

  E da qualche minuto c’è un rumore strano, al piano di sopra. Come un animale che grufola e si fa largo in un mondo di oggetti che non conosce e non capisce.

  «Un cinghiale» dice una vocina persa nella pappa informe che è la mente di Alex, «magari è entrato un cinghiale, e tra poco troverà il modo di scendere al piano di sotto.»

  «Come cazzo è entrato un cinghiale dalla finestra del piano di sopra?» domanda un’altra vocina. «Tu lo sai? Io lo so? Io non lo so. Tu lo sai? Preferisci essere divorato da un cinghiale o essere fatto a pezzi un po’ alla volta dalla Maschera Rossa? Scegli tu. Questa è la carta, qui c’è la regina, qui c’è la regina, dov’è la regina?»

  Ogni tanto il puzzle della razionalità torna a ricomporsi, a ondate, dietro quella faccia inchiodata al contrario. E un’altra vocina dice: «Magari non c’è nessun animale che grufola al piano di sopra, magari è solo il chiodo che hai conficcato nella fronte, quello a destra, non quello a sinistra, quello a destra è conficcato più a fondo. Magari quel rumore che senti non è altro che il chiodo, il chiodo che scricchiola contro il tuo cranio».

  Allora, in quei momenti di razionalità a lampi, Alex pensa di dondolarsi sulla sedia fino a cadere faccia in avanti. E poi, una volta caduto faccia in avanti, di sbattere la testa contro le assi del pavimento, in modo da ficcarsi i chiodi più in profondità. E farla finita. Prima del cinghiale. E prima dell’uomo con la maschera rossa.

  Ma, per quanto ci provi, Alex non riesce a smuovere la sedia. Nemmeno di un millimetro.

  Il momento di razionalità si dissolve come vapore. Si leva in nubi sottili più in alto della lampadina, oltre la baracca, via, lontano.

  E Alex aspetta al centro della stanza, di nuovo pietosamente, fortunatamente, completamente pazzo.

  Nel deserto che è il piazzale della stazione di Parma, una ragazza di nome Francesca ha appena finito di piangere fino a consumarsi gli occhi.

  Sta aspettando un autobus notturno che forse non arriverà mai. Ha una valigia accanto, e continua a ripetersi: «Perché? Perché mi hai fatto una cosa cosı̀ cattiva? Perché? Perché?»

  Quando tutti i passeggeri erano scesi dal treno delle venti e cinquantaquattro e di Tomas non si era vista nemmeno l’ombra, non aveva comunque perso la fiducia. L’aveva chiamato al cellulare trovandolo spento, va bene, aveva chiamato a casa e non aveva risposto nessuno, va bene, ma non aveva perso la fiducia.

  Tomas poteva aver perso il treno. Poteva avere il cellulare scarico. Potevano essere improvvisamente rientrati i suoi genitori. C’erano mille potenziali spiegazioni per la sua assenza.

  Aveva aspettato il secondo treno in arrivo da Bologna, speranzosa.

  Ma Tomas non era arrivato nemmeno col secondo treno.

  Né col terzo.

  O con il quarto.

  Francesca aveva controllato in continuazione il cellulare, sperando in una chiamata senza risposta, in un messaggio, un segnale, una spiegazione. Aveva chiamato Tomas mille volte, e mille volte si era sentita rispondere «L’utente non è al momento raggiungibile».

  E i treni erano passati uno dopo l’altro. E la stazione aveva cominciato a popolarsi di facce orribili, rinciucchite dal caldo, ubriachi vagolanti nella sera carica di umidità.

  A mezzanotte si era rassegnata.

  Aveva trascinato la valigia fuori dalla stazione, singhiozzando, maledicendo quel bastardo di Tomas.

  Perché? Perché mi hai illusa? Perché mi hai fatto una cosa così cattiva? Perché?

  Ora sta aspettando un autobus notturno, a mezzanotte e mezzo di una domenica di ferragosto. Nel deserto della città, tra zombie strascicati e spacciatori nascosti nell’ombra.

  Sospira, alla fine. Abbandona la fermata dell’autobus
, si trascina la valigia oltre il piazzale della stazione, verso il ponte sul fiume prosciugato dal caldo, la Parma secca e asciutta. Tornerà a casa a piedi. Pure questo, le tocca.

  Prega di arrivare prima dei suoi genitori. Deve arrivare prima dei suoi genitori.

  Prima che suo padre e sua madre trovino il biglietto sul tavolo.

  Prima che tornino a casa inferociti, dopo essersi visti rifiutare il prestito in cui speravano tantissimo, e trovino il biglietto con scritto: «Me ne vado di casa, non cercatemi, starò bene».

  Francesca lo sa, ne è sicura: se suo padre legge il biglietto, gli occhi già fuori dalla testa per conto suo, il primo impulso che ha è di strangolare selvaggiamente la figlia. E se in quel momento la figlia rientra dalla porta, be’, non c’è dubbio. Il supermaxieroe la prende e la strozza nel soggiorno di casa.

  Per questo Francesca accelera il passo, per quanto può. La valigia è pesante, batte rumorosa sul marciapiede, rimbomba come un petardo nel silenzio della notte.

  Supera il ponte ripetendo dentro di sé: «Bastardo. Bastardo. Bastardo». E poi si irrigidisce.

  C’è un rumore di passi alle sue spalle.

  Francesca gira appena la testa, un formicolı̀o spaventato sulla nuca.

  C’è un uomo dietro di lei. Sta camminando lentamente, la brace di una sigaretta ben visibile nel buio.

  Il cuore di Francesca salta in gola. Accelera il passo ancora, stringe la mano sul cellulare. Qual è il numero della polizia? C’è qualche bar aperto, qualche posto in cui ripararsi? La città sembra reduce da un inverno nucleare, luci spente, porte chiuse, serrande abbassate. Nemmeno un’auto che passi, nemmeno un ubriaco in bicicletta, nessuno che possa aiutarla in caso di bisogno.

  C’è solo quel duplice rumore sotto le stelle. La valigia strisciata a fatica sul marciapiede, e i passi lenti e costanti dello sconosciuto in fondo alla strada.

 

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