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Sussurri

Page 28

by Dean Koontz


  "E allora che cosa c'è? Che cosa c'è che non va?"

  "Sono solo imbarazzato. Non voglio che lo sappia... nes­suno."

  "Sapere che cosa?"

  "Io... ho perso il controllo. Insomma... io... mi sono fatto la pipì addosso."

  Tony non sapeva che cosa dire.

  "Non voglio che ridano di me."

  "Nessuno riderà di te."

  "Ma, Cristo, me la sono fatta addosso... come un bam­bino."

  "Con tutto questo casino sul pavimento, chi vuoi che se ne accorga?"

  Frank si mise a ridere, gemendo contemporaneamente per il dolore, e strinse la mano di Tony ancora più forte.

  Un'altra sirena. A pochi isolati di distanza. Si stava avvi­cinando rapidamente.

  "L'ambulanza sarà qui fra un minuto."

  Con il passare del tempo, la voce di Frank si faceva sem­pre più debole. "Ho paura, Tony."

  "Ti prego, Frank, ti prego, non aver paura. Sono qui io. Tutto andrà bene."

  "Voglio... che qualcuno si ricordi di me," mormorò Frank.

  "Che cosa vuoi dire?"

  "Quando me ne sarò andato... voglio che qualcuno si ri­cordi di me."

  "Rimarrai fra noi ancora per un sacco di tempo."

  "Chi si ricorderà di me?"

  "Io. Io mi ricorderò di te."

  La sirena era a un solo isolato di distanza.

  "Sai una cosa? Credo... forse ce la farò. Il dolore è scom­parso improvvisamente."

  "Davvero?"

  "E un bene, no?"

  "Certo."

  La sirena si spense mentre l'ambulanza si fermava con uno stridio di freni praticamente sotto le finestre dell'ap­partamento.

  La voce di Frank era così sottile che Tony dovette avvi­cinarsi per poterlo udire. "Tony... stringimi." Lasciò andare la mano di Tony. Le dita gelide mollarono la presa. "Strin­gimi, per favore. Cristo. Stringimi, Tony. Ti prego."

  Per un attimo, Tony temette di peggiorare le condizioni del compagno, ma si rese immediatamente conto che non aveva più alcuna importanza. Si sedette sul pavimento in mezzo alla sporcizia e al sangue. Infilò un braccio sotto le spalle di Frank e lo aiutò a mettersi seduto. Frank tossì de­bolmente e la mano sinistra gli scivolò dalla pancia: dall'or­renda ferita dell'addome fuoriuscivano le budella. Frank aveva iniziato a morire quando Bobby aveva premuto il grilletto: non aveva mai avuto la benché minima speranza di sopravvivere.

  "Stringimi."

  Tony abbracciò Frank come meglio poté e lo strinse, lo strinse a sé come un padre avrebbe fatto con un bambino spaventato. Lo strinse e lo cullò dolcemente, mormorando­gli parole di conforto. Continuò a parlargli anche quando si rese conto che ormai era morto. Continuò a cullarlo dolcemente e serenamente, sussurrandogli tenere parole rassi­curanti.

  Lunedì pomeriggio alle quattro, l'operaio della società dei telefoni si presentò a casa di Hilary che gli mostrò dov'erano collocati i cinque apparecchi. L'uomo stava per ini­ziare a lavorare quando il telefono della cucina squillò.

  Hilary temette che fosse il solito interlocutore anonimo. Non voleva rispondere, ma l'operaio continuò a fissarla e al quinto squillo fu costretta ad afferrare il ricevitore. "Pronto?"

  "Hilary Thomas?"

  "Sì."

  "Sono Michael Savatino. Ricorda il Ristorante Savatino?"

  "Oh, ma certo. Non dimenticherò mai lei e il suo mera­viglioso ristorante. Abbiamo mangiato benissimo."

  "Grazie. Facciamo del nostro meglio. Senta, Miss Tho­mas..."

  "La prego, mi chiami Hilary."

  "Hilary, allora. Ha già sentito Tony oggi?"

  Improvvisamente si rese conto che la sua voce era carica di tensione. Capì, anche se a livello inconscio, che era suc­cesso qualcosa di terribile a Tony. Rimase per un attimo senza fiato e con la vista annebbiata.

  "Hilary? È sempre lì?"

  "È da ieri sera che non lo sento. Perché?"

  "Non vorrei allarmarla. C'è stato un piccolo incidente..."

  "Oh, mio Dio."

  "... comunque Tony non è ferito."

  "Ne è sicuro?"

  "Solo qualche graffio."

  "È in ospedale?"

  "No, no. Davvero, sta bene."

  La stretta allo stomaco si allentò leggermente.

  "Che tipo di incidente?" domandò.

  In poche parole, Michael le riferì della sparatoria.

  Tony sarebbe potuto morire. Hilary si sentì estrema­mente debole.

  "Tony l'ha presa male," proseguì Michael. "Decisamente male. Quando lui e Frank hanno iniziato a lavorare in­sieme, non andavano molto d'accordo. Ma poi le cose erano cambiate. Negli ultimi giorni, avevano imparato a conoscersi. E avevano finito col diventare molto amici."

  "Dov'è Tony adesso?"

  "A casa sua. La sparatoria è avvenuta questa mattina alle undici è mezzo. E tornato a casa verso le due e io sono stato con lui fino a pochi minuti fa. Avrei voluto fermarmi, ma ha insistito perché tornassi al ristorante. Gli ho chiesto di venire con me, ma non ha voluto. Non lo ammetterà mai, ma ha bisogno di qualcuno che gli stia vicino."

  "Andrò da lui," esclamò Hilary.

  "Speravo proprio che lo facesse."

  Hilary si diede una rinfrescata e si cambiò d'abito. Era pronta per uscire quindici minuti prima che l'operaio fi­nisse con i telefoni e quel quarto d'ora le parve intermina­bile.

  Mentre si dirigeva a casa di Tony, ripensò a come si era sentita quando aveva creduto che Tony fosse seriamente fe­rito, forse addirittura morto. Aveva sentito una stretta allo stomaco e un insopportabile senso di vuoto si era impadro­nito di lei.

  La sera precedente, prima di riuscire a prendere sonno, si era chiesta se per caso non fosse innamorata di Tony. Era possibile che amasse qualcuno dopo le torture fisiche e psi­cologiche che aveva dovuto patire da bambina, dopo quello che aveva appreso sulla terribile natura umana? E poteva amare un uomo che conosceva solo da pochi giorni? La situazione non era ancora ben chiara ma era certa che in tutta la sua vita non aveva mai provato una simile paura al­l'idea di perdere qualcuno.

  Giunta davanti all'appartamento di Tony, posteggiò ac­canto alla jeep blu.

  Abitava in un edificio a due piani. Sul balcone, accanto a uno degli appartamenti, erano appese delle campanelle che risuonavano malinconicamente nella brezza autunnale.

  Quando lui aprì la porta, non parve sorpreso di vederla. "Immagino ti abbia chiamato Michael."

  "Sì. Perché non l'hai fatto tu?" chiese.

  "Probabilmente ti avrà riferito che sono uno straccio. Come puoi vedere, ha esagerato."

  "È solo preoccupato per te."

  "Posso farcela," disse, abbozzando un sorriso. "Sto bene."

  Nonostante cercasse di non esternare il dolore che pro­vava per la morte di Frank, Hilary notò lo sguardo perso e gli occhi privi di espressione.

  Avrebbe voluto abbracciarlo e consolarlo, ma non era molto brava a trattare la gente soprattutto in un momento simile. Si rese conto inoltre che lui non era ancora pronto ad accettare l'appoggio che avrebbe potuto offrirgli.

  "Sto bene."

  "Comunque ti spiace se entro?"

  "Oh, certo. Scusami."

  Viveva in un minuscolo appartamento, tipico da scapo­lo, anche se il soggiorno era incredibilmente grande e ae­rato. Aveva il soffitto alto e una fila di finestre sul versante nord.

  "Un'ottima luce per un pittore," commentò Hilary.

  "È per questo che ho deciso di affittare questo buco."

  Assomigliava più a uno studio che a un soggiorno. Alle pareti erano appese una decina di quadri. Appoggiate con­tro il muro, erano state impilate molte altre tele, sessanta, forse settanta in tutto. Un paio di cavalietti reggevano le opere ancora incompiute. C'erano anche un grande tavolo da disegno, uno sgabello e un armadietto con gli attrezzi del mestiere. La libreria era stracolma di libri d'arte. Le uniche concessioni all'arredamento tipico di un soggiorno erano due divani, due tavolini e due lampade, raggnippati in un angolo. Nonostante fosse molto particolare, il locale si presentava caldo e accogliente.
r />   "Avevo deciso di ubriacarmi," disse Tony chiudendo la porta. "Ubriacarmi sul serio. Mi stavo giusto versando il primo drink quando hai suonato. Vuoi qualcosa?"

  "Che cosa stavi bevendo?" chiese lei.

  "Bourbon."

  "Va bene anche per me."

  Tony andò in cucina a preparare i drink e Hilary ne approfittò per dare un'occhiata da vicino ai suoi quadri. Alcuni erano iperrealistici: i particolari erano così det­tagliati, così accurati e rappresentati in modo così preciso che i quadri sembravano andare oltre la semplice fotogra­fia. Alcune tele erano di ispirazione surrealistica, ma lo stile era fresco e originale, ben lontano da quello di Dalì, Ernst, Mirò o Tanguy. Ricordavano più l'opera di René Magritte, ma neppure lui aveva utilizzato dettagli così pre­cisi nelle sue opere ed era quella visione incredibilmente realistica di Tony che rendeva gli elementi surrealisti così unici.

  Tony ritornò dalla cucina con due bicchieri di bourbon e Hilary esclamò: "Le tue opere sono così fresche ed ecci­tanti."

  "Davvero?"

  "Michael ha ragione. I tuoi quadri sarebbero facilissimi da vendere."

  "È carino pensare una cosa del genere. È un bel sogno."

  "Se solo provassi a..."

  "Come ti ho già detto, sei molto gentile, ma non sei un'esperta."

  Non era Tony che stava parlando. Aveva la voce dura e tagliente. Era stanco, teso e depresso.

  Hilary cercò di punzecchiarlo, nel tentativo di riani­marlo un po'. "Pensi di essere in gamba," esordì, "ma in realtà sei sordo. Quando si tratta del tuo lavoro, non vuoi sentire. Non vuoi vedere le effettive possibilità."

  "Sono solo un dilettante."

  "Stronzate."

  "Un dilettante piuttosto bravo."

  "A volte fai davvero venire il nervoso," sbottò lei.

  "Non voglio parlare di arte."

  Tony accese lo stereo: una sinfonia di Beethoven inter­pretata da Ormandy. Poi andò verso uno dei divani nel­l'angolo della stanza.

  Lei lo seguì e gli si sedette accanto. "Di che cosa vuoi parlare?"

  "Di cinema," rispose.

  "Davvero?"

  "Magari di libri."

  "Sul serio?"

  "O di teatro."

  "In realtà tu vuoi parlare di quello che è successo oggi."

  "No. Quella è l'ultima cosa."

  "Ma devi parlarne, anche se non ne hai voglia."

  "Voglio solo dimenticare tutto, cancellarlo dalla mia mente."

  "Allora vuoi giocare a fare lo struzzo," proseguì lei. "Credi di poter nascondere la testa sotto la sabbia per non vedere niente."

  "Esatto."

  "La settimana scorsa, quando volevo fuggire dal mondo, quando volevi convincermi a uscire con te, dicevi che non era giusto che una persona si chiudesse in se stessa dopo un'esperienza spiacevole. Sostenevi che era meglio condivi­dere le proprie emozioni con qualcun altro."

  "Avevo torto."

  "Invece avevi ragione."

  Tony chiuse gli occhi senza dire una parola.

  "Vuoi che me ne vada?" domandò.

  "No."

  "Se vuoi me ne vado. E non mi offendo."

  "Ti prego, rimani."

  "Va bene. Di che cosa vuoi parlare."

  "Di Beethoven e del bourbon."

  "Come vuoi."

  Rimasero seduti sul divano, a fianco a fianco, con gli oc­chi chiusi e la testa appoggiata indietro. Ascoltarono la mu­sica e sorseggiarono il bourbon, mentre il sole si trasfor­mava in una palla infuocata oltre le grandi finestre. Lenta­mente, la stanza si riempì di ombre.

  Lunedì sera, Avril Tannerton scoprì che qualcuno si era in­trodotto a Forever View. Se ne accorse quando scese in cantina, dove aveva allestito un piccolo laboratorio di fale­gnameria; notò che uno dei vetri della finestra era stato accuratamente coperto con del nastro adesivo e poi rotto per poter forzare la serratura. Era una finestra decisamente pic­cola ma un uomo robusto avrebbe potuto infilarcisi se solo avesse voluto.

  Avril era sicuro che non ci fosse nessuno in casa in quel momento. Inoltre sapeva che la finestra non era stata rotta venerdì notte perché se ne sarebbe accorto dal momento che aveva trascorso un'ora nel laboratorio cercando di por­tare a termine la sua ultima creazione: un armadietto per i suoi fucili e le pistole. Nessuno avrebbe avuto il coraggio di rompere la finestra in pieno giorno o quando Tannerton era a casa, quindi era da escludere anche la notte di dome­nica. L'uomo concluse che l'intruso doveva essersi intrufo­lato in casa sabato notte, mentre si trovava da Helen Virtillion a Santa Rosa. A Forever View non c'era nessuno sa­bato, a eccezione del corpo di Bruno Frye. Evidentemente il ladro sapeva che la casa era deserta e ne aveva approfit­tato.

  Un ladro.

  Ma che senso aveva?

  Un ladro?

  Non pensava che avessero rubato nulla dalle stanze aperte al pubblico del primo piano o dal suo apparta­mento. Era sicuro che avrebbe notato le tracce di un furto immediatamente dopo il suo ritorno, domenica mattina. Invece, le pistole erano ancora al loro posto, come pure la collezione di monete antiche: in pratica, i principali obiet­tivi di un eventuale ladro non erano stati toccati.

  Nel laboratorio di falegnameria, a destra della finestra rotta, c'erano attrezzi che potevano valere circa duemila dollari. Alcuni erano appesi ordinatamente alla parete, mentre altri erano appoggiati in una rastrelliera. Ma non mancava nulla.

  Non era stato rubato niente.

  Nessun atto di vandalismo.

  Perché mai un ladro avrebbe dovuto introdursi in casa sua solo per dare un'occhiata in giro?

  Avril osservò i frammenti di vetro e il nastro adesivo sul pavimento, poi la finestra rotta; controllò la cantina cer­cando di valutare la situazione e improvvisamente si rese conto che era stato rubato qualcosa. Erano scomparsi tre sacchi di calcina da venticinque chili ciascuno. In prima­vera, lui e Gary Olmstead avevano abbattuto il vecchio portico in legno posto davanti all'impresa di pompe fune­bri, per poi ricostruirlo in mattoni in modo estremamente professionale. Avevano anche provveduto a rifare il marciapiede ormai consunto e pieno di crepe, utilizzando mat­toni dello stesso tipo. Al termine dei lavori, si erano ritro­vati con tre sacchi di calcina avanzata, ma avevano pensato di conservarla per il patio che Avril aveva intenzione di co­struire in estate. E ora quei tre sacchi di calcina erano scomparsi.

  Invece che far luce sulla vicenda, quella scoperta non fece che renderla ancora più inspiegabile. Sconcertato e perplesso, Avril continuò a fissare il punto esatto in cui erano stati sistemati i sacchi.

  Perché mai un ladro avrebbe dovuto tralasciare i costosi fucili, le monete preziose e gli altri oggetti di valore per im­possessarsi di tre sacchi di calcina?

  Tannerton si grattò la testa. "Molto strano," bofonchiò.

  Dopo essere rimasto seduto accanto a Hilary per una ven­tina di minuti nell'oscurità crescente, dopo aver ascoltato Beethoven, dopo aver sorbito qualche bicchierino di bour­bon, Tony si ritrovò a parlare di Frank Howard. Non aveva alcuna intenzione di aprirsi l'animo davanti a lei, ma poi aveva cominciato a parlare; senza alcun preavviso gli era uscita una mezza frase e le parole avevano iniziato a fluire liberamente dalla bocca. Parlò ininterrottamente per mez­z'ora, fermandosi solo per qualche sorso di bourbon; rac­contò della prima impressione che aveva avuto di Frank, l'attrito iniziale che si era venuto a creare tra di loro, gli episodi comici e complessi del lavoro, la serata nebulosa passata a The Bolt Hole, l'appuntamento al buio con Janet Yamada e il rapporto affettuoso e comprensivo che era nato negli ultimi tempi. Quando infine arrivò all'apparta­mento di Bobby Valdez, prese a parlare sommessamente, con voce esitante. Chiudendo gli occhi, vedeva ancora la cucina disseminata di immondizia e sangue con la stessa chiarezza con cui notava i dettagli del suo salotto a occhi aperti. Cercando di spiegare a Hilary come ci si sente a te­nere fra le braccia un amico in punto di morte, iniziò anche a tremare. Provò un'ondata di freddo intenso: si sentiva la carne e le ossa di pietra e il cuore di ghiaccio. I denti pre­sero a battere. Comodamente sdraiato sul divano, immerso nelle ombre color porpora,
versò le prime lacrime che, sulla pelle gelata, sembrarono ustionanti. Erano lacrime alla memoria di Frank Howard.

  Hilary gli prese la mano. Poi lo strinse come lui aveva stretto Frank. Prese un tovagliolino per asciugargli il viso. Lo baciò sulle guance e sugli occhi.

  All'inizio si limitò a offrire un po' di consolazione ed era esattamente quello che anche lui stava cercando; poi, senza grandi sforzi da parte di nessuno dei due, quel gesto as­sunse gradualmente un altro significato. Tony l'abbracciò e, a quel punto, non fu più evidente chi stava abbracciando chi. Con le mani lui iniziò ad accarezzarle la schiena su e giù, e rimase sorpreso dalle splendide forme che stava toc­cando: la fermezza, la forza e la flessibilità di quel corpo sotto la camicetta lo eccitarono. Anche le mani di Hilary presero a vagabondare su di lui per accarezzare, stringere e assaporare i suoi muscoli possenti. Lo baciò all'angolo della bocca e Tony, preso dalla bramosia, ricambiò con passione. Le lingue si scontrarono e i baci si incendiarono, facendosi sempre più arditi: quando si staccarono il respiro era diventato affannoso.

  Si resero subito conto di quello che stava succedendo e, al ricordo dell'amico che avevano iniziato a compiangere, l'imbarazzo ebbe il sopravvento. Se in quel momento aves­sero prestato ascolto alle proprie, disperate esigenze, sa­rebbe stato come ridere a un funerale. Per un istante, pensarono di essere stati sul punto di commettere un atto im­ponderato e profondamente blasfemo.

  Ma il desiderio era tanto travolgente che riuscirono a su­perare tutti i dubbi sull'opportunità di fare l'amore proprio quella sera, fra tutte le sere. Ripresero a baciarsi timida­mente poi, colti dalla sete, si lasciarono trasportare dal mare delle sensazioni. Le mani di Hilary si muovevano esi­genti su di lui che ricambiava ogni attenzione. Tony capì che sarebbe stato giusto per tutt'e due assicurarsi un tocco di piacere. Fare l'amore in quel momento non sarebbe stato irrispettoso nei confronti dell'amico morto; sarebbe semplicemente stata una reazione nei confronti dell'ingiu­stizia della morte in sé e per sé. La loro sete insaziabile era il risultato di una serie di motivazioni fra le quali il dispe­rato bisogno di dimostrare a se stessi di essere ancora vivi, pienamente, inequivocabilmente e felicemente vivi.

  Per tacito accordo, si alzarono dal divano e si diressero in camera da letto.

 

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