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The Inferno (The Divine Comedy series Book 1)

Page 26

by Dante


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  caccerà l’altra con molta offensione.

  Poi appresso convien che questa caggia →

  infra tre soli, e che l’altra sormonti

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  con la forza di tal che testé piaggia.

  Alte terrà lungo tempo le fronti,

  tenendo l’altra sotto gravi pesi,

  72

  come che di ciò pianga o che n’aonti.

  Giusti son due, e non vi sono intesi; →

  superbia, invidia e avarizia sono →

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  le tre faville c’hanno i cuori accesi.”

  Qui puose fine al lagrimabil suono.

  E io a lui: “Ancor vo’ che mi ’nsegni

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  e che di più parlar mi facci dono.

  Farinata e ’l Tegghiaio, che fuor sì degni, →

  Iacopo Rusticucci, Arrigo e ’l Mosca

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  e li altri ch’a ben far puoser li ’ngegni,

  dimmi ove sono e fa ch’io li conosca;

  ché gran disio mi stringe di savere

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  se ’l ciel li addolcia o lo ’nferno li attosca.”

  E quelli: “Ei son tra l’anime più nere;

  diverse colpe giù li grava al fondo:

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  se tanto scendi, là i potrai vedere.

  Ma quando tu sarai nel dolce mondo, →

  priegoti ch’a la mente altrui mi rechi:

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  più non ti dico e più non ti rispondo.” →

  Li diritti occhi torse allora in biechi; →

  guardommi un poco e poi chinò la testa:

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  cadde con essa a par de li altri ciechi.

  E ’l duca disse a me: “Più non si desta

  di qua dal suon de l’angelica tromba,

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  quando verrà la nimica podesta:

  ciascun rivederà la trista tomba,

  ripiglierà sua carne e sua figura,

  99

  udirà quel ch’in etterno rimbomba.” →

  Sì trapassammo per sozza mistura

  de l’ombre e de la pioggia, a passi lenti,

  102

  toccando un poco la vita futura; →

  per ch’io dissi: “Maestro, esti tormenti

  crescerann’ ei dopo la gran sentenza,

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  o fier minori, o saran sì cocenti?”

  Ed elli a me: “Ritorna a tua scïenza, →

  che vuol, quanto la cosa è più perfetta,

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  più senta il bene, e così la doglienza.

  Tutto che questa gente maladetta →

  in vera perfezion già mai non vada,

  111

  di là più che di qua essere aspetta.”

  Noi aggirammo a tondo quella strada,

  parlando più assai ch’i’ non ridico;

  venimmo al punto dove si digrada:

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  quivi trovammo Pluto, il gran nemico.

  INFERNO VII

  “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!” →

  cominciò Pluto con la voce chioccia;

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  e quel savio gentil, che tutto seppe,

  disse per confortarmi: “Non ti noccia

  la tua paura; ché, poder ch’elli abbia,

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  non ci torrà lo scender questa roccia.”

  Poi si rivolse a quella ’nfiata labbia,

  e disse: “Taci, maladetto lupo! →

  9

  consuma dentro te con la tua rabbia.

  Non è sanza cagion l’andare al cupo: →

  vuolsi ne l’alto, là dove Michele

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  fé la vendetta del superbo strupo.”

  Quali dal vento le gonfiate vele →

  caggiono avvolte, poi che l’alber fiacca,

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  tal cadde a terra la fiera crudele.

  Così scendemmo ne la quarta lacca,

  pigliando più de la dolente ripa

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  che ’l mal de l’universo tutto insacca.

  Ahi giustizia di Dio! tante chi stipa →

  nove travaglie e pene quant’ io viddi?

  21

  e perché nostra colpa sì ne scipa?

  Come fa l’onda là sovra Cariddi, →

  che si frange con quella in cui s’intoppa,

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  così convien che qui la gente riddi. →

  Qui vid’ i’ gente più ch’altrove troppa, →

  e d’una parte e d’altra, con grand’ urli,

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  voltando pesi per forza di poppa.

  Percotëansi ’ncontro; e poscia pur lì

  si rivolgea ciascun, voltando a retro,

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  gridando: “Perché tieni?” e “Perché burli?”

  Così tornavan per lo cerchio tetro →

  da ogne mano a l’opposito punto,

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  gridandosi anche loro ontoso metro;

  poi si volgea ciascun, quand’ era giunto,

  per lo suo mezzo cerchio a l’altra giostra.

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  E io, ch’avea lo cor quasi compunto, →

  dissi: “Maestro mio, or mi dimostra

  che gente è questa, e se tutti fuor cherci →

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  questi chercuti a la sinistra nostra.”

  Ed elli a me: “Tutti quanti fuor guerci

  sì de la mente in la vita primaia,

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  che con misura nullo spendio ferci.

  Assai la voce lor chiaro l’abbaia,

  quando vegnono a’ due punti del cerchio

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  dove colpa contraria li dispaia.

  Questi fuor cherci, che non han coperchio →

  piloso al capo, e papi e cardinali,

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  in cui usa avarizia il suo soperchio.”

  E io: “Maestro, tra questi cotali

  dovre’ io ben riconoscere alcuni

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  che furo immondi di cotesti mali.”

  Ed elli a me: “Vano pensiero aduni:

  la sconoscente vita che i fé sozzi,

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  ad ogne conoscenza or li fa bruni.

  In etterno verranno a li due cozzi:

  questi resurgeranno del sepulcro

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  col pugno chiuso, e questi coi crin mozzi. →

  Mal dare e mal tener lo mondo pulcro

  ha tolto loro, e posti a questa zuffa:

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  qual ella sia, parole non ci appulcro.

  Or puoi, figliuol, veder la corta buffa

  d’i ben che son commessi a la fortuna, →

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  per che l’umana gente si rabuffa;

  ché tutto l’oro ch’è sotto la luna

  e che già fu, di quest’ anime stanche

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  non poterebbe farne posare una.”

  “Maestro mio,” diss’ io, “or mi dì anche:

  questa fortuna di che tu mi tocche,

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  che è, che i ben del mondo ha sì tra branche?”

  E quelli a me: “Oh creature sciocche, →

  quanta ignoranza è quella che v’offende!

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  Or vo’ che tu mia sentenza ne ’mbocche.

  Colui lo cui saver tutto trascende,

  fece li cieli e diè lor chi conduce

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  sì, ch’ogne parte ad ogne parte splende,

  distribuendo igualmente la luce.

  Similemente a li splendor mondani

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  ordinò general ministra e duce

  che permutasse a tempo li ben vani

  di gente in gente e d’uno in altro sangue,

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  oltre la difension d’i senni umani;

  per ch’una gente impera e l’altra langue,

  seguendo lo giudicio di costei,

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  che è occulto come in erba l’angue. →

  Vostro saver no
n ha contasto a lei:

  questa provede, giudica, e persegue

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  suo regno come il loro li altri dèi. →

  Le sue permutazion non hanno triegue:

  necessità la fa esser veloce;

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  sì spesso vien chi vicenda consegue. →

  Quest’ è colei ch’è tanto posta in croce

  pur da color che le dovrien dar lode,

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  dandole biasmo a torto e mala voce;

  ma ella s’è beata e ciò non ode:

  con l’altre prime creature lieta

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  volve sua spera e beata si gode.

  Or discendiamo omai a maggior pieta;

  già ogne stella cade che saliva →

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  quand’ io mi mossi, e ’l troppo star si vieta.”

  Noi ricidemmo il cerchio a l’altra riva

  sovr’ una fonte che bolle e riversa

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  per un fossato che da lei deriva.

  L’acqua era buia assai più che persa;

  e noi, in compagnia de l’onde bige,

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  intrammo giù per una via diversa.

  In la palude va c’ha nome Stige →

  questo tristo ruscel, quand’ è disceso

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  al piè de le maligne piagge grige.

  E io, che di mirare stava inteso, →

  vidi genti fangose in quel pantano,

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  ignude tutte, con sembiante offeso.

  Queste si percotean non pur con mano,

  ma con la testa e col petto e coi piedi,

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  troncandosi co’ denti a brano a brano.

  Lo buon maestro disse: “Figlio, or vedi

  l’anime di color cui vinse l’ira;

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  e anche vo’ che tu per certo credi

  che sotto l’acqua è gente che sospira, →

  e fanno pullular quest’ acqua al summo,

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  come l’occhio ti dice, u’ che s’aggira.

  Fitti nel limo dicon: ‘Tristi fummo

  ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,

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  portando dentro accidïoso fummo:

  or ci attristiam ne la belletta negra.’

  Quest’ inno si gorgoglian ne la strozza,

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  ché dir nol posson con parola integra.”

  Così girammo de la lorda pozza

  grand’ arco, tra la ripa secca e ’l mézzo,

  con li occhi vòlti a chi del fango ingozza.

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  Venimmo al piè d’una torre al da sezzo.

  INFERNO VIII

  Io dico, seguitando, ch’assai prima →

  che noi fossimo al piè de l’alta torre,

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  li occhi nostri n’andar suso a la cima

  per due fiammette che i vedemmo porre, →

  e un’altra da lungi render cenno,

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  tanto ch’a pena il potea l’occhio tòrre.

  E io mi volsi al mar di tutto ’l senno; →

  dissi: “Questo che dice? e che risponde

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  quell’ altro foco? e chi son quei che ’l fenno?”

  Ed elli a me: “Su per le sucide onde

  già scorgere puoi quello che s’aspetta,

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  se ’l fummo del pantan nol ti nasconde.”

  Corda non pinse mai da sé saetta

  che sì corresse via per l’aere snella,

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  com’ io vidi una nave piccioletta →

  venir per l’acqua verso noi in quella,

  sotto ’l governo d’un sol galeoto,

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  che gridava: “Or se’ giunta, anima fella!” →

  “Flegïàs, Flegïàs, tu gridi a vòto,” →

  disse lo mio segnore, “a questa volta: →

  21

  più non ci avrai che sol passando il loto.”

  Qual è colui che grande inganno ascolta →

  che li sia fatto, e poi se ne rammarca,

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  fecesi Flegïàs ne l’ira accolta.

  Lo duca mio discese ne la barca, →

  e poi mi fece intrare appresso lui;

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  e sol quand’ io fui dentro parve carca.

  Tosto che ’l duca e io nel legno fui,

  segando se ne va l’antica prora

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  de l’acqua più che non suol con altrui.

  Mentre noi corravam la morta gora, →

  dinanzi mi si fece un pien di fango, →

  33

  e disse: “Chi se’ tu che vieni anzi ora?”

  E io a lui: “S’i’ vegno, non rimango;

  ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto?”

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  Rispuose: “Vedi che son un che piango.”

  E io a lui: “Con piangere e con lutto, →

  spirito maladetto, ti rimani;

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  ch’i’ ti conosco, ancor sie lordo tutto.”

  Allor distese al legno ambo le mani; →

  per che ’l maestro accorto lo sospinse,

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  dicendo: “Via costà con li altri cani!”

  Lo collo poi con le braccia mi cinse;

  basciommi ’l volto e disse: “Alma sdegnosa,

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  benedetta colei che ’n te s’incinse!

  Quei fu al mondo persona orgogliosa; →

  bontà non è che sua memoria fregi:

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  così s’è l’ombra sua qui furïosa.

  Quanti si tegnon or là sù gran regi

  che qui staranno come porci in brago,

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  di sé lasciando orribili dispregi!”

  E io: “Maestro, molto sarei vago

  di vederlo attuffare in questa broda

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  prima che noi uscissimo del lago.”

  Ed elli a me: “Avante che la proda

  ti si lasci veder, tu sarai sazio:

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  di tal disïo convien che tu goda.”

  Dopo ciò poco vid’ io quello strazio

  far di costui a le fangose genti,

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  che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.

  Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!” →

  e ’l fiorentino spirito bizzarro →

  63

  in sé medesmo si volvea co’ denti. →

  Quivi il lasciammo, che più non ne narro;

  ma ne l’orecchie mi percosse un duolo,

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  per ch’io avante l’occhio intento sbarro.

  Lo buon maestro disse: “Omai, figliuolo,

  s’appressa la città c’ha nome Dite, →

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  coi gravi cittadin, col grande stuolo.”

  E io: “Maestro, già le sue meschite →

  là entro certe ne la valle cerno,

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  vermiglie come se di foco uscite

  fossero.” Ed ei mi disse: “Il foco etterno

  ch’entro l’affoca le dimostra rosse,

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  come tu vedi in questo basso inferno.”

  Noi pur giugnemmo dentro a l’alte fosse

  che vallan quella terra sconsolata:

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  le mura mi parean che ferro fosse. →

  Non sanza prima far grande aggirata,

  venimmo in parte dove il nocchier forte

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  “Usciteci,” gridò: “qui è l’intrata.” →

  Io vidi più di mille in su le porte →

  da ciel piovuti, che stizzosamente

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  dicean: “Chi è costui che sanza morte

  va per lo regno de la morta gente?”

  E ’l savio mio maestro fece segno

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  di voler lor parlar segretamente.

  Allor chiusero un poco il gran disdegno

  e disser: “Vien tu solo, e quei
sen vada

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  che sì ardito intrò per questo regno.

  Sol si ritorni per la folle strada:

  pruovi, se sa; ché tu qui rimarrai,

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  che li ha’ iscorta sì buia contrada.”

  Pensa, lettor, se io mi sconfortai →

  nel suon de le parole maladette,

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  ché non credetti ritornarci mai.

  “O caro duca mio, che più di sette →

  volte m’hai sicurtà renduta e tratto

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  d’alto periglio che ’ncontra mi stette,

  non mi lasciar,” diss’ io, “così disfatto;

  e se ’l passar più oltre ci è negato,

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  ritroviam l’orme nostre insieme ratto.”

  E quel segnor che lì m’avea menato,

  mi disse: “Non temer; ché ’l nostro passo →

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  non ci può tòrre alcun: da tal n’è dato.

  Ma qui m’attendi, e lo spirito lasso →

  conforta e ciba di speranza buona,

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  ch’i’ non ti lascerò nel mondo basso.”

  Così sen va, e quivi m’abbandona

  lo dolce padre, e io rimagno in forse,

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  che sì e no nel capo mi tenciona.

  Udir non potti quello ch’a lor porse;

  ma ei non stette là con essi guari,

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  che ciascun dentro a pruova si ricorse.

  Chiuser le porte que’ nostri avversari →

  nel petto al mio segnor, che fuor rimase

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  e rivolsesi a me con passi rari.

  Li occhi a la terra e le ciglia avea rase

 

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