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In Other Words

Page 17

by Jhumpa Lahiri


  Comincia a lavare le pentole, a grattare via gli avanzi ormai incrostati sui piatti, a risciacquare le posate. Riempie e accende la lavastoviglie. Mette tutto in ordine, toglie ogni traccia del festeggiamento.

  Nella cucina ripulita si prepara il caffè, cerca del pane. Ha voglia di mangiarne una fetta: all’estero, nella cucina del suo appartamento, non c’era un tostapane, faceva una colazione diversa. Trova un pacchetto pieno di pane, infila una fetta nel tostapane. Ma non entra, c’è qualche ostacolo dentro la fessura. Poi vede che c’è già un’altra fetta lì dentro, secca, dura, fredda.

  A chi appartiene questa fetta dimenticata, ancora intatta? La moglie non l’avrebbe lasciata lì. Ha smesso di mangiare questo tipo di pane, dice che ha un’intolleranza. Gli viene un sospetto, sbucato dal nulla, per cui avverte uno spavento ancora più agghiacciante che nel sogno. Si chiede se sua moglie abbia un amante, se la fetta trascurata appartenga a lui.

  Vede sua moglie e un altro uomo in cucina, stanno facendo colazione la mattina precedente. Sarebbe stata la loro ultima colazione spensierata prima del suo rientro. Vede la moglie in vestaglia, serena, spettinata. Sta spalmando della marmellata su una fetta di pane per l’amante. Poi la scena si scioglie, il dubbio svanisce. Sa che non è cambiato nulla, e che la fetta appartiene a lui, così come la casa, la moglie che conosce da più di vent’anni. L’aveva preparata e poi aveva dimenticato di mangiarla quel mattino di due mesi fa, quando stava per partire. Succedeva spesso, è un uomo distratto.

  Versa il caffè, spalma la nuova fetta tostata con il burro, poi con la marmellata. Fa colazione nel silenzio notturno, assoluto, finché non sente in lontananza, per qualche secondo, il rumore di una macchina che procede velocemente lungo la strada.

  Non vuole raccontare il sogno a sua moglie, se ne vergogna. Il senso della strada tenebrosa, la macchina assente, le ombre sempre a un lato: gli pare troppo ovvio, perfino trasparente.

  Torna a letto accanto a lei. La tiene tra le braccia anche se lei non se ne accorge. Poi pensa a un altro viaggio in macchina fatto molti anni prima: il loro viaggio di nozze, un mese intero trascorso sulla strada in un altro Paese straniero. Guidavano insieme ogni giorno, per quasi tutto il giorno, per girare la campagna di quel Paese. Si ricorda ancora la strada sconfinata, l’ebbrezza della velocità. Quando era giovane, sprovveduto, ancora in attesa di tutto, il percorso non gli sembrava una voragine.

  Ora si rende conto del senso più profondo del sogno: lo stupore di aver trascorso una vita accanto alla stessa persona. Senza fermarsi, senza ostacoli, nonostante le ombre sempre a un lato, il pericolo. Ora vede quel primo viaggio, il loro principio, in penombra; preferisce la lucida verità del sogno. Solo che all’epoca, qualunque sogno fosse, l’avrebbe condiviso con lei.

  POSTFAZIONE

  Negli ultimi quindici anni della sua vita, dal 1939 in poi, Henri Matisse si allontanò dalla pittura tradizionale e sviluppò una nuova tecnica artistica. Si trattava di tagliare fogli di carta già dipinti a guazzo, in vari colori. Una volta tagliati, Matisse combinava e sistemava i diversi componenti per ricavare un’immagine. Fissava i pezzi prima con spilli, poi con colla, spesso direttamente sulla parete. Smise di usare il cavalletto, la tela. Il suo strumento principale diventò un paio di forbici anziché il pennello.

  Il metodo, una sorta di sintesi tra collage e mosaico, nacque da certe limitazioni. La vista del pittore settantenne, allora abbastanza deteriorata, fu un fattore. Inoltre, dopo una malattia grave nel 1941 usava la sedia a rotelle, ed era costretto a stare spesso a letto. Un giorno fu ispirato a creare un “giardino” dentro casa, un miscuglio esuberante di foglie e frutta attaccati ai muri del suo studio. Fu un processo collettivo: Matisse faceva dipingere tutta la carta ai suoi assistenti. Non era più capace di realizzare le sue opere da solo.

  Il risultato fu una forma distinta, uno stile ibrido, decisamente più astratto rispetto alla sua pittura. Continuava a giocare con gli stessi elementi che raffigurava da sempre: la natura, la figura umana. Ma saltò fuori, di colpo, un’altra energia, un linguaggio diverso.

  Le immagini su carta erano più semplificate, grezze rispetto a quelle su tela, ma richiedevano una lavorazione meticolosa, complessa. Si riconosce la mano e lo sguardo del pittore, ma sono cambiati. Si segue il filo rosso tra il nuovo metodo e i quadri precedenti, e ci si accorge anche di un punto di svolta, una mossa radicale.

  Per Matisse, tagliare non è solo una nuova tecnica ma un sistema per pensare ed espandere le possibilità di forma, colore e composizione. Un ripensamento della sua strategia artistica. Disse il pittore: «Le condizioni di questo viaggio sono al cento percento diverse». Paragonava questo metodo – che chiamava «dipingere con le forbici» – all’esperienza del volo.

  Il nuovo approccio di Matisse fu accolto, all’inizio, con diffidenza, con scetticismo. Un critico lo trovò, nella migliore delle ipotesi, «una distrazione piacevole». Anche l’artista era incerto. Tagliare, per Matisse, cominciò come un esercizio, un esperimento. Senza sapere che cosa significasse, seguiva una strada ignota, esplorando su scala sempre più vasta. Fu per lui, nonostante le difficoltà, un periodo di lavoro intenso, fecondo. Man mano abbracciò totalmente questo metodo; restò, fino alla sua morte, un passo definitivo.

  Lo scorso anno, mentre ultimavo la scrittura di In altre parole, ho visitato, a Londra, una mostra dedicata a quest’ultima tappa creativa di Matisse. Ho incontrato una serie di immagini liriche, ardite, di grande respiro. Ho notato un dialogo sorprendente tra spazio negativo e positivo. Ho capito come lo spazio bianco, come il silenzio, possa avere anche un significato.

  Sono rimasta colpita dall’effetto essenziale delle immagini su carta. Non c’è nulla di superfluo. Mettono in luce la cucitura, le spaccature. Essendo ridotte letteralmente a pezzi, comunicano una sorta di decostruzione, un atto di smantellamento quasi violento. Eppure sono armoniose, equilibrate. Esprimono un nuovo inizio. Ogni immagine, prima tagliata, poi ricostruita, suggerisce qualcosa di provvisorio, sospeso, vulnerabile. Evoca altre permutazioni, altre possibilità.

  Percorrendo la mostra, ho riconosciuto un artista che ha sentito il bisogno, a un certo punto, di cambiare strada, e di esprimersi diversamente. Che ha provato l’impulso folle di abbandonare un tipo di visione, perfino una certa identità creativa, per un’altra. Ho pensato alla mia scrittura in italiano: un processo altrettanto macchinoso, un risultato altrettanto rudimentale rispetto al mio lavoro in inglese.

  Il metodo di Matisse assomiglia un po’ a quello che faccio io. I pezzi di carta sono le parole, già definite da altri, selezionate e sistemate da me. Cerco di rifondare, da uno scompiglio di elementi, qualcosa di coerente.

  Scrivere in una lingua diversa rappresenta un atto di smantellamento, un nuovo inizio.

  In altre parole è il mio primo libro scritto direttamente in italiano. È nato nell’autunno 2012, in modo privato, frammentato, spontaneo. Mi ero appena trasferita a Roma dopo aver trascorso quasi tutta la vita in America. Parlavo l’italiano ma la mia conoscenza restava elementare. Volevo impadronirmene. Tenevo un taccuino in cui prendevo appunti in italiano, sull’italiano. Buttavo giù nuove parole, regole grammaticali da imparare, frasi che mi colpivano. Scrivevo tutto questo in maniera consueta, partendo dall’inizio del taccuino, riempiendo le pagine una dietro l’altra.

  Al contempo, sull’ultima pagina, procedendo a ritroso, ho cominciato a prendere note di un altro tipo, non sugli aspetti tecnici della lingua, ma sull’esperienza di tuffarmi nell’italiano in profondità. Erano appunti presi di sfuggita, una serie di commenti accatastati in fondo al taccuino, che quasi nascondevo a me stessa.

  Pian piano gli appunti sono diventati frasi, e le frasi paragrafi. Era una sorta di diario, scritto di getto. Tenevo già un altro diario italiano in cui descrivevo la mia vita quotidiana, le mie impressioni su Roma. Qui, invece, descrivevo soltanto le emozioni che lo slancio linguistico suscitava in me.

  Entro la primavera avevo esaurito il taccuino. La testa si era incontrata con la coda. Ho comprato un nuovo taccuino, ho messo via il primo dentro un cassetto. Continuavo a studiare l
’italiano, ma ho smesso di annotare i miei pensieri a ritroso. L’autunno successivo ho ripreso il primo taccuino. Ho trovato un’accozzaglia di pensieri, quasi sessanta pagine disordinate. Allora avevo scritto poche cose in italiano e le avevo fatte vedere a un paio di persone. Ma non avevo voglia di condividere il contenuto del taccuino con nessuno.

  Ecco alcuni appunti sull’ultima pagina, che era anche la prima:

  «lingua come una marea, ora un’inondazione, ora bassa, inaccessibile»

  «leggendo con un vocabolario»

  «fallimento»

  «qualcosa che rimane sempre fuori da me»

  Rileggendo gli appunti, ho intravisto quasi subito un filo, un ragionamento, forse persino un percorso narrativo. Un giorno, per capire meglio il loro significato, ho preso appunti sugli appunti precedenti. Ho visto che c’erano spunti da sviluppare, da sviscerare. Mi sono venuti in mente capitoli, titoli. Ho intuito un’andatura, una struttura. In poco tempo sapevo che il contenuto del primo taccuino sarebbe diventato questo libro.

  Avevo bisogno di più spazio. Ho comprato un quaderno. Ogni settimana, grosso modo, da novembre fino a maggio, ho lavorato su uno spunto diverso, fino a quando non sono arrivata all’ultimo. Non ero mai riuscita a scrivere nulla in questa maniera celere, lungimirante, conoscendo già quasi ogni passo davanti a me, sapendo già dove il sentiero mi avrebbe portato. Nonostante la fatica è stato un processo di scrittura fluido, immediato. Era tutto straordinariamente chiaro, tranne l’elemento centrale, tranne l’argomento stesso: la lingua.

  Come definire questo libro? È il quinto che scrivo. È anche un esordio. È un punto di arrivo e di partenza. È fondato su una mancanza, un’assenza. A partire dal titolo, implica un rifiuto. Questa volta non accetto le parole che conoscevo già, con cui avrei dovuto scrivere. Ne cerco altre.

  Credo che sia un libro titubante e allo stesso tempo impavido. Un testo sia privato sia pubblico. Da un lato scaturisce dagli altri. I temi, fino in fondo, restano invariati: l’identità, lo straniamento, l’appartenenza. Ma l’involucro, il contenuto, il corpo e l’anima sono trasfigurati.

  È un libro di viaggio, direi più interiore che geografico. Racconta uno sradicamento, uno stato di smarrimento, una scoperta. Racconta un viaggio a volte emozionante, a volte estenuante. Un viaggio assurdo, visto che la viaggiatrice non raggiunge mai il traguardo.

  È un libro di memoria, pieno di metafore. Racconta una ricerca, una conquista, una sconfitta continua. Un’infanzia e una maturità, un’evoluzione, forse una rivoluzione. È un libro d’amore, di sofferenza. Racconta una nuova indipendenza insieme a una nuova dipendenza. Una collaborazione, e anche uno stato di solitudine.

  A differenza degli altri, questo libro è il primo radicato nelle mie esperienze vere e vissute. Tranne due racconti, non è un’opera di fantasia. Lo ritengo una sorta di autobiografia linguistica, un autoritratto. Mi pare giusto citare le parole di Natalia Ginzburg che, nell’avvertenza di Lessico famigliare, diceva, «Non ho inventato niente».

  Eppure, da un altro punto di vista, ho inventato tutto. Scrivere in una lingua diversa significa partire da zero. Viene da un vuoto, per cui ogni frase sembra sbucata dal nulla. Lo sforzo di rendere mia la lingua, di possederla, assomiglia molto a un processo creativo, misterioso, illogico. Ma il possesso non è autentico, è una sorta di finzione anche quello. La lingua è vera, ma la maniera in cui la assorbo e utilizzo sembra finta. Un lessico cercato, acquisito, resta per sempre anomalo, come se fosse artefatto, anche se non lo è.

  Nell’imparare l’italiano ho imparato, di nuovo, a scrivere. Ho dovuto adottare un approccio differente. Ad ogni passo la lingua mi fronteggiava, mi costringeva. Allo stesso tempo mi ha permesso di ribellarmi, di andare oltre. Cito di nuovo un commento di Natalia Ginzburg su Lessico famigliare:

  «Non so se sia il migliore dei miei libri, ma certo è il solo libro che io abbia scritto in uno stato di assoluta libertà».

  Credo che il mio nuovo linguaggio, più limitato, più acerbo, mi dia uno sguardo più esteso, più maturo. Ecco la ragione per cui continuo, per il momento, a scrivere in italiano. Nel libro, parlo abbastanza del rapporto paradossale tra libertà e limiti. Non voglio ripetermi qui. Preferisco approfondire l’interconnessione tra la realtà e l’invenzione, e chiarire la questione dell’autobiografia, una questione che incombe da molti anni su di me.

  Scrivevo, all’inizio, per occultarmi. Volevo tenermi lontana dalla mia scrittura, ritirarmi sullo sfondo. Preferivo celarmi tra le righe, una presenza travestita, trasversale.

  Sono diventata una scrittrice in America, ma ho ambientato i miei primi racconti a Calcutta, una città in cui non ho mai vissuto, lontanissimo dal Paese in cui sono cresciuta, che conoscevo molto meglio. Perché? Perché avevo bisogno del distacco tra me e lo spazio creativo.

  Credevo, quando ho cominciato a scrivere, che fosse più virtuoso parlare degli altri. Temevo che la materia autobiografica fosse di minor valore creativo, perfino una forma di pigrizia da parte mia. Temevo che fosse egocentrico raccontare le proprie esperienze.

  In questo libro io sono, per la prima volta, la protagonista. Non c’è nemmeno un pizzico di un altro. Appaio sulle pagine in prima persona, e parlo francamente di me stessa. Un po’ come la serie di Nudi Blu di Matisse, figure femminili tagliate, raggruppate, mi sento spoglia in questo libro, appiccicata ad una nuova lingua, disgregata.

  Da molti anni non leggo ciò che scrivono su di me. So, però, che sono considerata da certi lettori una scrittrice autobiografica. Se spiego che non lo sono non ci credono, insistono. Dicono che il fatto che io sia di origine indiana, così come la gran parte dei miei personaggi, rende la mia opera palesemente autobiografica. Oppure pensano che qualsiasi racconto in prima persona debba essere vero.

  Per me un testo autobiografico è quello plasmato dalle proprie esperienze, che ha poca distanza tra la vita dello scrittore e le vicende del libro. Ogni scrittore tende a descrivere il mondo, la gente che conosce. Ma un’opera autobiografica è un passo in più. Alberto Moravia era di Roma, per cui ha ambientato tanti suoi racconti e romanzi a Roma. Era romano, così come molti dei suoi personaggi. Significa perciò che ogni suo racconto, ogni suo romanzo, sia autobiografico? Penso proprio di no.

  Ho trascorso più di un anno a promuovere il mio ultimo romanzo, La moglie. Non condivido le esperienze dei personaggi in quel romanzo. Quello che succede loro non mi è mai successo. Conosco i luoghi principali del libro, e la trama è basata su un episodio vero di cui però non ho alcun ricordo o impressione. La realtà mi ha fornito qualche seme. Ho immaginato tutto il resto.

  Più di una volta mi sono trovata davanti a un giornalista, un critico che sostiene che io abbia scritto un romanzo autobiografico. E ogni volta mi ha colpito, e mi ha anche innervosito, che un romanzo la cui trama, i cui personaggi ho completamente inventato sia considerato tale.

  Non sta a me valutare i miei libri. Vorrei semplicemente distinguere tra un romanzo realistico, ricavato dalla conoscenza, dalla curiosità da parte dell’autore, e uno autobiografico.

  In altre parole è diverso. Quasi tutto ciò che contiene mi è accaduto. Ho già spiegato che è iniziato come una sorta di diario, un testo personale. Resta il mio libro più intimo ma anche il più aperto.

  Perfino il mio primo tentativo di narrativa in italiano, Lo scambio, è autobiografico, non posso negarlo. È un racconto in terza persona, ma la protagonista, appena modificata, sono io. Sono andata io quel pomeriggio piovoso in quell’appartamento. Ho visto e osservato tutto quello che descrivo. Ho perso un golfino nero, ho reagito male, come la protagonista. Sono rimasta stranita, irrequieta, come lei. Qualche mese dopo ho trasformato l’esperienza cruda in un racconto. Penombra, scritto quasi due anni più tardi, è una storia inventata ma ha una base sempre autobiografica: il sogno del protagonista che apre il racconto viene da me.

  In passato pensavo che fantasticare anziché attingere direttamente dalla realtà mi avrebbe dato più autonomia creativa. Preferivo manipolare la verità, ma volevo anche rappresentarla fedelmente, autenticamente. Ci tenevo molto, da scrittrice, a
lla verosimiglianza. Dopo aver scritto questo libro mi sono ricreduta.

  Inventare potrebbe essere anche una trappola. Un personaggio fabbricato dal nulla dovrebbe sembrare una persona vera, ecco la sfida. È stata una sfida, soprattutto in La moglie, rappresentare un posto reale in cui non ho mai vissuto, ed evocare un’epoca storica che non conoscevo. Ho fatto molte ricerche per rendere plausibile quel mondo, quei tempi. Dal mio primo libro richiamavo Calcutta, la città di origine dei miei genitori. Dato che era, per loro, un luogo lontanissimo, quasi scomparso, cercavo un modo, attraverso la scrittura, di colmare la distanza, e di renderlo presente.

  Oggi non mi sento più in dovere di restituire un Paese perduto ai miei genitori. Mi ci è voluto molto tempo per accettare che il mio progetto di scrittura non dovesse assumere una tale responsabilità. In questo senso In altre parole è il primo libro che scrivo da adulta, ma dal punto di vista linguistico, anche da bambina.

  Continuo, da scrittrice, a cercare la verità, ma non do più lo stesso peso alla verità fattuale. In italiano mi muovo verso l’astrazione. I luoghi sono imprecisati, i personaggi finora sono senza nome, senza un’identità culturale specifica. Il risultato credo sia una scrittura affrancata per certi versi dal mondo concreto. Ora costruisco un’ambientazione meno determinata. Ecco perché capisco Matisse, quando paragonava la sua nuova tecnica all’esperienza del volo. Scrivendo in italiano, non mi sento più con i piedi per terra.

  Cosa mi ha spinto a prendere una nuova piega verso una scrittura sia più autobiografica sia più astratta? È una contraddizione in termini, mi rendo conto. Da dove deriva la prospettiva più personale, insieme alla tonalità più vaga? Sarà la lingua. In questo libro la lingua non è soltanto lo strumento ma anche il soggetto. L’italiano resta la maschera, il filtro, lo sbocco, il mezzo. Il distacco senza il quale non riesco a creare niente. Ed è questo nuovo distacco che mi aiuta a mostrare il mio volto.

 

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