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Sussurri

Page 17

by Dean Koontz


  Iniziò a elencare gruppi rock degli anni Sessanta. Tony non sapeva se fosse davvero andata a letto con tutta quella gente oppure se si fosse immaginata tutto o quasi, ma notò che non parlava mai di singole persone: era stata con interi gruppi, non con individui.

  Non si era mai chiesto che fine facessero le ragazzine che si univano ai vari gruppi rock, buttando via i loro anni migliori nel mondo della musica. Ma aveva comunque sco­perto quale destino potesse attenderle. Correvano dietro ai propri idoli, offrivano loro una muta dedizione, condivide­vano con loro la droga e si prestavano come pratici conte­nitori di sperma delle celebrità, senza pensare a ciò che ne sarebbe derivato. Poi, un bel giorno, la ragazza si trovava rovinata dal troppo alcol, dalla troppa erba, dalla cocaina e magari anche dall'eroina. Iniziava allora a notare le prime rughe attorno agli occhi e alla bocca, mentre i seni floridi davano i primi segni di cedimento: a quel punto veniva scacciata dal letto della celebrità e scopriva che non c'era nessun altro disposto ad accettarla. Se non era contraria a qualche giochetto, poteva ancora guadagnarsi da vivere per qualche anno. Ma per alcune di loro era decisamente troppo difficile poiché si consideravano "fidanzate" e non "puttane". Molte di loro si erano così precluse il matrimo­nio, perché avevano visto e fatto decisamente troppo per potersi rassegnare a una tranquilla vita fra quattro mura. Una di loro, Lana Haverby, aveva trovato lavoro a Las Pal­meras, ma considerava tale sistemazione come provvisoria, nell'attesa di tornare a far parte del bel mondo.

  "Quindi non starò qui ancora per molto," proseguì. "Presto me ne andrò. Può accadere da un momento all'al­tro, sa? Sento che sta per succedermi qualcosa di bello. Ho delle vibrazioni positive, capisce?"

  La sua situazione era indubbiamente triste e Tony non riuscì a dire nulla che potesse rallegrarla. "Ehm... be'... le auguro tutta la felicità di questo mondo," mormorò in tono stupido. Le passò davanti e uscì.

  Il guizzo di vitalità scomparve dai suoi occhi e Lana ri­prese la posa disperata di prima, con le spalle indietro e il petto in fuori. Il viso era stanco e tirato. La pancia stava an­cora lottando contro la cintura dei pantaloncini. E i fianchi erano decisamente troppo larghi per quei giochetti da ra­gazzina. "Ehi," sussurrò, "se ti capita di aver voglia di un goccio di vino e, be', insomma, quattro chiacchiere..."

  "Grazie."

  "Voglio dire, fermati pure quando vuoi, sempre che, in­somma, tu non sia in servizio."

  "Può darsi che lo faccia," mentì. Poi, rendendosi conto di essere stato poco convincente e deciso a dire qualcosa prima di andarsene, proseguì: "Hai delle belle gambe."

  Era vero, ma la donna non sapeva accettare un compli­mento. Fece una smorfia, si afferrò i seni con le mani ed esclamò: "Di solito sono le mie tette che attirano l'atten­zione."

  "Be'... ci vediamo," bofonchiò lui, girandosi e dirigen­dosi verso la macchina.

  Dopo pochi passi, si voltò e notò che la donna era rima­sta in piedi accanto alla porta, con la testa piegata da un lato e lontana mille miglia da lui e da Las Palmeras: stava ascoltando i deboli sussurri che cercavano di spiegarle il si­gnificato della vita.

  Mentre Tony saliva in macchina, Frank esclamò: "Pen­savo ti avesse afferrato con i suoi artigli. Stavo per chia­mare una squadra speciale per venire in tuo aiuto."

  Tony non trovò la battuta divertente.

  "È triste."

  "Che cosa?"

  "Lana Haverby."

  "Mi stai prendendo in giro?"

  "Tutta la situazione."

  "E solo una puttana da quattro soldi," sbottò Frank. "Ma che cosa ne dici del nostro amico Bobby che compera una Jaguar?"

  "Se non ha rapinato una banca, c'è solo un modo in cui può essersi procurato tutti quei soldi."

  "Droga," intervenne Frank.

  "Cocaina, erba, forse pcp."

  "Questo ci mette su una nuova strada per cercare quel bastardo. Possiamo girare per le strade e mettere sotto torchio gli spacciatori che già conosciamo, le persone che sono state pizzicate perché vendevano droga. Forse anche a loro dà fastidio e, visto che hanno da rimetterci, può darsi che ci consegnino Bobby su un vassoio d'argento, se solo sanno dove abita."

  "Nel frattempo," intervenne Tony, "è meglio che chiami la Centrale."

  Voleva che controllassero i dati relativi a una Jaguar nera registrata a nome di Juan Mazquezza. Se fossero riu­sciti a ottenere il numero di targa, sarebbe stato un gioco da ragazzi ritrovare l'auto di Bobby.

  Non significava ovviamente che l'avrebbero trovato su­bito. In un'altra città, un uomo ricercato come Bobby non sarebbe riuscito a rimanere libero per molto tempo. Sa­rebbe stato individuato o incastrato nel giro di qualche set­timana. Ma Los Angeles non era una città come le altre: in termini di superficie era più grande di qualsiasi altro centro urbano del paese. Los Angeles si estendeva su oltre milletrecento chilometri quadrati: copriva una volta e mezzo i sobborghi di New York, dieci volte quelli di Bo­ston ed era grande la metà dello stato di Rhode Island. Considerando anche gli stranieri illegali, che i normali censimenti non comprendevano, nell'intera area metropoli­tana vivevano circa nove milioni di persone. In quel labi­rinto di strade, vicoli, autostrade, colline e vallate un evaso intelligente poteva sopravvivere per parecchi mesi, agendo alla luce del sole con estrema tranquillità, come un qual­siasi cittadino.

  Tony accese la radio che era rimasta spenta tutta la mat­tina, chiamò la Centrale e chiese di controllare Juan Maz­quezza e la sua Jaguar.

  La donna che rispose al centralino aveva una voce sua­dente. Dopo aver preso nota della richiesta di Tony, lo in­formò che due ore prima era giunta una chiamata per lui e Frank. Erano le 11.45. Il caso di Hilary Thomas era stato riaperto e gli agenti che avevano risposto alla chiamata alle 9.30 li stavano aspettando a Westwood.

  Riappendendo il microfono, Tony lanciò un'occhiata a Frank e sbottò: "Lo sapevo! Dannazione, sapevo che non stava mentendo!"

  "Aspetta a parlare," lo rimproverò Frank. "Probabil­mente si tratta di un'altra sua invenzione."

  "Non cedi mai, vero?"

  "Non quando so di aver ragione."

  Qualche minuto più tardi, si fermarono davanti alla casa della Thomas. Nel vialetto d'ingresso erano posteggiate due automobili della stampa, una pattuglia della polizia e la station wagon del laboratorio.

  Mentre scendevano dalla macchina e si dirigevano verso la casa, un agente in uniforme andò loro incontro. Tony lo conosceva: si chiamava Warren Prewitt. Si fermarono a metà strada.

  "Siete stati voi a ricevere la chiamata la scorsa notte?" chiese Prewitt.

  "Esatto," rispose Frank.

  "Come mai? Lavorate ventiquattr'ore al giorno?"

  "Ventisei," precisò Frank.

  Tony intervenne: "Come sta la donna?"

  "Un po' scossa," rispose Prewitt.

  "È ferita?"

  "Qualche escoriazione sul collo."

  "Niente di serio?"

  "No."

  "Che cos'è successo?" domandò Frank.

  Prewit spiegò in breve ciò che Hilary Thomas gli aveva raccontato.

  "Esistono prove che dica la verità?" si informò Frank.

  "So come la pensi su questo caso," ribattè Prewitt. "Ma abbiamo le prove."

  "E sarebbe?" grugnì Frank.

  "Si è introdotto in casa attraverso una finestra dello stu­dio. Un bel lavoro. Ha messo del nastro adesivo sul vetro in modo da non far rumore nel romperlo."

  "Potrebbe essere stata lei," sbottò Frank.

  "A rompere il vetro?"

  "Sì. Perché no?"

  "Be'," proseguì Prewitt, "non è stata lei a sporcare di sangue tutta la casa."

  "Quanto sangue?" domandò Tony.

  "Non tantissimo, ma neanche poco," spiegò Prewitt. "Ce n'è un po' sul pavimento dell'ingresso, un'impronta della mano insanguinata sulla parete, alcune gocce sulle scale, un'altra macchia sul muro e tracce di sangue sul pomolo della porta."

  "Sangue umano?" indagò Frank.

  Prewitt ammiccò leggermente. "Eh?"

  "Volevo sapere se era sangue finto, uno
scherzo, in­somma."

  "Oh, per l'amor del cielo!" esclamò Tony.

  "I ragazzi del laboratorio sono arrivati qui solo tre quarti d'ora fa," proseguì Prewitt. "Non hanno ancora detto niente. Ma sono sicuro che è sangue umano. Inoltre, tre vi­cini hanno visto un uomo che si allontanava di corsa."

  "Ah," mormorò Tony.

  Frank scosse la testa con lo sguardo fisso al prato, come se stesse cercando di far appassire l'erba.

  "Ha lasciato la casa piegato in due," continuò Prewitt. "Si stringeva le mani allo stomaco e si trascinava curvo in avanti. Questo conferma la deposizione di Miss Thomas, che afferma di averlo pugnalato due volte al torace."

  "Dov'è andato?" chiese Tony.

  "Abbiamo un testimone che sostiene di averlo visto sa­lire su un furgone Dodge grigio a due isolati da qui. Si è al­lontanato in macchina."

  "Abbiamo il numero di targa?"

  "No," rispose Prewitt, "ma abbiamo sparso in giro la voce. Stiamo cercando il furgone."

  Frank Howard alzò gli occhi. "Vedi, forse questa aggres­sione non è collegata alla storia che ci ha fatto bere la scorsa notte. Forse ha gridato al lupo e poi questa mattina è stata aggredita sul serio."

  "Non ti sembra una strana coincidenza?" sbottò Tony, esasperato.

  "Comunque, le due aggressioni devono essere collegate," spiegò Prewitt. "La donna giura che si tratta dello stesso uomo."

  Frank incrociò lo sguardo di Tony e proseguì: "Ma non può essere Bruno Frye! Sai anche tu che cos'ha detto lo sceriffo Laurenski."

  "Non ho mai affermato che fosse davvero Frye," prose­guì Tony. "La scorsa notte ho pensato che fosse stata ag­gredita da qualcuno che somigliava a Frye."

  "Ma lei insisteva..."

  "Sì, ma era spaventata e agitata," incalzò Tony. "Non riusciva a vedere le cose con chiarezza e deve aver scam­biato un sosia per il vero Frye. È comprensibile."

  "E poi sarei io a parlare di coincidenze," lo punzecchiò Frank.

  In quel momento l'agente Gurney, compagno di Pre­witt, uscì dalla casa e li chiamò: "Ehi, l'hanno trovato! Il ti­zio che è stato accoltellato!"

  Tony, Frank e Prewitt si precipitarono verso la porta.

  "Ha appena chiamato la Centrale," spiegò Gurney. "Un paio di ragazzini con lo skateboard l'hanno trovato circa venticinque minuti fa."

  "Dove?"

  "Lungo la Sepulveda. Nel posteggio di un supermercato. Era disteso per terra accanto al furgone."

  "Morto?"

  "Stecchito."

  "Aveva qualche documento d'identità?" domandò Tony.

  "Sì," rispose Gurney. "E proprio come ci ha detto la si­gnora. È Bruno Frye."

  Freddo.

  Il condizionatore ronzava attraverso le pareti. Nuvole di aria ghiacciata fuoriuscivano da due aperture poste vicino al soffitto.

  Hilary indossava un abito color verde mare, decisamente troppo leggero per scacciare i brividi di freddo. Si strinse nelle spalle alla ricerca di un po' di tepore.

  Alla sua sinistra c'era il tenente Howard, visibilmente imbarazzato. Alla sua destra il tenente Clemenza.

  Quel locale non sembrava far parte di un obitorio. Asso­migliava più alla cabina di una navicella spaziale. Era facile immaginare che oltre quelle pareti grigie si estendesse il gelo dello spazio. Il ronzio costante del condizionatore d'a­ria somigliava al ruggito lontano dei motori di un razzo. Erano in piedi davanti a una finestra che dava su un'altra stanza, ma Hilary avrebbe preferito scorgere le stelle lon­tane e l'oscurità infinita oltre quello spesso vetro. Avrebbe preferito mille volte trovarsi nel bel mezzo di un intermina­bile viaggio intergalattico invece che in un obitorio, in at­tesa di identificare l'uomo che aveva ucciso.

  L'ho ucciso, pensò.

  Quelle parole le risuonarono nella mente e aumentarono la sensazione di gelo.

  Diede un'occhiata all'orologio.

  Le 3.18.

  "Ci vorrà solo un minuto," le assicurò il tenente Cle­menza.

  Mentre Clemenza parlava, un inserviente spinse nella stanza una barella, fermandosi dall'altra parte della fine­stra, al centro della vetrata. Sulla barella era appoggiato un corpo, coperto da un lenzuolo. L'inserviente scoprì il cada­vere fino al torace e si allontanò.

  Hilary osservò il corpo e sentì la testa che girava.

  La bocca era completamente secca.

  Il volto di Frye era bianco e immobile, ma Hilary aveva la strana sensazione che in qualsiasi momento avrebbe po­tuto voltare la testa verso di lei e spalancare gli occhi.

  "È lui?" chiese il tenente Clemenza.

  "È Bruno Frye," rispose in un soffio.

  "Ma è l'uomo che è entrato in casa sua e che l'ha aggre­dita?" domandò il tenente Howard.

  "Non ricominciamo con questa stupida storia," protestò. "Per favore."

  "No, no," intervenne Clemenza, "il tenente Howard non ha più dubbi sulla sua storia, Miss Thomas. Vede, sappiamo già che quest'uomo è Bruno Frye. L'abbiamo stabi­lito grazie ai documenti che aveva addosso. Ma dobbiamo assicurarci che sia l'uomo che l'ha aggredita, l'uomo che lei ha pugnalato."

  La bocca del morto era priva di espressione, senza ghigni né sorrisi, ma Hilary ricordava perfettamente la piega iro­nica che aveva notato in precedenza.

  "È lui," affermò. "Ne sono certa. Ne sono sempre stata certa. E me lo sognerò di notte per molto tempo."

  Il tenente Howard fece un cenno all'inserviente oltre il vetro e l'uomo ricoprì il cadavere.

  Hilary fu scossa da un altro pensiero, agghiacciante per quanto assurdo: e se adesso si siede sulla barella e getta via il lenzuolo?

  "Ora l'accompagneremo a casa," mormorò Clemenza.

  Hilary uscì dalla stanza precedendo i due investigatori. Si sentiva in colpa perché aveva ucciso un uomo, ma era decisamente sollevata e contenta che fosse morto.

  L'accompagnarono a casa a bordo della macchina della po­lizia. Frank era al volante e Tony sedeva di fianco a lui. Hi­lary Thomas aveva preso posto dietro e se ne stava con le spalle leggermente incassate, come se avesse molto freddo nonostante la tiepida giornata di fine settembre.

  Tony continuava a trovare qualche scusa per voltarsi e parlare. Non voleva staccarle gli occhi di dosso. Era incan­tevole e Tony si sentiva come quando, nei grandi musei, si soffermava davanti a un quadro particolarmente delicato, opera di un maestro del passato.

  Lei gli rispondeva abbozzando deboli sorrisi, ma non era nello spirito più adatto per chiacchierare. Era immersa nei propri pensieri e trascorse la maggior parte del tempo in si­lenzio, lo sguardo perso oltre il finestrino.

  Quando giunsero sul vialetto circolare che conduceva a casa sua, Frank si voltò e balbettò: "Miss Thomas... io... be'... le devo le mie scuse."

  Tony non fu sorpreso da quelle parole, ma rimase colpito dalla sincera nota di pentimento nella voce di Frank e dall'espressione supplichevole che apparve sul suo volto: la dolcezza e l'umiltà non erano certamente le caratteristiche fondamentali di Frank.

  Anche Hilary Thomas parve sorpresa. "Oh... be'... im­magino che stesse solo svolgendo il suo lavoro."

  "No," esclamò Frank. "È questo il problema. Non stavo facendo il mio lavoro. O, perlomeno, non lo stavo facendo nel modo più corretto."

  "È tutto finito ora," mormorò Hilary.

  "Ma accetta le mie scuse?"

  "Be'... ma certo," disse, visibilmente a disagio.

  "Mi sento in colpa per il modo in cui l'ho trattata."

  "Frye non mi darà più fastidio," proseguì la donna, "e credo che questa sia l'unica cosa importante."

  Tony scese dalla macchina e le aprì la portiera. Non avrebbe potuto scendere da sola perché le portiere poste­riori della berlina non avevano le maniglie all'interno: un deterrente per i prigionieri che avevano intenzione di fug­gire. E inoltre, Tony voleva accompagnarla fino a casa.

  "Forse dovrà testimoniare nel corso dell'inchiesta," le spiegò mentre si avvicinavano alla casa.

  "Perché? Quando l'ho pugnalato, Frye era in casa mia, contro la mia volontà. La mia vita era in pericolo."

  "Oh,
non ci sono dubbi che si tratti di un semplice caso di autodifesa," aggiunse Tony rapidamente. "Nel caso do­vesse deporre, sarà solo una formalità. Non c'è la benché minima possibilità che venga accusata di qualcosa, o roba del genere."

  Hilary aprì la porta, si voltò verso di lui e gli regalò un sorriso radioso. "Grazie per avermi creduto la scorsa notte, nonostante quello che aveva affermato lo sceriffo di Napa County."

  "Controlleremo anche lui," assicurò Tony. "Dovrà spie­garci alcune cose. Se le interessa, le farò sapere perché ha agito in questo modo."

  "Io sono molto curiosa," affermò Hilary.

  "D'accordo. La terrò informata."

  "Grazie."

  "Si figuri."

  Hilary fece un passo verso la casa.

  Tony non si mosse.

  Lei si voltò a guardarlo.

  Lui sorrise stupidamente.

  "C'è qualcos'altro?" chiese.

  "A dire la verità, sì."

  "Che cosa?"

  "Un'altra domanda."

  "Sì?"

  Non si era mai sentito così impacciato con una donna prima di allora.

  "Verrebbe a cena con me sabato?"

  "Oh," mormorò. "Be'... non credo di potere."

  "Capisco."

  "Voglio dire, mi piacerebbe molto."

  "Sul serio?"

  "Ma in questi giorni non ho molto tempo per la vita mondana," spiegò.

  "Capisco."

  "Ho appena concluso un importante affare con la War­ner Brothers e sarò occupata giorno e notte."

  "Capisco," ripetè.

  Si sentiva come un ragazzino delle superiori che è ap­pena stato rifiutato dalla cheerleader più famosa della scuola.

  "È stato molto gentile a chiedermelo," riprese lei.

  "Certo. Be'... in bocca al lupo con la Warner Brothers."

  "Grazie."

  "Le farò sapere dello sceriffo Laurenski."

  "Grazie."

  Tony sorrise e lei fece altrettanto.

  Lui si girò, si incamminò verso l'auto e udì la porta della casa che si chiudeva. Si fermò e si voltò per guardarla.

 

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