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Sussurri

Page 22

by Dean Koontz


  I clienti di Tannerton, i parenti delle salme, non entra­vano mai in quella stanza, dove l'amara realtà della morte era fin troppo evidente. Nell'ala anteriore della casa, dove le camere ardenti erano decorate con tende di velluto color porpora, dove l'impianto di illuminazione era espressamente soffuso, le scritte "trapassato" o "chiamato dal Si­gnore" potevano anche essere prese sul serio; in quegli am­bienti, l'atmosfera incoraggiava la fede nel paradiso e nel­l'ascesa dello spirito. Ma nel laboratorio, con la puzza dei liquidi per l'imbalsamazione che indugiava nell'aria e la scintillante disposizione degli strumenti da lavoro ben alli­neati su vassoi smaltati, la morte appariva tristemente oggettiva e inequivocabilmente definitiva.

  Olmstead sollevò il coperchio della bara di alluminio.

  Avril Tannerton ripiegò il lenzuolo di plastica, sco­prendo il corpo del morto dalla vita in su.

  Joshua abbassò lo sguardo sul cadavere ormai ingiallito e rabbrividì. "Orrendo."

  "Mi rendo conto che questo sia un momento difficile per lei," commentò Tannerton con il tono di chi è esperto nel dolore.

  "Per niente," ribattè Joshua. "Non voglio fare l'ipocrita che fìnge di provare dolore. Conoscevo molto poco que­st'uomo. E anche quel poco non mi piaceva per niente. Il nostro era un rapporto esclusivamente di lavoro."

  Tannerton battè le palpebre. "Oh, be'... allora forse pre­ferisce che l'organizzazione del funerale venga curata da uno degli amici del defunto."

  "Non credo che abbia mai avuto amici," commentò Jo­shua.

  Per un istante rimasero silenziosi a fissare la salma.

  "Orrendo," ripetè Joshua.

  "Ma è naturale," spiegò Tannerton. "Non è ancora stato fatto un lavoro di ricostruzione. Se avessi avuto la possibi­lità di occuparmene subito dopo la morte, avrebbe avuto si­curamente un aspetto migliore."

  "Ma ora non può farci niente?"

  "Certo che sì. Ma non sarà facile. Ormai è morto da un giorno e mezzo e, anche se è stato tenuto in frigorifero..."

  "Quelle ferite," lo interruppe bruscamente Joshua fis­sando con fascino morboso l'addome tremendamente rovi­nato. "Santo Dio, l'ha pugnalato sul serio."

  "La maggior parte di questo scempio è stato compiuto dal coroner," spiegò Tannerton. "Questa e quest'altra sono ferite da arma da taglio."

  "Il patologo ha fatto un ottimo lavoro con le labbra," ag­giunse Olmstead con tono soddisfatto.

  "Già, trovi anche tu?" commentò Tannerton, sfiorando le labbra sigillate del cadavere. "È difficile trovare un coro­ner che abbia il gusto dell'estetica."

  "Rarissimo," rincarò Olmstead.

  Joshua scosse il capo. "Ancora faccio fatica a crederci."

  "Cinque anni fa ho seppellito sua madre," iniziò a rac­contare Tannerton. "È stato in quel momento che l'ho co­nosciuto. Mi è subito sembrato un po'... strano, ma pen­savo che fosse solo per il colpo e il dolore. Era un uomo importante, un personaggio di spicco della comunità."

  "Era freddo," s'intromise Joshua. "Era un uomo estre­mamente freddo e controllato. Negli affari, era malvagio. Non si accontentava di vincere la battaglia contro un avver­sario. Se possibile, arrivava anche a distruggerlo completa­mente. Ho sempre creduto che fosse capace di crudeltà e violenza fisica. Ma chi avrebbe mai detto che sarebbe arri­vato a un tentativo di stupro? A un tentativo di omicidio?"

  Tannerton spostò lo sguardo su Joshua e disse: "Mr Rhinehart, avevo sentito dire che lei non ricorre mai a eufemi­smi. Lei è ammirato e rispettato perché dice sempre quello che pensa. Ma..."

  "Ma che cosa?"

  "Quando si parla di un morto, non crede che bisogne­rebbe?..."

  Joshua sorrise. "Figliolo, sono un vecchio bastardo ira­scibile e forse non così rispettato. Anzi! Finché potrò ser­virmi dell'arma della verità, non mi farò scrupoli di ferire la sensibilità di chi rimane in vita. Be', ho anche fatto pian­gere bambini e vecchie nonnette. Ho poca comprensione per gli stupidi e per i figli di puttana quando sono in vita. Quindi, perché dovrei cominciare ad averne quando sono morti?"

  "E solo che non sono abituato a..."

  "Ma certo. La sua professione le impone di parlare sempre bene dei morti, a prescindere da chi fossero in vita e dalle nefandezze che possono aver compiuto. Non gliene voglio per questo, è il suo mestiere."

  Tannerton non sapeva più che cosa dire e richiuse il co­perchio della bara.

  "Forza con i preparativi," riprese Joshua. "Vorrei tor­nare a casa per cena, ammesso che abbia fame quando uscirò da questo posto." Andò a sedersi su uno sgabello ac­canto a un contenitore di vetro dov'erano disposti gli ar­nesi del mestiere.

  Tannerton gli si piazzò di fronte, come un sacco lentiggi­noso e capelluto. "Crede sia il caso di organizzare la solita camera ardente per le visite?"

  "Solita?"

  "Con la bara aperta. Secondo lei sarebbe offensivo se evitassimo di farlo?"

  "Non ci avevo ancora pensato," rispose Joshua.

  "A dire la verità, non so fino a che punto riusciremo a rendere presentabile il defunto," spiegò Tannerton. "Quelli di Angels' Hill non ci hanno fatto molto caso durante l'im­balsamazione. Ha il viso leggermente svuotato e tirato. Non sono soddisfatto, non sono per niente soddisfatto. Po­trei cercare di gonfiarlo un po' di più, ma un lavoro di que­sto genere raramente dà buoni risultati. Per quanto ri­guarda l'estetica, be'... comincio a chiedermi se non sia pas­sato un po' troppo tempo. Insomma, ha tutta l'aria di es­sere rimasto esposto al sole per un paio d'ore dopo la morte. Inoltre è rimasto diciotto ore in frigorifero prima di essere sottoposto all'imbalsamazione. Sono sicuro di poter ottenere un risultato migliore, ma non credo di riuscire a riportargli sul viso l'espressione che aveva da vivo. Capisce, dopo tutto quello che ha passato, dopo essere stato esposto al calore del sole e dopo tutto questo tempo, la composi­zione dell'epidermide è cambiata radicalmente. Cipria e trucco non servirebbero gran che. Credo che forse..."

  Ormai nauseato, Joshua lo interruppe: "Allora scegliamo la bara chiusa."

  "Niente aperture?"

  "Niente aperture."

  "Ne è sicuro?"

  "Assolutamente."

  "Bene. Vediamo un po'... preferisce che venga seppellito con uno dei suoi vestiti?"

  "È necessario, considerando che la bara resterà chiusa?"

  "Per me sarebbe più semplice se indossasse una delle no­stre vestaglie funebri."

  "Perfetto."

  "Bianca o di un bel blu notte?"

  "Non ha niente a pois?"

  "A pois?"

  "Niente di arancione a strisce gialle?"

  Un sorriso appena accennato comparve sul volto serio dell'impresario di pompe funebri che dovette lottare per riuscire a nasconderlo. Joshua ebbe l'impressione che, in privato, Avril fosse un tipo divertente, un giocherellone pronto a farsi una bella bevuta in compagnia, ma evidente­mente la sua immagine pubblica gli richiedeva di essere sempre serio e discreto. Si era preoccupato visibilmente quando aveva permesso all'Avril privato di avere il soprav­vento su quello pubblico. E un probabile candidato a un esaurimento nervoso, pensò Joshua.

  "Allora optiamo per quella bianca," decise Joshua.

  "E la bara? Che genere..."

  "Lascio a lei la scelta."

  "Molto bene. Più o meno in che prezzo vuole stare?"

  "Può scegliere anche la più costosa. Può permetterselo."

  "Si dice in giro che l'eredità si aggiri intorno ai due, tre milioni di dollari."

  "Forse anche il doppio," corresse Joshua.

  "Ma non viveva da ricco."

  "Non è nemmeno morto da ricco," fece notare Joshua.

  Tannerton rimase a riflettere per un istante prima di proseguire: "Vuole un servizio religioso?"

  "Non andava in chiesa."

  "Allora chiamo un pastore?"

  "Come preferisce."

  "Terremo un breve servizio funebre al cimitero," spiegò Tannerton. "Leggerò un brano tratto dalla Bibbia, o ma­gari anche soltanto un brano ispirato a qualche opera non ben identificata."

  Presero accordi sull'orario della
funzione: domenica, alle due del pomeriggio. Bruno sarebbe stato seppellito ac­canto a Katherine, la madre adottiva, nel cimitero di Napa County.

  Mentre Joshua stava per andarsene, Tannerton disse: "Spero che fino a questo momento il mio servizio sia stato di suo gradimento e le garantisco che farò tutto quanto è in mio potere perché anche il resto fili liscio come l'olio."

  "Bene," rispose Joshua. "Di una cosa mi ha convinto. Domani stenderò un testamento nuovo. Quando arriverà anche la mia ora, è mia intenzione essere cremato."

  Tannerton annuì. "Possiamo occuparci anche di questo."

  "Non mi faccia fretta, figliolo. Non mi faccia fretta."

  Tannerton arrossì. "Oh, non intendevo dire..."

  "Lo so, lo so, si calmi."

  Tannerton si schiarì la voce, imbarazzato. "La... ehm... l'accompagno io alla porta."

  "Non ce n'è bisogno. Troverò da solo la strada."

  Fuori, erano calate le tenebre, scure e profonde. Sopra la porta di servizio c'era un'unica lampadina che illuminava l'oscurità vellutata solo per pochi metri.

  Nel tardo pomeriggio si era alzata una leggera brezza che, con il calar della sera, si era trasformata in vento. L'a­ria era agitata e fredda: il vento sibilava e fischiava.

  Joshua si diresse alla macchina, parcheggiata oltre il se­micerchio di luci pallide. Mentre stava per aprire la por­tiera, venne colto dalla strana impressione di essere osser­vato. Si voltò a guardare la casa, ma alle finestre non c'era nessuno.

  Qualcosa si muoveva nell'ombra, a pochi metri di di­stanza. Dalle parti del garage. Fu soltanto una sensazione. Joshua aguzzò la vista, che ormai non era più quella di un tempo: non riuscì a intravedere nulla nel buio della notte.

  Sarà il vento, pensò. Il vento che agita i rami delle piante e i cespugli oppure che trascina via con sé un gior­nale abbandonato per strada.

  Ma qualcosa si mosse di nuovo. E questa volta la vide. Era accucciata davanti a una fila di arbusti che fiancheg­giava il garage. Non riuscì a coglierne i particolari. Era sol­tanto un'ombra, una macchia nera e rossastra che si sta­gliava sul fondo scuro della sera, impalpabile, goffa e inde­finita come tutte le ombre. Ma questa si muoveva.

  Sarà un cane, pensò Joshua. Un cane randagio. Oppure un ragazzino in vena di scherzi. "C'è qualcuno?" Nessuna risposta. Si scostò leggermente dall'auto.

  L'ombra arretrò di qualche passo lungo la fila di arbusti. Si fermò in un punto particolarmente scuro, sempre accuc­ciata, sempre vigile.

  Non è un cane, pensò Joshua. È troppo grosso per essere un cane. Forse è un ragazzino. Forse è alle prese con qual­che scherzetto. Forse ha in mente di compiere un atto van­dalico.

  "Chi va là?" Silenzio.

  "Forza, fatti vedere."

  Nessuna risposta. Solo il sussurro del vento. Joshua si mosse verso l'ombra nascosta fra gli arbusti, ma venne immediatamente bloccato dall'improvvisa consa­pevolezza del pericolo che stava per correre. Un tremendo pericolo. Mortale. Di fronte a quella minaccia provò tutta la serie di possibili reazioni animali: il brivido lungo la spina dorsale, i capelli che gli si rizzavano sulla testa e il cranio che si stringeva, il cuore che iniziava a sobbalzare, la bocca che si prosciugava, le mani che si stringevano e l'u­dito che tutt'a un tratto si faceva più acuto che mai. Joshua s'inarcò, drizzando le possenti spalle, inconsciamente alla ricerca di una posizione di difesa. "Chi c'è?" ripetè.

  L'ombra si voltò e andò a schiantarsi contro gli arbusti. Poi si precipitò nei vigneti che circondavano la proprietà di Avril Tannerton. Per qualche secondo ancora, Joshua udì il rumore che si affievoliva gradatamente, il tonfo sordo di passi che correvano e il respiro affannoso sempre più lon­tano. Poi il vento rimase l'unico suono nella notte.

  Voltandosi un paio di volte, si diresse nuovamente alla macchina. Salì a bordo, chiuse la portiera. Con la serratura.

  In quel momento, l'incontro cominciò ad assumere una sfumatura irreale, sempre più onirica. C'era veramente qualcuno nascosto nell'ombra che lo stava osservando? C'era stato veramente un pericolo oppure era stato solo frutto della sua immaginazione? Dopo aver trascorso mez­z'ora nel mostruoso laboratorio di Avril Tannerton, era possibile sussultare al minimo rumore e mettersi alla ri­cerca di orrende creature nella notte? Mentre i muscoli si rilassavano, mentre il cuore rallentava i battiti, Joshua co­minciò a pensare di essersi comportato da stupido. A poste­riori, il pericolo che aveva percepito con tanta forza nell'a­ria assumeva il sapore della fantasia, della stravaganza det­tata dalla notte e dal vento.

  Al massimo, poteva essere stato un ragazzino. Un van­dalo.

  Mise in moto la macchina e si diresse verso casa, sor­preso e divertito dall'effetto che il laboratorio di Tanner­ton aveva avuto su di lui.

  Sabato sera, alle sette in punto, Anthony Clemenza arrivò davanti alla casa di Hilary con la sua jeep blu.

  La ragazza gli andò incontro. Indossava un morbido ve­stito di seta verde smeraldo con le maniche lunghe e una profonda scollatura. Erano più di quattordici mesi che non aveva un appuntamento galante e aveva quasi dimenticato qual era l'abbigliamento più adatto per il rituale del corteg­giamento: aveva impiegato due ore per decidere come ve­stirsi e si era sentita come una liceale al suo primo appunta­mento. Aveva accettato l'invito di Tony perché era l'uomo più interessante che avesse conosciuto negli ultimi tempi, ma anche perché voleva sforzarsi di vincere la sua naturale tendenza a estraniarsi dal resto del mondo. L'affermazione di Wally Topelis l'aveva colpita: Wally era convinto che lei utilizzasse la riservatezza come scusa per chiudersi nel pro­prio guscio e Hilary si era resa conto di quanta verità fosse racchiusa in quelle parole.

  Evitava di stringere amicizie e di trovarsi degli amanti perché temeva il dolore che solo gli amici e gli amanti pos­sono infliggere con i loro rifiuti e i loro tradimenti. Ma pro­teggersi dal dolore significava anche negare a se stessi il piacere della vera amicizia con persone che non l'avreb­bero tradita. Dai genitori alcolizzati aveva imparato che alle manifestazioni di affetto seguivano sempre esplosioni di collera e di furia e punizioni inaspettate.

  Era sempre pronta a rischiare quando si trattava di la­voro, ora era giunto il momento di affrontare anche la vita privata con lo stesso spirito d'avventura. Mentre si dirigeva verso la jeep con passo aggraziato, si sentì tesa per il coin­volgimento emotivo che quella danza a due avrebbe significato, ma nello stesso tempo si sentì attraente, giovane e fe­lice come da tempo non le capitava.

  Tony si precipitò ad aprirle la portiera. Inchinandosi da­vanti a lei, recitò: "La carrozza reale vi sta aspettando."

  "Oh, ci deve essere un errore. Non sono la regina."

  "Per me lo siete."

  "Sono solo una povera ragazza che lavora."

  "Siete molto più carina della regina."

  "Non fatevi sentire dalla regina! Potrebbe chiedere la vostra testa."

  "Troppo tardi."

  "Eh?"

  "Ormai, l'ho già persa per voi."

  Hilary sospirò.

  "Troppo mieloso?" domandò Tony.

  "Dopo questa sdolcinatura, ho bisogno di un po' di li­mone."

  "Ma ti è piaciuta?"

  "Sì, lo ammetto. Devo essere affamata di complimenti," affermò, salendo sulla jeep con un frusciare di seta.

  Mentre si dirigevano verso il Westwood Boulevard Tony chiese: "Ti sei offesa?"

  "Per che cosa?"

  "Per via di questa carretta."

  . "E perché mai dovrei offendermi per una jeep? Forse parla? Forse è capace di insultarmi?"

  "Non è una Mercedes."

  "Una Mercedes non è una Rolls-Royce. E una Rolls-Royce non è una Toyota."

  "Tutto questo mi puzza di filosofia Zen."

  "Se pensi che sia una snob, perché mi hai chiesto di uscire?"

  "Non penso che tu sia snob," si scusò Tony, "ma Frank sostiene che ci sentiremo imbarazzati perché tu hai più soldi di me."

  "Be', visti i precedenti, direi che Frank non è un gran che nel giudicare le persone."

  "Ha i suoi problemi," le spieg�
� Tony, immettendosi sul Wilshire Boulevard. "Ma sta cercando di uscirne."

  "Certo che a Los Angeles non se ne vedono molte di macchine come questa."

  "Di solito le donne mi chiedono se è la mia seconda au­tomobile."

  "A me non interessa."

  "A Los Angeles si dice che si è ciò che si guida."

  "Ah, davvero? Allora tu sei una jeep. E io una Mercedes. Quindi siamo due automobili, non due persone. Do­vremmo andare da un benzinaio a farci cambiare l'olio e non al ristorante a cenare. Ma ti sembra logico?"

  "No, per niente," rispose Tony. "A dire la verità, ho una jeep perché in inverno mi piace andare a sciare. Con que­sto carro armato sono sicuro di poter arrivare ovunque, an­che con il brutto tempo."

  "Mi piacerebbe imparare a sciare."

  "Ti insegnerò io. Bisognerà aspettare ancora qualche set­timana, ma tra poco cadrà la prima neve a Mammoth."

  "E chi ti dice che tra qualche settimana saremo ancora amici?"

  "E perché no?"

  "Magari litigheremo furiosamente questa sera, al risto­rante."

  "Per che cosa?"

  "Politica."

  "Considero i politici dei bastardi affamati di potere, troppo incompetenti per vedere oltre il proprio naso."

  "Sono d'accordo."

  "Sono un fautore del libero arbitrio."

  "In un certo senso, anch'io."

  "E allora perché dovremmo discutere?"

  "Forse litigheremo per questioni religiose."

  "Sono cattolico di nascita. Ma ormai mi considero ateo."

  "Anch'io."

  "A quanto pare non riusciamo a litigare."

  "Be'," riprese Hilary, "forse apparteniamo a quel genere di persone che discutono per delle sciocchezze."

 

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