Sussurri

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Sussurri Page 18

by Dean Koontz


  Un piccolo rospo saltellò fuori dai cespugli bloccandosi sul selciato davanti a Tony. Rimase immobile in mezzo al vialetto e lo fissò, con gli enormi occhi tondi che ruotavano cercando la giusta angolazione e il minuscolo torace verde-marrone che si alzava e abbassava rapidamente.

  Tony osservò il rospo ed esclamò: "Ho mollato troppo presto?"

  Il rospo emise un suono gracchiante.

  "Che cos'ho da perdere?" si chiese Tony.

  Il rospo gracidò di nuovo.

  "È così che la penso. Non ho niente da perdere."

  Oltrepassò il cupido-anfibio e suonò il campanello. Sentì Hilary Thomas che controllava attraverso lo spioncino e non appena lei aprì la porta, le rivolse una domanda senza lasciarle il tempo di aprir bocca: "Sono così orribile?"

  "Che cosa?"

  "Assomiglio forse a Quasimodo o roba del genere?"

  "Veramente, io..."

  "Non uso lo stuzzicadenti in pubblico," spiegò.

  "Tenente Clemenza..."

  "È perché sono un poliziotto?"

  "Come?"

  "Sa che cosa pensa molta gente?"

  "Che cosa pensa molta gente?"

  "Sostengono che i poliziotti sono socialmente inaccetta­bili."

  "Be', io non appartengo a quel genere di persone."

  "Non è una snob?"

  "No. È solo che..."

  "Forse non ha accettato il mio invito perché non ho un sacco di soldi e non abito a Westwood."

  "Tenente, ho trascorso la maggior parte della mia vita senza una lira e non ho sempre abitato a Westwood."

  "E allora mi chiedo che cosa non va," esclamò, osservan­dosi con aria divertita.

  Hilary sorrise e scosse la testa. "Non c'è niente che non va, tenente."

  "Sia ringraziato Iddio!"

  "Davvero, ho rifiutato per un solo motivo. Non ho tempo per..."

  "Miss Thomas, persino il presidente degli Stati Uniti riesce a prendersi una serata di libertà ogni tanto. Persino il presidente della General Motors ha del tempo libero. Per­sino il Papa. Persino il Signore si è riposato il settimo giorno. Nessuno può essere perennemente occupato."

  "Tenente..."

  "Chiamami Tony."

  "Tony, con quello che è successo negli ultimi due giorni, temo che non sarei una compagnia molto divertente."

  "Se volessi andare a cena per farmi quattro risate, invite­rei un gruppetto di scimmie."

  Hilary sorrise nuovamente e Tony provò l'impulso di prenderle il viso fra le mani e di coprirlo di baci.

  "Mi dispiace. Ma ho bisogno di rimanere sola per qual­che giorno."

  "E esattamente ciò di cui non hai bisogno dopo un'espe­rienza del genere. Devi uscire, stare fra la gente e risolle­varti il morale. E non sono l'unico a pensarla in questo modo." Si voltò e indicò qualcosa sul selciato dietro di lui. Il rospo era ancora lì. Si era girato per osservarli.

  "Chiedilo a Mr Rospo," proseguì Tony.

  "Mr Rospo?"

  "Un mio conoscente. Una persona molto saggia." Tony si inginocchiò e fìsso il rospo. "Non ha forse bisogno di uscire e di divertirsi, Mr Rospo?"

  La bestiola abbassò leggermente le pesanti palpebre ed emise un divertente gracidio in segno di risposta.

  "Hai assolutamente ragione," proseguì Tony. "E non credi che io sarei la persona giusta per uscire con lei?"

  "Screee-ooak," gracchiò.

  "Che cosa le farai se rifiuterà di nuovo il mio invito?"

  "Screee-ooak, screee-ooak."

  "Aaah," esclamò Tony, annuendo soddisfatto mentre si rialzava.

  "Allora, che cos'ha detto?" chiese Hilary, con una smor­fia. "Che cosa mi farà se non uscirò con te? Mi riempirà di bitorzoli?"

  Tony assunse un'aria seria. "Ancora peggio. Mi ha detto che si infilerà dentro casa tua, arriverà fino alla camera da letto e continuerà a gracchiare per tutta la notte senza farti dormire fino a quando non cederai."

  La donna sorrise. "Okay. Mi arrendo."

  "Sabato sera?"

  "D'accordo."

  "Passerò a prenderti alle sette."

  "Come devo vestirmi?"

  "Sportiva," rispose.

  "Ci vediamo sabato alle sette."

  Tony si voltò verso il rospo e mormorò: "Grazie, amico."

  Il rospo saltellò sul selciato, poi nell'erba, e si nascose fra i cespugli.

  Tony lanciò un'occhiata a Hilary. "La gratitudine lo im­barazza sempre."

  Hilary sorrise e chiuse la porta.

  Tony ritornò alla macchina e salì, fischiettando allegra­mente.

  Mentre Frank si allontanava dalla casa, chiese: "Che cos'è successo?"

  "Ho un appuntamento," rispose Tony.

  "Con lei?"

  "Be', non certo con sua sorella."

  "Un bel colpo."

  "Un bel rospo."

  "Eh?"

  "È un gioco di parole."

  Dopo un paio di isolati, Frank proseguì: "Sono le quat­tro passate. Il tempo di riportare questo macinino al depo­sito e saranno già le cinque."

  "Hai intenzione di smontare in orario per una volta?" domandò Tony.

  "Tanto fino a domani non possiamo fare molto per BobbyValdez."

  "Già," ammise Tony. "E allora freghiamocene."

  Poco più avanti, Frank bofonchiò: "Perché non andiamo a bere qualcosa?"

  Tony lo guardò, sbalordito. Era la prima volta da quando lavoravano insieme che Frank proponeva una cosa del genere.

  "Solo un paio di drink," aggiunse Frank. "A meno che tu non abbia in programma qualcosa..."

  "No. Sono libero."

  "Conosci un bar?"

  "Il luogo ideale. Si chiama The Bolt Hole."

  "Non è vicino alla Centrale, vero? Non è uno di quei lo­cali sempre pieni di poliziotti?"

  "Per quanto ne so, sono l'unico tutore della legge a fre­quentarlo. È sul Santa Monica Boulevard, dalle parti di Century City. È a un paio di isolati dal mio appartamento."

  "Sembra che possa andare," ammise Frank. "Ci vedremo là."

  Proseguirono senza parlare fino al garage della polizia: era un silenzio decisamente più amichevole di quello che aveva sempre regnato fra di loro, ma era pur sempre un si­lenzio.

  Che cosa voleva? si chiese Tony. Perché Frank Howard aveva lasciato cadere la sua proverbiale riservatezza?

  Alle 4.30, l'ispettore medico di Los Angeles ordinò una parziale autopsia sul corpo di Bruno Gunther Frye. Per quanto possibile, il cadavere doveva essere aperto solo nella zona addominale, al fine di valutare se erano state solo le due ferite a determinare la morte dell'uomo.

  L'ispettore medico non si sarebbe occupato personal­mente dell'autopsia, poiché doveva prendere un volo per San Francisco alle 5.30 e presenziare a una conferenza. Il compito fu assegnato a un patologo del suo staff.

  Il corpo dell'uomo rimase in una stanza gelata insieme con gli altri cadaveri, su una barella fredda, perfettamente immobile sotto un lenzuolo bianco.

  Hilary Thomas era esausta. Le ossa le facevano male e le giunture sembravano in fiamme. Era come se ogni singolo muscolo fosse stato messo nel frullatore a massima velocità e poi ricomposto. La tensione emotiva poteva produrre esattamente gli stessi effetti fisiologici di un intenso sforzo fisico.

  Era anche decisamente nervosa e troppo tesa per riuscire a rilassarsi con un pisolino. Udì alcuni rumori dovuti al normale assestamento della casa, ma ogni volta ebbe la sen­sazione che un intruso stesse facendo scricchiolare il pavi­mento. Quando la leggera brezza autunnale fece sbattere le fronde degli alberi contro una finestra, Hilary pensò imme­diatamente che qualcuno stesse tagliando il vetro o for­zando la serratura. E nel lungo silenzio che seguì, ebbe l'impressione che ci fosse qualcosa di sinistro in quella pace assoluta. Aveva i nervi tesi come le corde di un violino. Un libro era solitamente la miglior cura per allentare la ten­sione. Passò in rassegna i volumi sulle mensole nello studio e scelse l'ultimo romanzo di James Clavell, ambientato in Oriente. Si versò un bicchiere di Dry Sack con ghiaccio, si sedette nella comoda poltrona marrone e iniziò a le
ggere.

  Venti minuti più tardi, mentre cominciava a perdersi fra le pagine del romanzo, squillò il telefono. Si alzò e afferrò il ricevitore. "Pronto?"

  Nessuna risposta.

  "Pronto?"

  L'interlocutore rimase in ascolto per qualche secondo e poi riappese.

  Hilary appoggiò la cornetta e la fissò per un attimo.

  Aveva sbagliato numero?

  Doveva essere così.

  Ma perché non l'aveva detto?

  Alcune persone non lo fanno mai, spiegò a se stessa. Esi­stono i maleducati.

  E se non avessero sbagliato numero? E se fosse stato... qualcos'altro?

  Smettila di vedere mostri ovunque! ordinò a se stessa. Frye è morto. E stata una brutta esperienza, ma ormai è fi­nita. Hai bisogno di un po' di riposo, un paio di giorni per recuperare le forze e la tranquillità. Ma devi piantarla di guardarti dietro le spalle e devi andare avanti per la tua strada. Altrimenti finirai rinchiusa in un manicomio.

  Si raggomitolò nella poltrona ma fu percorsa da un bri­vido che le fece venire la pelle d'oca sulle braccia. Andò fino all'armadio e prese una coperta blu e verde che si av­volse intorno alle gambe.

  Sorseggiò il Dry Sack.

  Riprese a leggere il libro di Clavell.

  Ben presto, dimenticò quella strana telefonata.

  Alla fine del suo turno, Tony andò a casa, si sciacquò la faccia e si infilò un paio di jeans e una camicia a scacchi blu. Prese anche un giubbotto e raggiunse a piedi The Bolt Hole.

  Frank era già arrivato e sedeva in una saletta sul retro. Indossava ancora giacca e cravatta e sorseggiava uno scotch.

  The Bolt Hole, o semplicemente The Hole, come lo chiamavano i clienti abituali, non era niente di straordina­rio: un normalissimo bar di periferia. Negli ultimi vent'anni, in risposta a una cultura sempre più fratturata e spezzettata, l'industria della ristorazione americana si era fatta trascinare dalla frenesia della specializzazione, perlo­più nelle grandi città. The Hole era riuscito a sfuggire a quella tendenza. Non era un bar per gay. Non era un bar per single o per amanti del sesso facile. Non era un bar fre­quentato prevalentemente da automobilisti, camionisti, uo­mini d'affari, poliziotti fuori servizio, oppure impiegati di banca: la sua clientela era mista e ben rappresentava l'in­tera comunità. Non era il genere di locale dove si esibivano le ballerine a seno nudo. Non era il bar dove si ascoltava solo rock and roll oppure musica country. E, grazie al cielo, non era neppure il classico punto di ritrovo degli sportivi, nel quale troneggiava un televisore gigante e la voce di Howard Cosell risuonava amplificata. The Hole era in grado di offrire solo luci soffuse, un ambiente pulito e discreto, sgabelli comodi, un juke box con il volume non troppo alto, hot-dog e hamburger preparati in una minu­scola cucina e ottimi drink a prezzi ragionevoli.

  Tony si accomodò di fronte a Frank.

  Penny, una cameriera con capelli biondo rossicci, guance paffute e una fossetta sul mento, si fermò accanto al tavolo. Scompigliò i capelli di Tony e chiese: "Che cosa vuoi, Renoir?"

  "Un milione di dollari, una Rolls-Royce, la vita eterna e l'acclamazione della folla," rispose Tony.

  "Nel frattempo di che cosa potresti accontentarti?"

  "Di una bottiglia di Coors."

  "Credo di averla," annunciò la ragazza.

  "Per me un altro scotch," disse Frank. Quando la came­riera si allontanò in direzione del bar, Frank domandò: "Perché ti ha chiamato Renoir?"

  "Era un famoso pittore francese."

  "E allora?"

  "Be', anch'io sono un pittore, anche se non sono né fran­cese né famoso. Penny lo fa solo per prendermi in giro."

  "Tu dipingi quadri?" chiese Frank.

  "Di certo non dipingo le case."

  "E perché non me lo hai mai detto?"

  "Un paio di volte ho fatto qualche commento sulle opere d'arte," rispose Tony. "Ma non mi è sembrato che l'argomento ti interessasse. Anzi, forse avresti mostrato più entusiasmo se ti avessi proposto di discutere della gramma­tica Swahili oppure del processo di decomposizione dei ca­daveri dei neonati."

  "Dipinti a olio?" proseguì Frank.

  "A olio. Matita e inchiostro. Acquerelli. Un po' di tutto, ma soprattutto a olio."

  "E da quanto tempo hai questa passione?"

  "Da quando ero bambino."

  "Ne hai venduto qualcuno?"

  "Non dipingo i quadri per venderli."

  "E allora perché lo fai?"

  "Per me stesso."

  "Mi piacerebbe vedere alcune delle tue opere."

  "Il mio museo osserva degli strani orari, ma sono sicuro che possiamo organizzare una visita."

  "Museo?"

  "Il mio appartamento. Non ci sono molti mobili, ma è pieno di quadri."

  Penny arrivò con le ordinazioni.

  Rimasero senza parlare per un attimo, poi discussero un po' di Bobby Valdez e ripiombarono nel silenzio.

  Nel bar c'erano circa sedici, diciassette persone e molte di loro avevano già ordinato dei panini. L'aria era impre­gnata del delizioso profumo del manzo affumicato e delle cipolle affettate.

  Alla fine, Frank mormorò: "Immagino ti stia chiedendo perché siamo qui."

  "Per bere qualcosa."

  "C'è dell'altro." Frank mescolò lo scotch con un baston­cino da cocktail. I cubetti di ghiaccio produssero un ru­more sordo. "Ci sono un paio di cose che vorrei dirti."

  "Pensavo ne avessimo già parlato questa mattina, in macchina, dopo essere andati alla Vee Vee Gee."

  "Dimentica quello che ho detto."

  "Avevi il diritto di lamentarti."

  "Ero solo incazzato," sbottò Frank.

  "No, forse avevi ragione."

  "Te l'ho già detto, ero incazzato."

  "Va bene," concesse Tony. "Eri incazzato."

  Frank sorrise. "Avresti potuto discutere con me un po' di più."

  "Quando uno ha ragione, ha ragione."

  "Mi ero sbagliato su quella Thomas."

  "Ti sei già scusato con lei, Frank."

  "Sento il dovere di scusarmi anche con te."

  "Non ce n'è bisogno."

  "Ma tu hai notato qualcosa, hai capito che stava dicendo la verità. A me non è neppure passato per l'anticamera del cervello. Ero su una pista completamente sbagliata. Dia­mine, mi ci hai fatto sbattere il naso contro e non me ne sono nemmeno accorto."

  "Be', restando in tema di nasi, probabilmente non hai fiutato la pista giusta perché il tuo naso era fuori fase."

  Frank annuì con aria triste. La sua faccia larga assomi­gliava al viso malinconico di un cane bastonato. "È colpa di Wilma. Il mio naso è fuori fase per colpa di Wilma."

  "La tua ex moglie?"

  "Già. Questa mattina hai colpito nel segno quando hai detto che sto iniziando a odiare le donne."

  "Deve averti fatto qualcosa di terribile."

  "Non importa quello che mi ha fatto," mormorò Frank. "Non è un buon motivo per ridurmi in questo stato."

  "Hai ragione."

  "Voglio dire, non è possibile sfuggire alle donne, Tony."

  "Ce ne sono dappertutto," ammise Tony.

  "Cristo, sai da quanto tempo non vado a letto con una donna?"

  "No."

  "Da dieci mesi. Da quando mi ha lasciato, quattro mesi prima del divorzio."

  Tony non sapeva che cosa dire. Non conosceva Frank sufficientemente bene per intavolare una discussione sulla sua vita sessuale, ma era ovvio che quell'uomo aveva un disperato bisogno di qualcuno che lo ascoltasse e lo aiu­tasse.

  "Se non mi ributto nel giro un po' in fretta, tanto vale che mi faccia prete."

  Tony annuì. "Certo che dieci mesi sono lunghi," bofon­chiò in tono goffo.

  Frank non rispose. Lasciò vagare lo sguardo sullo scotch come se fosse stata una boccia di cristallo in grado di pre­dire il futuro. Era chiaro che voleva parlare di Wilma, del divorzio e di ciò che sarebbe stato di lui, ma non se la sen­tiva di obbligare Tony ad ascoltare i suoi guai. Era molto orgoglioso. Voleva essere adulato, lusingato e invitato a parlare con domande discrete e ve
late.

  "Wilma ha forse trovato un altro uomo?" si informò Tony, rendendosi conto di essere andato al nocciolo della questione un po' troppo rapidamente.

  Frank non era ancora pronto a parlare di quell'argo­mento e finse di non sentire nemmeno la domanda. "Quello che mi scoccia è che inizio a fare troppe cazzate sul lavoro. Sono sempre stato dannatamente in gamba. Quasi perfetto, direi. Fino al divorzio. Poi sono diventato acido con le donne e subito dopo anche con il mio lavoro." Bevve un lungo sorso di scotch. "E che cosa diamine sta succedendo con quel dannato sceriffo di Napa County? Perché ha mentito per proteggere Bruno Frye?"

  "Prima o poi lo scopriremo," lo tranquillizzò Tony.

  "Vuoi qualcos'altro da bere?"

  "Va bene."

  Tony si rese conto che sarebbero rimasti a The Bolt Hole per parecchio tempo. Frank voleva parlare di Wilma, voleva liberarsi di tutto il veleno che si era formato dentro di lui e che lo stava divorando da circa un anno, ma sa­rebbe riuscito a farlo solo molto, molto lentamente.

  Per la Morte a Los Angeles quella fu una giornata caotica. Si erano verificate molte morti dovute a cause naturali e di conseguenza non sempre fu necessario ricorrere al bisturi affilato del medico legale. Ma l'ufficio del coroner aveva ben nove casi di cui occuparsi. C'erano state due vittime in un incidente stradale che sicuramente avrebbero richiesto una spiegazione. Due uomini erano morti per ferite di arma da fuoco. Un bambino era stato apparentemente per­cosso a morte dal padre violento e alcolizzato. Una donna era annegata nella sua piscina e due giovani erano stati stroncati da una probabile overdose. Poi c'era Bruno Frye.

  Giovedì sera, alle 19.10, sperando di recuperare il la­voro arretrato, un patologo dell'obitorio cittadino portò a termine un'autopsia parziale sul corpo di Bruno Gunther Frye, di sesso maschile, di origine caucasica, circa quarant'anni di età. Il medico non ritenne necessario sezionare il cadavere a eccezione della zona addominale, poiché si rese immediatamente conto che la morte era stata causata solo ed esclusivamente dalle due ferite inferte in tale punto. La ferita superiore non era grave: il coltello aveva lacerato il tessuto muscolare e sfiorato un polmone. La seconda ferita aveva compiuto un vero scempio: la lama aveva squarciato lo stomaco, perforando, fra l'altro, il piloro e il pancreas. La vittima era deceduta per una forte emorragia interna.

 

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