Sussurri

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Sussurri Page 25

by Dean Koontz


  Alle tre del mattino, Joshua Rhinehart si svegliò, bronto­lando e lottando con le lenzuola aggrovigliate. A cena aveva bevuto un po' troppo ed era una cosa alquanto inso­lita per lui. Il ronzio alle orecchie se n'era andato ma la ve­scica lo stava facendo impazzire. A ogni modo, non era stato solo un bisogno fisiologico a rendere agitato il suo sonno. Aveva avuto un incubo legato al laboratorio di Tannerton: molti cadaveri, copie esatte di Bruno Frye, si erano alzati dalle casse e dai tavoli d'acciaio per l'imbalsama­zione. Nell'oscurità della notte si era precipitato oltre Forever View, ma quei corpi l'aveva inseguito, squarciando le tenebre per riuscire a raggiungerlo e chiamandolo più volte con la piatta voce della morte.

  Joshua Rhinehart rimase sdraiato sulla schiena, al buio, con lo sguardo fisso al soffitto che non era in grado di ve­dere. L'unico rumore era il ticchettio quasi impercettibile della sveglia elettronica posta sul comodino.

  Fino alla morte della moglie, avvenuta tre anni prima, Joshua aveva sognato ben poche volte. E non aveva mai avuto un incubo. Nemmeno uno in cinquantotto anni di vita. Ma da quando Cora se n'era andata, era cambiato tutto. Gli capitava di sognare almeno un paio di volte la settimana e molto spesso si trattava di incubi. La maggior parte delle volte aveva l'impressione di perdere qualcosa di terribilmente importante ma indescrivibile; ne derivava sempre una ricerca frenetica e senza speranze. Non aveva certo bisogno di uno psichiatra da cinquanta dollari a visita per capire che quei sogni si riferivano a Cora e alla sua morte prematura. Non aveva ancora imparato a vivere senza di lei. Forse non ci sarebbe mai riuscito. A volte gli incubi erano invece popolati da morti viventi che assume­vano le sue sembianze, quasi a simboleggiare la sua stessa mortalità. Ma quella sera assomigliavano tutti in modo sor­prendente a Bruno Frye.

  Scese dal letto, si stirò e sbadigliò. Si trascinò fino al ba­gno senza nemmeno accendere la luce. Due minuti più tardi fece per ritornare a letto e si fermò davanti alla fine­stra. I vetri erano freddi al tatto. Fuori soffiava un forte vento che premeva sul vetro producendo un gemito quasi animalesco. La valle era silenziosa e buia, a eccezione della luce nei vigneti. In cima alle colline, in direzione nord, scorse la Shade Tree Vineyards.

  Improvvisamente la sua attenzione fu attirata da un puntino bianco a sud del vigneto, una luce vaga e indistinta proveniente più o meno dalla casa di Frye. Luce nella casa di Frye? Non doveva esserci nessuno. Bruno viveva da solo. Joshua strabuzzò gli occhi, ma senza occhiali non riu­sciva a mettere a fuoco nulla. Era difficile dire se la luce proveniva davvero dalla casa di Frye o da una delle costru­zioni sorte in mezzo alla tenuta. Continuò a fissare quel punto luccicante e si convinse sempre più che non era una vera luce: era pallida e tremolante, probabilmente solo un riflesso della luna.

  Si avvicinò al comodino e cercò a tastoni gli occhiali: non voleva accendere la luce e rimanere così abbagliato. Prima di riuscire a trovarli, rovesciò il bicchiere d'acqua posto accanto alla sveglia.

  Quando tornò alla finestra, la misteriosa luce sulla col­lina era scomparsa. Decise comunque di restare a control­lare, come un vigile guardiano. Era l'esecutore testamenta­rio di Frye ed era suo dovere ripartire i beni secondo la vo­lontà del defunto. Se i ladri stavano svaligiando quella casa, doveva intervenire. Rimase immobile per quindici mi­nuti, lo sguardo verso le colline, ma la luce non si riaccese.

  Alla fine si convinse che la vista lo aveva ingannato e tornò a letto.

  Lunedì mattina. Mentre in coppia con Tony cercava di se­guire possibili indizi su Bobby Valdez, Frank riferì anima­tamente della serata trascorsa con Janet Yamada. Janet era talmente carina. Janet era talmente intelligente. Janet era talmente comprensiva. Janet era questo. Janet era quello. Tony non ne poteva più di Janet Yamada ma lasciò che l'a­mico si sfogasse a ruota libera. Era bello vedere che Frank parlava e si comportava come un qualsiasi essere umano.

  Prima di mettersi in strada, Tony e Frank avevano parlato con due membri della Narcotici, gli investigatori Eddie Quevedo e Carl Hammerstein. I due avevano ipotizzato la probabilità che Bobby Valdez stesse spacciando cocaina o polvere d'angelo per poter continuare con il poco proficuo mestiere di stupratore. Sul mercato della droga di Los Angeles erano queste due sostanze, tanto illegali quanto cono­sciute, a rendere più soldi di qualsiasi altra. Gli spacciatori riuscivano ancora ad arricchirsi con l'eroina e l'erba, che però avevano smesso di essere gli articoli più redditizi del settore. Secondo la Narcotici, se Bobby era coinvolto nel traffico degli stupefacenti, doveva per forza essere uno spac­ciatore da strada, l'ultimo anello della grande catena, l'uomo che vendeva direttamente agli acquirenti. Quando era uscito di prigione in aprile era praticamente senza un centesimo e, per diventare produttore o importatore di stu­pefacenti, avrebbe avuto bisogno di ingenti capitali. "Do­vete cercare un qualsiasi spacciatore da strapazzo," aveva consigliato Quevedo. "Indagate per le strade." Hammer­stein aveva aggiunto: "Vi forniremo una lista di nomi e indi­rizzi di tutti coloro che sono stati schedati per traffico di stupefacenti. Con tutta probabilità molti sono tornati a spac­ciare, anche se non siamo ancora riusciti a prenderli con le mani nel sacco. Metteteli sotto pressione. Prima o poi trove­rete qualcuno che ha incontrato per strada Bobby o che sa dove si è nascosto." Sulla lista di Quevedo e Hammerstein c'erano ventiquattro nomi.

  I primi tre non erano in casa. Altri tre giurarono di non conoscere alcun Bobby Valdez o Juan Mazquezza: comun­que nessuno che somigliasse al tizio della foto segnaletica.

  Il settimo della lista era Eugene Tucker. Questa volta fe­cero centro, senza nemmeno dover ricorrere alle minacce.

  La maggior parte dei neri ha la pelle di una sfumatura più o meno scura di marrone ma Tucker era veramente nero. Aveva il viso rotondo e liscio, nero come la pece. Gli occhi scuri erano molto più chiari della pelle. Aveva una barba riccioluta, innevata qua e là da piccoli ciuffetti can­didi che, a parte il bianco degli occhi, erano l'unica cosa che spiccava in mezzo a tutto quel nero. Indossava persino camicia e calzoni neri. Era robusto, con il torace ampio, le braccia enormi e il collo largo come una trave portante. Aveva l'aria di chi spacca in due i binari della ferrovia, tanto per esercitarsi o divertirsi.

  Tucker abitava sulle colline di Hollywood, in una vil­letta a schiera spaziosa e arredata con gusto. Nel salotto c'erano solo quattro pezzi: un divano, due sedie e un tavo­lino da caffè. Niente tavolo od oggetti d'arredamento. Niente stereo. Niente televisore. Non c'erano nemmeno lampade: alla sera la stanza veniva illuminava unicamente dalla lampadina che pendeva dal soffitto. Ma quegli unici pezzi erano di ottima qualità e ognuno di loro metteva in risalto l'altro. Tucker era un appassionato di antichità ci­nesi. Il divano e le sedie, rivestiti in tessuto verde giada, avevano la struttura in legno di palissandro lavorata a mano. Erano esemplari unici di un paio di secoli prima, in­credibilmente pesanti e ben conservati. Anche il tavolino era in legno di palissandro orlato da un sottile intarsio di avorio. Tony e Frank si accomodarono sul divano, mentre Tucker si appollaiò sull'orlo della sedia di fronte.

  Tony fece scorrere la mano lungo il bracciolo del divano e osservò: "Mr Tucker, è un oggetto stupendo."

  Tucker alzò un sopracciglio. "Lei se ne intende?"

  "Non saprei dirne con esattezza il periodo," rispose Tony. "Ma di arte cinese ne so quel tanto che basta per rendermi conto che questo divano non è un'imitazione ac­quistata in saldo ai grandi magazzini."

  Tucker scoppiò a ridere, felice che Tony avesse ricono­sciuto il valore del divano. "So che cosa sta pensando," disse allegramente. "Si sta domandando come un ex galeotto, uscito di galera da soli due anni, possa permet­tersi tutto questo: una casa da milleduecento dollari al mese arredata con pezzi d'antiquariato cinese. Forse so­spetta che abbia ripreso a spacciare eroina o chissà che al­tro."

  "A dire il vero, non stavo pensando a niente del genere," rispose Tony. "Mi sto chiedendo come diavolo ha fatto, ma so che non è grazie allo spaccio di droga."

  "E come fa a esserne tanto sicuro?"

  "Se lei fosse uno spacciatore di droga con la passione per l'antiquariato cinese," spi
egò Tony, "arrederebbe tutta la casa in un colpo solo e non un pezzo alla volta. E evidente che sta guadagnando bene, ma non come ai tempi in cui vendeva stupefacenti."

  Tucker scoppiò nuovamente a ridere, applaudendo con le grandi mani nere. Si voltò verso Frank e disse: "Il suo compagno è perspicace."

  "Un vero Sherlock Holmes," confermò Frank.

  "Soddisfi la mia curiosità," riprese Tony. "Che cosa fa adesso?"

  Tucker si sporse in avanti, improvvisamente corrucciato. Sventolò un pugno e assunse un'espressione imponente, cattiva e minacciosa. Rispose con un grugnito: "Disegno vestiti."

  Tony rimase a bocca aperta.

  Lasciandosi cadere pesantemente sulla sedia, Tucker scoppiò a ridere di nuovo. Era uno degli uomini più allegri che Tony avesse mai conosciuto. "Disegno vestiti da donna," spiegò. "È la verità. Il mio nome sta cominciando a essere conosciuto nell'ambiente californiano e un giorno diventerà una firma vera e propria. Potete esserne certi."

  Incuriosito, Frank proseguì: "Secondo le nostre informa­zioni, lei ha scontato quattro anni su otto di sentenza per spaccio di eroina e cocaina. Tutto questo che cos'ha a che vedere con la creazione di vestiti da donna?"

  "Un tempo ero uno sporco figlio di puttana," rispose Tucker. "E in prigione ero anche peggiorato. Incolpavo la società per tutto quello che mi era successo. Incolpavo la maledetta struttura dei bianchi. Incolpavo il mondo intero e non mi addossavo alcuna responsabilità. Pensavo di es­sere un vero duro, ma ancora non ero cresciuto. Non ci si può considerare uomini veri finché non si è disposti ad af­frontare le proprie responsabilità. Molti non le affrontano mai."

  "E che cos'è stato a farla cambiare?" domandò Frank.

  "Un'inezia," spiegò Tucker. "E incredibile come a volte un piccolo dettaglio possa cambiare la vita di una persona. Nel mio caso si è trattato di un programma televisivo. Al telegiornale delle sei, trasmettevano una serie di servizi su persone di colore che erano riuscite a sfondare nella vita."

  "Li ho visti anch'io," confermò Tony. "Sono passati più di cinque anni, ma me li ricordo ancora."

  "Erano molto interessanti," continuò Tucker. "Propone­vano un'immagine di nero che raramente la gente conosce. All'inizio tutti credevano che si sarebbero rivelati ridicoli. Pensavamo che il reporter avrebbe fatto sempre la stessa domanda a tutti gli intervistati: 'Perché i poveri uomini di colore non possono lavorare e arricchirsi come Sammy Davis Jr?' Ma non si sono rivolti a personaggi della televisione o del cinema."

  Tony ricordava che si era trattato di un gran bell'esem­pio di giornalismo, soprattutto per la televisione, dove le notizie, e soprattutto quelle a carattere umano, raggiunge­vano la profondità di una tazza da tè. I reporter avevano intervistato uomini e donne d'affari di colore che erano riu­sciti a sfondare, gente che aveva iniziato dal nulla e che aveva fatto i miliardi; avevano parlato di rappresentanti del mondo dell'edilizia, del mercato della ristorazione, del pro­prietario di una catena di saloni di bellezza. In totale una decina di persone. Tutti erano concordi nell'affermare che il colore della pelle ostacolava la strada del successo, ma non come pensavano prima di iniziare la carriera. Anzi, era più facile sfondare a Los Angeles che in Alabama o nel Mississippi o persino a Boston e New York. C'erano più miliardari di colore a Los Angeles che nel resto della California e negli altri quarantanove stati della federazione. A Los Angeles, tutti ingranavano la quarta; il californiano meridionale tipico non si limitava ad abituarsi ai cambia­menti, ma li cercava attivamente e ci sguazzava dentro. L'atmosfera costantemente innovativa e sperimentale atti­rava qualche folle, ma anche molte delle menti più brillanti e progredite della nazione, motivo per cui la maggior parte dei risultati culturali, scientifici e industriali provenivano da quella regione. Erano pochi i californiani del sud ad avere tempo e pazienza da sprecare in atteggiamenti fuori moda, come per esempio il pregiudizio razziale. Natural­mente c'erano razzisti anche a Los Angeles. Ma mentre una famiglia di proprietari terrieri in Georgia poteva richiedere sei generazioni per superare i pregiudizi nei confronti dei neri, nel sud della California la trasformazione arrivava a compiersi nel giro di una sola. Come aveva dichiarato uno degli intervistati del servizio televisivo: "Ormai i musi neri di Los Angeles sono i messicani." Ma anche questo stava cambiando. La cultura ispanica veniva considerata sempre con maggior rispetto, mentre la gente di colore continuava a mettere a segno sempre più successi. A spiegazione del­l'insolita fluidità delle strutture sociali della California del Sud e dell'entusiasmo con cui i suoi abitanti accettavano i cambiamenti, gli intervistatori avevano addossato la re­sponsabilità alla geologia. Quando si vive su una delle fa­glie più pericolose del mondo, quando la terra può tre­mare, muoversi e cambiare da un momento all'altro senza il minimo preavviso, la consapevolezza dell'instabilità può ar­rivare a influenzare inconsciamente l'atteggiamento di una persona nei confronti di mutamenti meno cataclismici? Per la maggior parte, gli intervistati di colore si erano rivelati d'accordo con quella teoria. Anche Tony ne sembrava convinto.

  "Hanno presentato una decina di ricconi neri," riprese Eugene Tucker. "Molti, tra cui anch'io, si sono messi a fi­schiare il programma e gli intervistati sono stati sopranno­minati Zio Tom. Ma poi ci ho riflettuto. Se quelli che erano apparsi in televisione ce l'avevano fatta nel mondo dei bianchi, perché non dovevo tentare anch'io? Mi rite­nevo furbo e intelligente come le persone che avevo visto parlare, anzi in alcuni casi ancora più in gamba. E nella mia mente si è accesa una lampadina, una nuova immagine del nero, una nuova idea. Los Angeles era la mia casa. Se era vero che sapeva offrire quelle possibilità, perché non do­vevo approfittarne? Sicuramente alcuni degli intervistati avevano dovuto comportarsi come lo Zio Tom per arrivare in alto. Ma una volta raggiunto il successo, una volta gua­dagnato il primo miliardo, non si è più l'uomo di nessuno." Sorrise. "È stato così che ho deciso di diventare ricco."

  "Detto, fatto," commentò Frank, impressionato.

  "Detto, fatto."

  "Il potere dell'ottimismo."

  "Il potere del realismo," lo corresse Tucker.

  "Ma perché la moda femminile?" domandò Tony.

  "Mi sono sottoposto ad alcuni test attitudinali e ho sco­perto di essere portato per il lavoro di stilista o per qualsiasi attività collegata con l'arte. Poi ho cercato di scoprire qual era l'oggetto che più mi sarei divertito a creare. Mi è venuto in mente che mi era sempre piaciuto aiutare le ra­gazze a scegliere i propri vestiti. Mi piaceva accompagnarle a fare spese. E mi sono accorto che, quando si mettevano il vestito scelto da me, ricevevano più complimenti del solito. Così mi sono iscritto a un corso universitario riservato ai detenuti e ho iniziato a studiare design. Ho frequentato an­che diversi corsi di economia. Quando sono uscito, ho la­vorato per un po' in un fast food. Abitavo in una camera ammobiliata da quattro soldi e dovevo ridurre le spese al minimo. Ho disegnato qualche modello, ho pagato una sarta perché me lo realizzasse e ho iniziato a vendere le mie creazioni. All'inizio non è stato per niente facile. Anzi, è stato durissimo! Ogni volta che mi arrivava l'ordine di un negozio, dovevo portarlo in banca per strappare un pre­stito che mi sarebbe servito per produrre i vestiti. Caspita, mi sono arrampicato sui vetri. Ma poi la situazione è mi­gliorata e adesso me la cavo bene. Aprirò un negozio tutto mio in un bel quartiere e prima o poi vedrete un'insegna a Beverly Hills con la scritta 'Eugene Tucker'. Ve lo garanti­sco."

  Tony scosse il capo. "Lei è una forza."

  "Non è questo," rispose Tucker. "E solo che vivo in un posto forte in un momento forte."

  Frank teneva in mano la busta con le foto segnaletiche di Bobby "Angelo" Valdez. Se la battè sulla gamba, lanciò un'occhiata a Tony e disse: "Credo che stavolta ci siamo ri­volti alla persona sbagliata."

  "Così pare."

  Tucker si sporse in avanti. "Che cosa volevate?"

  Tony iniziò a parlargli di Bobby Valdez.

  "Be', non bazzico più l'ambiente di una volta," rispose Tucker, "però non ho perso tutti i contatti. Ogni settimana, dedico una ventina di ore del mio tempo alla Self-Pride, un'associa
zione della città che combatte la droga. In un certo senso, credo di avere ancora qualche debito da pa­gare, giusto? I volontari della Self-Pride trascorrono la metà del proprio tempo a parlare con i ragazzi e l'altra metà a preparare un programma di raccolta di informa­zioni, una specie di telefono azzurro, sapete che cosa vuoi dire?"

  "Ricevete chiamate di denuncia?" domandò Tony.

  "Esatto. Esiste un numero telefonico che la gente può chiamare per sporgere denunce anonime nei confronti di eventuali spacciatori. Comunque, alla Self-Pride non aspet­tiamo che la gente ci chiami. Battiamo a tappeto le zone dove sappiamo che lavorano gli spacciatori. Bussiamo alle porte, parliamo con i ragazzi e con i genitori e cerchiamo di strappare ogni minima informazione. Poi apriamo un dossier per ogni spacciatore e, quando riteniamo di avere abbastanza carne sul fuoco, passiamo la pratica al diparti­mento di polizia. Quindi, se questo Valdez sta spacciando, c'è qualche possibilità che io abbia informazioni sul suo conto."

  "Devo ammettere che Tony ha ragione, lei è una forza," confermò Frank.

  "No, non ho alcun bisogno di pacche amichevoli sulle spalle per il lavoro che svolgo con la Self-Pride. Non sono alla ricerca di complimenti. Ai miei tempi ho trasformato in drogati molti ragazzi che magari oggi sarebbero persone normali se non mi fossi messo sulla loro strada. Per pareg­giare i conti, ci vorrà molto tempo."

  Frank prese le fotografie e le allungò a Tucker. Il negro osservò tutt'e tre le pose. "Conosco questo bastardo. E uno dei trenta su cui stiamo lavorando in questo periodo."

  Il cuore di Tony prese a battere all'impazzata.

  "Ma adesso non si fa chiamare Valdez," fece notare Tucker.

  "Juan Mazquezza?"

  "Nemmeno. Credo che si faccia chiamare Ortiz."

  "Sa dove possiamo trovarlo?"

  Tucker si alzò. "Fatemi telefonare all'ufficio informa­zioni della Self-Pride. Forse loro hanno l'indirizzo."

 

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