The Inferno
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per Fonte Branda non darei la vista.
Dentro c’è l’una già, se l’arrabbiate →
ombre che vanno intorno dicon vero;
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ma che mi val, c’ho le membra legate?
S’io fossi pur di tanto ancor leggero →
ch’i’ potessi in cent’ anni andare un’oncia,
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io sarei messo già per lo sentiero,
cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
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e men d’un mezzo di traverso non ci ha.
Io son per lor tra sì fatta famiglia; →
e’ m’indussero a batter li fiorini
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ch’avevan tre carati di mondiglia.”
E io a lui: “Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
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giacendo stretti a’ tuoi destri confini?”
“Qui li trovai—e poi volta non dierno—,”
rispuose, “quando piovvi in questo greppo,
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e non credo che dieno in sempiterno.
L’una è la falsa ch’accusò Gioseppo; →
l’altr’ è ’l falso Sinon greco di Troia:
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per febbre aguta gittan tanto leppo.”
E l’un di lor, che si recò a noia →
forse d’esser nomato sì oscuro,
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col pugno li percosse l’epa croia.
Quella sonò come fosse un tamburo;
e mastro Adamo li percosse il volto
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col braccio suo, che non parve men duro,
dicendo a lui: “Ancor che mi sia tolto
lo muover per le membra che son gravi,
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ho io il braccio a tal mestiere sciolto.”
Ond’ ei rispuose: “Quando tu andavi
al fuoco, non l’avei tu così presto;
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ma sì e più l’avei quando coniavi.”
E l’idropico: “Tu di’ ver di questo:
ma tu non fosti sì ver testimonio
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là ’ve del ver fosti a Troia richesto.”
“S’io dissi falso, e tu falsasti il conio,” →
disse Sinon; “e son qui per un fallo,
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e tu per più ch’alcun altro demonio!”
“Ricorditi, spergiuro, del cavallo,” →
rispuose quel ch’avëa infiata l’epa;
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“e sieti reo che tutto il mondo sallo!”
“E te sia rea la sete onde ti crepa,”
disse ’l Greco, “la lingua, e l’acqua marcia
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che ’l ventre innanzi a li occhi sì t’assiepa!”
Allora il monetier: “Così si squarcia
la bocca tua per tuo mal come suole;
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ché s’i’ ho sete e omor mi rinfarcia, →
tu hai l’arsura e ’l capo che ti duole,
e per leccar lo specchio di Narcisso,
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non vorresti a ’nvitar molte parole.”
Ad ascoltarli er’ io del tutto fisso,
quando ’l maestro mi disse: “Or pur mira, →
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che per poco che teco non mi risso!”
Quand’ io ’l senti’ a me parlar con ira,
volsimi verso lui con tal vergogna,
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ch’ancor per la memoria mi si gira.
Qual è colui che suo dannaggio sogna, →
che sognando desidera sognare,
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sì che quel ch’è, come non fosse, agogna,
tal mi fec’ io, non possendo parlare,
che disïava scusarmi, e scusava
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me tuttavia, e nol mi credea fare.
“Maggior difetto men vergogna lava,” →
disse ’l maestro, “che ’l tuo non è stato;
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però d’ogne trestizia ti disgrava.
E fa ragion ch’io ti sia sempre allato,
se più avvien che fortuna t’accoglia
dove sien genti in simigliante piato:
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ché voler ciò udire è bassa voglia.”
INFERNO XXXI
Una medesma lingua pria mi morse, →
sì che mi tinse l’una e l’altra guancia,
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e poi la medicina mi riporse;
così od’ io che solea far la lancia
d’Achille e del suo padre esser cagione
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prima di trista e poi di buona mancia.
Noi demmo il dosso al misero vallone →
su per la ripa che ’l cinge dintorno,
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attraversando sanza alcun sermone.
Quiv’ era men che notte e men che giorno,
sì che ’l viso m’andava innanzi poco;
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ma io senti’ sonare un alto corno,
tanto ch’avrebbe ogne tuon fatto fioco,
che, contra sé la sua via seguitando,
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dirizzò li occhi miei tutti ad un loco.
Dopo la dolorosa rotta, quando →
Carlo Magno perdé la santa gesta,
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non sonò sì terribilmente Orlando.
Poco portäi in là volta la testa, →
che me parve veder molte alte torri;
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ond’ io: “Maestro, dì, che terra è questa?”
Ed elli a me: “Però che tu trascorri
per le tenebre troppo da la lungi,
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avvien che poi nel maginare abborri.
Tu vedrai ben, se tu là ti congiungi,
quanto ’l senso s’inganna di lontano;
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però alquanto più te stesso pungi.”
Poi caramente mi prese per mano →
e disse: “Pria che noi siam più avanti,
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acciò che ’l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti,
e son nel pozzo intorno da la ripa
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da l’umbilico in giuso tutti quanti.”
Come quando la nebbia si dissipa, →
lo sguardo a poco a poco raffigura
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ciò che cela ’l vapor che l’aere stipa,
così forando l’aura grossa e scura,
più e più appressando ver’ la sponda,
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fuggiemi errore e crescémi paura;
però che, come su la cerchia tonda →
Montereggion di torri si corona,
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così la proda che ’l pozzo circonda
torreggiavan di mezza la persona
li orribili giganti, cui minaccia
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Giove del cielo ancora quando tuona.
E io scorgeva già d’alcun la faccia,
le spalle e ’l petto e del ventre gran parte,
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e per le coste giù ambo le braccia.
Natura certo, quando lasciò l’arte →
di sì fatti animali, assai fé bene
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per tòrre tali essecutori a Marte.
E s’ella d’elefanti e di balene
non si pente, chi guarda sottilmente,
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più giusta e più discreta la ne tene;
ché dove l’argomento de la mente
s’aggiugne al mal volere e a la possa,
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nessun riparo vi può far la gente.
La faccia sua mi parea lunga e grossa →
come la pina di San Pietro a Roma,
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e a sua proporzione eran l’altre ossa;
sì che la ripa, ch’era perizoma
dal mezzo in giù, ne mostrava ben tanto
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di sovra, che di giugnere a la chioma
tre Frison s’averien dato m
al vanto;
però ch’i’ ne vedea trenta gran palmi
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dal loco in giù dov’ omo affibbia ’l manto.
“Raphèl maì amècche zabì almi,” →
cominciò a gridar la fiera bocca,
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cui non si convenia più dolci salmi. →
E ’l duca mio ver’ lui: “Anima sciocca, →
tienti col corno, e con quel ti disfoga
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quand’ ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
che ’l tien legato, o anima confusa,
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e vedi lui che ’l gran petto ti doga.”
Poi disse a me: “Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
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pur un linguaggio nel mondo non s’usa.
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascun linguaggio
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come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto.”
Facemmo adunque più lungo vïaggio,
vòlti a sinistra; e al trar d’un balestro
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trovammo l’altro assai più fero e maggio. →
A cigner lui qual che fosse ’l maestro,
non so io dir, ma el tenea soccinto
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dinanzi l’altro e dietro il braccio destro
d’una catena che ’l tenea avvinto
dal collo in giù, sì che ’n su lo scoperto
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si ravvolgëa infino al giro quinto.
“Questo superbo volle esser esperto →
di sua potenza contra ’l sommo Giove,”
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disse ’l mio duca, “ond’ elli ha cotal merto.
Fïalte ha nome, e fece le gran prove
quando i giganti fer paura a’ dèi;
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le braccia ch’el menò, già mai non move.”
E io a lui: “S’esser puote, io vorrei →
che de lo smisurato Brïareo
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esperïenza avesser li occhi mei.”
Ond’ ei rispuose: “Tu vedrai Anteo
presso di qui che parla ed è disciolto,
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che ne porrà nel fondo d’ogne reo.
Quel che tu vuo’ veder, più là è molto
ed è legato e fatto come questo,
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salvo che più feroce par nel volto.”
Non fu tremoto già tanto rubesto,
che scotesse una torre così forte,
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come Fïalte a scuotersi fu presto. →
Allor temett’ io più che mai la morte,
e non v’era mestier più che la dotta,
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s’io non avessi viste le ritorte.
Noi procedemmo più avante allotta,
e venimmo ad Anteo, che ben cinque alle, →
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sanza la testa, uscia fuor de la grotta.
“O tu che ne la fortunata valle →
che fece Scipïon di gloria reda,
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quand’ Anibàl co’ suoi diede le spalle,
recasti già mille leon per preda,
e che, se fossi stato a l’alta guerra
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de’ tuoi fratelli, ancor par che si creda
ch’avrebber vinto i figli de la terra:
mettine giù, e non ten vegna schifo,
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dove Cocito la freddura serra.
Non ci fare ire a Tizio né a Tifo:
questi può dar di quel che qui si brama; →
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però ti china e non torcer lo grifo.
Ancor ti può nel mondo render fama,
ch’el vive, e lunga vita ancor aspetta
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se ’nnanzi tempo grazia a sé nol chiama.”
Così disse ’l maestro; e quelli in fretta
le man distese, e prese ’l duca mio,
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ond’ Ercule sentì già grande stretta.
Virgilio, quando prender si sentio,
disse a me: “Fatti qua, sì ch’io ti prenda”;
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poi fece sì ch’un fascio era elli e io.
Qual pare a riguardar la Carisenda →
sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
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sovr’ essa sì, ched ella incontro penda:
tal parve Antëo a me che stava a bada
di vederlo chinare, e fu tal ora
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ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.
Ma lievemente al fondo che divora →
Lucifero con Giuda, ci sposò;
né, sì chinato, li fece dimora, →
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e come albero in nave si levò.
INFERNO XXXII
S’ïo avessi le rime aspre e chiocce, →
come si converrebbe al tristo buco
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sovra ’l qual pontan tutte l’altre rocce,
io premerei di mio concetto il suco
più pienamente; ma perch’ io non l’abbo,
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non sanza tema a dicer mi conduco;
ché non è impresa da pigliare a gabbo
discriver fondo a tutto l’universo,
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né da lingua che chiami mamma o babbo.
Ma quelle donne aiutino il mio verso →
ch’aiutaro Anfïone a chiuder Tebe,
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sì che dal fatto il dir non sia diverso.
Oh sovra tutte mal creata plebe →
che stai nel loco onde parlare è duro,
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mei foste state qui pecore o zebe!
Come noi fummo giù nel pozzo scuro →
sotto i piè del gigante assai più bassi,
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e io mirava ancora a l’alto muro,
dicere udi’mi: “Guarda come passi: →
va sì, che tu non calchi con le piante
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le teste de’ fratei miseri lassi.”
Per ch’io mi volsi, e vidimi davante →
e sotto i piedi un lago che per gelo
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avea di vetro e non d’acqua sembiante.
Non fece al corso suo sì grosso velo →
di verno la Danoia in Osterlicchi,
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né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,
com’ era quivi; che se Tambernicchi
vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
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non avria pur da l’orlo fatto cricchi.
E come a gracidar si sta la rana →
col muso fuor de l’acqua, quando sogna
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di spigolar sovente la villana,
livide, insin là dove appar vergogna
eran l’ombre dolenti ne la ghiaccia,
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mettendo i denti in nota di cicogna.
Ognuna in giù tenea volta la faccia; →
da bocca il freddo, e da li occhi il cor tristo
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tra lor testimonianza si procaccia.
Quand’ io m’ebbi dintorno alquanto visto,
volsimi a’ piedi, e vidi due sì stretti,
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che ’l pel del capo avieno insieme misto.
“Ditemi, voi che sì strignete i petti,”
diss’ io, “chi siete?” E quei piegaro i colli;
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e poi ch’ebber li visi a me eretti,
li occhi lor, ch’eran pria pur dentro molli, →
gocciar su per le labbra, e ’l gelo strinse
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le lagrime tra essi e riserrolli.
Con legno legno spranga mai non cinse
forte così; ond’ ei come due becchi
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cozzaro insieme, tanta ira li vinse.
E un ch’avea perduti ambo li orecchi
per la freddura, pur col viso in giùe,
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disse: “Perché cotanto in noi ti specchi? →
Se vuoi saper chi son cotesti due,
la valle onde Bisenzo si dichina
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del padre loro Alberto e di lor fue.
D’un corpo usciro; e tutta la Caina
potrai cercare, e non troverai ombra
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degna più d’esser fitta in gelatina:
non quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra
con esso un colpo per la man d’Artù;
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non Focaccia; non questi che m’ingombra
col capo sì, ch’i’ non veggio oltre più,
e fu nomato Sassol Mascheroni;
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se tosco se’, ben sai omai chi fu.
E perché non mi metti in più sermoni,
sappi ch’i’ fu’ il Camiscion de’ Pazzi;
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e aspetto Carlin che mi scagioni.”
Poscia vid’ io mille visi cagnazzi →
fatti per freddo; onde mi vien riprezzo,
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e verrà sempre, de’ gelati guazzi.
E mentre ch’andavamo inver’ lo mezzo →
al quale ogne gravezza si rauna,
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e io tremava ne l’etterno rezzo;
se voler fu o destino o fortuna,
non so; ma, passeggiando tra le teste,
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forte percossi ’l piè nel viso ad una.
Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste? →
se tu non vieni a crescer la vendetta
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di Montaperti, perché mi moleste?”
E io: “Maestro mio, or qui m’aspetta, →
sì ch’io esca d’un dubbio per costui;